Nella società contemporanea si è verificata una sorta di appropriazione indebita del termine “diritto” che un po’ tutti usano con negligenza e irresponsabilità. Senza mettere in conto che soprattutto sui suoi equivoci viene costruito l’ariete per demolire giorno dopo giorno la cinta muraria di una intera società.
di
Patrizia Fermani
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La confusione delle idee domina il discorso pubblico come quello privato, ed è confusione di parole che, come diceva Ratzinger, non hanno la riserva aurea del pensiero. Ma non è un fatto casuale. L’omologazione forzata dell’occidente, è avvenuta attraverso la illusione della libertà totale che ha fatto a meno della verità e delle parole che la esprimono . La parola non trasmette più il pensiero per il quale è stata forgiata, e quindi un suo codice tendenzialmente stabile, ma diventa ottimo veicolo di persuasione occulta adattabile a tutti gli usi del momento. Infatti siamo indotti ad appagarci facilmente di parole fasulle incapsulate nelle formule, rinunciando sia alla fatica personale del ragionamento e alla grazia delle idee sia ad un intero patrimonio di sapienza ed esperienza.
Le parole non sono mai innocue se usate a sproposito. Anche se in una memorabile seduta della Camera, grazie alla sensibilità presidenziale, ne fu ritenuta esecrabile una che era stata usata a proposito anche da Dante.
Ma oggi ad essere falsate sono quelle che esprimono le esperienze fondamentali della vita dell’uomo, e viene edificata così la moderna Babele abitata dall’uomo nuovo, che è al centro della rivoluzione permanente dell’etica, mentre il linguaggio abusato serve alla “ rieducazione “ mediatica del popolo ormai spogliato di un buon senso fuori moda. Del resto tutte le rivoluzioni hanno affidato a parole chiave adattate al programma eversivo, il compito di arruolare i nuovi eserciti.
La dignità, l’amore, la civiltà. Il dialogo. Il confronto, la libertà, la natura, la persona, la famiglia che ha scoperto di poter essere perfino “tradizionale”, e da ultimo anche la misericordia, sono pelletteria contraffatta che trova acquirenti ad ogni angolo di strada. Uno degli articoli più venduti di questa industria delle parole fasulle è stata ovviamente la democrazia. Essa è diventata l’ombrello magico di qualunque realtà politica, comprese le varianti delle dittature comuniste, ma anche delle fantasiose trovate libertarie che ci vengono propinate quotidianamente in nome dell’ egualitarismo democratico o del caos per tutti.
Ma la contraffazione della “democrazia” va a braccetto con quella del diritto che ne diventa la carta vincente. Ed è proprio sul suo abuso anche linguistico che si consuma ormai la attuale indiscussa rivoluzione culturale. Infatti la mistificazione lessicale del diritto, alimentata mediaticamente, prelude fatalmente all’accettazione collettiva delle scelte legislative più paradossali.
Persino la Chiesa, che era stata antica maestra del diritto, che ne aveva fondato le scuole e custodito il patrimonio, oggi sembra non comprenderne più la sostanza quando, facendo proprie le distorsioni del linguaggio giuridico, perde anche di vista l’unica propria legge di riferimento, la legge naturale dettata da Dio.
Il paradigma di questo abuso generalizzato ci è dato ora dai cosiddetti “diritti degli omosessuali”, correlati con quelli delle “coppie di fatto”. Formule ritenute imprescindibili persino da chi vorrebbe mostrarsi su posizioni critiche.
Diritto, in senso stretto, sta anzitutto ad indicare le leggi create dall’uomo che, ordinate in sistemi, danno luogo agli ordinamenti giuridici e quindi al diritto oggettivo. Quando poi la legge positiva accorda una certa tutela alla pretesa individuale riconosciuta meritevole di protezione giuridica , nasce il diritto soggettivo che come tale potrà essere fatto valere anche davanti al giudice. Tuttavia poiché la tutela concessa dalla legge ad un certo interesse comporta anche il sacrificio di risorse collettive, è necessario che essa corrisponda in qualche misura anche ad un interesse generale, secondo quell’ orientamento al bene comune che dovrebbe guidare sempre l’attività del legislatore.
In un senso o nell’altro, il diritto è di per sé realtà di valore relativo, mutevole, perché legata alla storicità delle leggi dell’uomo, e a quella degli interessi individuali che tali leggi elevano a diritti soggettivi, e alla relatività dei rispettivi valori di riferimento, e lascia irrisolto il problema della giustizia sostanziale delle leggi. Ma proprio per questo, già molto prima che il Cristianesimo indicasse nella legge naturale scritta da Dio, anche un criterio superiore di giustizia cui devono obbedire le leggi umane, la cultura antica sapeva che queste non sono necessariamente anche giuste e che sopra la volontà del sovrano c’è la volontà divina. Lo sapeva Salomone quando invocava la grazia di essere un legislatore giusto. Lo aveva gridato Antigone. Questo criterio superiore sul quale le leggi devono modellarsi è la difesa dall’arbitrio del legislatore e da quello dell’uomo sull’uomo.
Ora nelle formule che abbiamo preso a campione, vediamo anzitutto che il “diritto” perde il significato di interesse riconosciuto dal legislatore come meritevole della forte protezione della legge, mentre vi viene incorporata l’idea che ogni pretesa espressiva di una volontà desiderante abbia già in sé la propria giuridicità. In altre parole, la pretesa nasce già come diritto per il quale si deve richiedere tutt’al più una consacrazione formale da parte della legge positiva. È solo grazie a questa inversione logica, infatti, che si può parlare dei diritti “di “ qualcuno, prima ancora che la legge li abbia creati, li abbia cioè attribuiti “a “ qualcuno, cioè si può parlare quasi compulsivamente di diritti “degli omosessuali“ e dei diritti “delle coppie di fatto” come fossero una realtà acquisita e indiscutibile che aspetta soltanto di essere formalizzata, prima ancora che tale riconoscimento giuridico sia avvenuto. Ovviamente non si tratta affatto di un parlare sciatto ma innocuo. La conseguenza sconcertante è infatti che l’esistenza dei “diritti degli omosessuali” o “delle coppie di fatto”, appare tanto pacifica, che quasi nessuno si azzarda più a metterla in discussione, e che tutt’al più si ammette pensosamente l’esistenza di un problema di limiti e di forme. Eppure a nessuno verrebbe in mente di considerarsi titolare del diritto di proprietà di una casa per il solo fatto di volerla acquistare, e a nessuno verrebbe in mente di considerare Tizio proprietario di quella casa per il solo fatto che egli desidera averla per sé a tutti a tutti i costi.
D’altra parte dietro quell’apparente equivoco terminologico c’è in realtà la strategia di una vera e propria campagna di conquista che ha già prodotto i suoi frutti perché il sovvertimento dell’idea di diritto finisce per influenzare le scelte collettive e si fa strada l’abitudine mentale a pensare che quei fantomatici “diritti” esistano e non debbano quindi essere messi in discussione, dato che tutti ne parlano senza esitazioni.
Ma attraverso quelle formule, oltre all’idea che il diritto non venga creato dalla legge ma la preceda, ne viene inoculata un’altra. Quella per cui ogni pretesa che esprima una volontà desiderante, sia perciò stesso meritevole di tutela e racchiuda in se stessa un valore, indipendentemente dalle esigenze del bene collettivo.
In questo riconoscimento a priori di valore alla pretesa che ha ad oggetto semplicemente il desiderio personale, ovvero ”lo proprio particulare” eretto a valore, si manifesta il dato che caratterizza tutta la antropologia contemporanea: la supremazia dell’io e delle sue pulsioni. Ciò che viene desiderato deve diventare diritto perché in principio non c’è il Verbo, ma l’io. Quello con cui dialoga quotidianamente Scalfari, per delega pontificia maestro indiscusso in utroque, di morale laica e ora anche cattolica, folgorato dalla teologia ispanica su via della Conciliazione.
Ora è innegabile come questa diffusa pretesa di elevare i desideri a diritti soggettivi, sia l’ultimo approdo che segna lo straripamento del relativismo: esso va a fagocitare la stessa funzione ordinatrice del diritto oggettivo, e la volontà individuale diventa il criterio per stabilire ciò che è il bene.
Non per nulla si sventolano le Dichiarazioni dei neonati stati americani in cui trionfa, anche al di là delle intenzioni degli estensori, nientemeno che il “diritto alla felicità”. Che siccome non vuole dire nulla e non significa nulla di serio in seno al diritto, è una pietanza che ora non manca mai nella paccottiglia libraria e televisiva, e neppure manca mai di essere il punto di forza delle pensose riflessioni delle Concia , degli Scalfarotti, dei Recalcati, delle Marzano, di interi eserciti di omo socio psico pedagoghi, persino della sempre dialogante cultura ciellina, e da ultimo, finalmente, della ancor più dialogante, liberatoria, ben arieggiata, teologia vaticana. Così l’aspirazione personale, qualunque ne sia l’oggetto desiderato, viene eretta a causa prima legittimatrice del preteso “diritto”, non importa se magari in conflitto anche con la legge naturale e con la ragione.
La carriera folgorante dell’uomo moderno alla fine può essere riassunta tutta in questa conquista del diritto alla felicità, secondo prescrizione di legge, che avrebbe creato qualche turbamento ai giuristi classici come a San Tommaso e che ha il proprio motore nella libertà negativa. Quella in nome della quale oggi si può proclamare persino la bellezza del suicidio proprio e altrui!
Intanto, quasi nessuno dei tifosi della altrui felicità pare rendersi conto che dietro ai “diritti degli omosessuali”, c’è anzitutto una organizzazione potente esperta nelle strategie necessarie per le proprie conquiste di categoria. In questa strategia viene utilizzata con profitto anche la carta fasulla delle coppie di fatto che lungi dal rispondere ad una qualche esigenza “corporativa”, rappresentano solo la trovata strategica capace di consentire agli omosessuali l’accesso all’anticamera del matrimonio, da dove si arriva senza sforzo anche all’adozione dei minori. E la trovata è tanto efficace e ben congegnata da avere catturato senza colpo ferire, con poche confortanti eccezioni, tutta la più aggiornata
intellighenzia ecclesiastica.
Intanto un altro fattore lessicale viene a rafforzare questa prospettiva ormai comunemente accolta: con sapienza persuasiva, per dare peso istituzionale a queste pretese elevate magicamente a diritto, esse vengono addirittura inserite nella teca dei “diritti civili”, categoria per certi versi superata ma munita di innegabile forza suggestiva. Infatti, con i diritti civili non si scherza: essi evocano tutte le storiche rivendicazioni dei sudditi nei confronti dello Stato, e appartengono perciò alla storia patria. Quindi più o meno tutti sentono la gravità del richiamo e nessuno si azzarda più a pensare che la faccenda possa essere trascurata. I “diritti degli omosessuali“ sono “ diritti civili”, come l’elettorato attivo e passivo, per intenderci, la cittadinanza e il diritto al nome. Come si vede, un risultato di tutto rispetto.
Ma lo smottamento dal concetto di diritto a quello di pretese dissennate che si autocertificano come diritti e addirittura come “diritti civili”, senza incontrare ostacoli, merita un rilievo ulteriore . Infatti, quando si parla del “riconoscimento “ non “ di diritti “a qualcuno”, ma “dei diritti” di qualcuno, viene anche insinuata l’idea che si abbia a che fare con dei valori oggettivi cui spetta solo riconoscimento formale, perché essi sono connessi alla natura umana e appartengono all’uomo in quanto uomo. In altre parole si cerca di suggerire che essi siano sullo stesso piano di quegli altri diritti fondamentali che ognuno si porta appresso e può far valere in ogni momento contro chi ponga ostacoli alla loro realizzazione pratica. Insomma viene ventilato il richiamo sempre suggestivo ai famosi “diritti umani”. L’idea ovviamente è risibile quanto cervellotica , ma la cosa non è banale perché oggi tutto si gioca, appunto, sulla persuasione occulta. Per questo qui può tornare utile considerare un aspetto più generale e inquietante della attuale manipolazione del concetto di diritto.
Come è noto quella” dei diritti umani “ è conquista moderna. Prima c’era la visione cristiana dell’uomo che per essere stato forgiato da Dio a Sua immagine e somiglianza, godeva per questo di uno statuto privilegiato rispetto ad ogni altra creatura. Ma la civiltà occidentale ha ritenuto di potersi emancipare dal cristianesimo e di staccare il diritto dalla legge naturale. Marsilio da Padova ha separato la legge divina da quella umana proclamando la indipendenza dello Stato da qualunque sistema di valori diverso da quello che esso stesso si sia dato. Quando è emersa la necessità di una tutela del suddito nei confronti del potere sovrano, è stata teorizzata la intangibilità di certi diritti fondamentali, anche se legati a situazioni storicamente determinate. Tuttavia si è trattato di un’etica giuridica tutta concentrata fin dall’inizio proprio sul rapporto tra suddito e sovrano ovvero tra cittadino e Stato. E in questa prospettiva anche i diritti riconosciuti al suddito sono stati comunque una emanazione del potere dello Stato. Questo era stato anche il significato della Magna Charta che proclamava i diritti del suddito, ma pur sempre come elargiti benignamente dal sovrano. Ciò non toglie che col tempo si sia fatta strada l’esigenza di proclamare universalmente l’intangibilità da parte di qualsivoglia legislatore e potere politico, di quei valori che appartengono all’uomo in quanto uomo, e sono a priori suoi diritti inviolabili. Su tale idea verranno formulate le Dichiarazioni universali dei diritti dell’uomo , quasi versione laica della teoria della legge naturale perfezionata da San Tommaso per la teologia cattolica. Ma pur sempre emanazioni di un potere politico e fondate sul presupposto della autonomia dei valori di riferimento.
Per questo non bisogna dimenticare che in realtà, ed è un aspetto non poco inquietante, anche i “diritti umani” sono legati alle burocrazie internazionali o alle Costituzioni nazionali che li contemplano e sono anch’essi relativi, variabili, riformabili a seconda delle circostanze politiche e dal consenso mediaticamente preparato, e possono non avere nulla a che fare con la legge naturale assoluta, cioè con la legge di Dio. Non per nulla quelle burocrazie sono arrivate a partorire perfino i “diritti riproduttivi ”, che sono il diritto della donna di uccidere il bambino che ha in grembo, il cui diritto alla vita, garantito questo sì dalla legge naturale, viene così declassato senza indugio di fronte al supposto diritto di libertà della madre.
Così mentre la legge naturale riconducibile alla volontà di Dio, quella che è stata codificata dai comandamenti e dal Vangelo, è immutabile data l’invariabilità del Suo legislatore, (al di là di quello che pensano i Kasper, i Forte e il Parlamento sinodale in sintonia col vescovo di Roma), le Carte dei diritti e le Dichiarazioni solenni adottate nei consessi internazionali, hanno una matrice politica e culturale che ne segna il limite. Così anche i diritti umani tendono a diventare non tanto quelli che appartengono all’uomo, quanto quelli che dall’uomo possono essere creati. Infatti, trovando il proprio modello soprattutto nella Dichiarazione dell’89, portano con sé l’ insanabile vizio di origine della libertà assoluta dell’uomo quale valore fondante, di quella libertà senza limiti in nome della quale si può dare spazio anche ad ogni genere di sopruso. Di qui il paradosso per cui talune pretese prive di alcun valore morale o sociale, anzi tali che, se soddisfatte, vanno a minare la stessa struttura della società, vanno subdolamente ad accaparrarsi addirittura un posto tra i diritti umani. Anche perché ormai la titolarità di un diritto umano non si nega a nessuno, fosse pure quello alla disumanità, cara all’ eccentrico (rispetto alla dottrina cattolica) segretario della Cei che di certo potrà dire col Vate “io ho quel che ho donato”.
Nella società contemporanea si è dunque verificata una sorta di appropriazione indebita del termine “diritto” che un po’ tutti usano con negligenza e irresponsabilità. Senza mettere in conto che soprattutto sui suoi equivoci viene costruito l’ariete per demolire giorno dopo giorno la cinta muraria di una intera società.
Ma l‘abuso delle parole avviene anche quando ci si muove su un terreno estraneo come se fosse il proprio, o, in altre parole, quando si confondono i piani concettuali e si pretende di rivedere i propri principi secondo le categorie altrui. È quanto accade tutte le volte in cui la Chiesa dimentica la propria identità, i propri fini e anche il proprio credo, e adotta altri punti di vista, finalità e obiettivi. Basti pensare alla riduzione della propria funzione salvifica a funzione sociale. All’uso promiscuo di parole che appartengono sia al secolo che al cattolicesimo. Primo fra tutti quell’amore che è andato a sostituire con grande sollievo universale la giustizia divina, e che si sposa con la misericordia scesa a rappresentare la giustizia umana. Con il risultato rassicurante che nessuno giudica nessuno perché abolita la legge, sono abolite la trasgressione e la sanzione.
Così la Chiesa va inclinando verso l’incorporazione della morale laica autoassolutoria di Pannella, anzi la sorpassa nel tentativo di suggerire l’abolizione del codice penale come mezzo per risolvere i problemi di edilizia carceraria. E tutto ciò proprio mentre dall’altra parte c’è lo Stato che allunga progressivamente il proprio potere su ogni aspetto della esistenza umana fino ad occupare anche tutto lo spazio della morale.
Con la comparsa dei diritti umani questo processo di positivizzazione della morale è stato potenziato enormemente perché quanto stabiliscono gli organi internazionali è sinonimo di una giustizia superiore e l’assimilazione della loro legge alla legge giusta si è compiuto. Essi nell’utopia di fondare un’etica mondiale pretendono di incorporare la controfigura del diritto naturale, e la guerra ormai anacronistica delle organizzazioni internazionali, contro il cristianesimo, è la lotta contro una forza concorrente ritenuta ancora capace di insidiare il monopolio della nuova moralità universale. Guerra anacronistica dicevamo, perché proprio la chiesa è andata sposando l’idea suicida e irresponsabile che l’etica sovranazionale del nuovo ordine mondiale corrisponda grosso modo alla abbandonata legge naturale.
Infatti, pressata dall’ansia martiniana per l’aggiornamento, non ha trovato di meglio che sconfessare brutalmente come obsoleta proprio la legge naturale, addirittura in un documento ufficiale come l’instrumentum laboris di preparazione al sinodo, ispirato a sua volta a quella dichiarazione della Commissione teologica internazionale del 2009, che, riletta a posteriori, ha tutta l’aria di essere stata preordinata a futura memoria, pronta all’uso per i primi venti rivoluzionari.
A nulla è valso ovviamente il grandioso obiettivo di Benedetto XVI di ricondurre la Chiesa e il mondo alla profondità e alla bellezza del grande pensiero cristiano, ancorato alla legge naturale e ai suoi principi immodificabili con o senza negoziazione. Ma il pensiero della Chiesa è andato sfilacciandosi nei decenni, tra tentazioni e contaminazioni che hanno fruttato lo scollamento e la degenerazione etica della società contemporanea, ed è approdato ora ad una dissennata resa senza condizioni.
Ora non c’è principe della Chiesa che non rilasci compunte dichiarazioni edificanti sulla importanza di certi valori, tipo quello della famiglia museale, sulla quale convergono tutti, preti celibi, pluridivorziati e aspiranti omogenitoriali, per poi subito precisare che comunque è cosa pia, da parte dello Stato, riconoscere “i diritti “ delle “coppie di fatto”, omo o etero che siano, senza darsi la pena di pensare che se tali coppie sono di fatto, non aspirano a diventare ”di diritto” per la contraddizion che nol consente, e che se dei diritti dovessero essere attribuiti loro, bisognerebbe prima che lo Stato spiegasse al popolo quale interesse collettivo giustifichi una tale attribuzione. Ora, dopo l’entourage di S. Marta e dopo l’ Arcivescovo di Milano, anche il Patriarca di Venezia ha fatto sentire finalmente in materia la propria voce autorevole che, finora, pareva stentasse ad emergere. Anche lui dice che certi “diritti” vanno riconosciuti a tutti quelli che li accampano, secondo lo spirito democratico che soffia forte anche sulla Serenissima e sul suo consiglio comunale, quello delle favolette omoeducative.
Insomma la Chiesa che aveva avuto il mandato di insegnare le leggi della morale cristiana, quella deducibile senza fatica dal Vangelo e dai comandamenti, adesso propaganda diritti inesistenti e, almeno secondo il dettato evangelico, anche irriconoscibili. Forse perché non riesce ad afferrare più neppure il significato, non dico morale, che sarebbe pretender troppo, ma neppure pratico, di una materia trattata e ora maltrattata dalle genti che in epoca remota hanno persino abitato la culla del diritto.
http://www.riscossacristiana.it/la-societa-fondata-sulle-parole-di-patrizia-fermani/
Quando sono scosse le fondamenta, il giusto che cosa può fare? (Sal 12 [11], 3).
Oggi sono proprio le fondamenta della verità cristiana e le esigenze imprescindibili che ne derivano ad essere non solo scosse, ma in via di demolizione. Non sono soltanto questioni – di per sé già gravissime – come l’indissolubilità e la natura stessa del matrimonio ad essere in gioco, ma la distinzione basilare tra grazia e peccato, tra santità ed empietà, tra giustizia e iniquità. Di fronte all’avanzare di questa barbarie intellettuale e alla conseguente barbarie morale, non è soltanto la civiltà cristiana ad essere in pericolo, ma la stessa civiltà umana che ne è il sostrato: Gratia non tollit naturam, sed perficit… Se, infatti, peccati tra i più gravi che esistano sono ammessi come opzioni del tutto lecite, perché altri non dovrebbero esserlo? Se la materia di un atto diventa indifferente per rilevarne l’intrinseca bontà o malizia e, nel secondo caso, riconoscerne la gravità, quale discernimento morale è più possibile?
Quanto sta succedendo – cosa purtroppo ormai più che evidente – è dovuto anche al fatto che una parte della gerarchia cattolica, anche ai più alti livelli, ha tradito Cristo per vendersi al mondo e a chi lo governa, cioè a Satana. In nome di una lotta puramente ideologica e apparente contro l’idolo del denaro, non si fa che incensare l’idolo dell’uomo e della sua riuscita temporale, trasmettendo un’idea di Dio come semplice funzione di essa. Questo, d’altronde, è il risultato diretto delle opinioni eterodosse di quella pseudo-teologia tedesca – che di propriamente teologico non ha più nulla nemmeno nel metodo – che, con il convincente sostegno del fiume di soldi estorti ai fedeli con l’iniqua tassa per il culto (Kirchensteuer) e dirottati verso l’America Latina sotto la voce «Aiuti allo sviluppo», è stata sdoganata in quelle regioni con l’intento di un’esecranda liberación… dalla fede cattolica e dalla sua dottrina morale.
Se ci è ormai insopportabile vivere in questa società regredita nella barbarie (ma in una barbarie tecnocratica ben peggiore di quella antica), è ancor più duro appartenere a questa Chiesa che si è in parte pervertita. È un vero e proprio martirio bianco, un interminabile martirio della coscienza. La Chiesa di Cristo, d’altronde, è una e non la si può abbandonare. Ma questa notte oscura, che pur dura già – nonostante schiarite passeggere – da ben mezzo secolo, sembra non avere fine… «Perché hai abbattuto la sua cinta, così che ogni viandante la vendemmia, la devasta il cinghiale del bosco e se ne pasce l’animale selvatico?» (Sal 80 [79], 13-14). Amando con tutto l’essere il Signore e la sua vigna diletta, possiamo rimanere indifferenti di fronte a tale catastrofica sorte?
In realtà, nonostante sembri dormire a poppa della barca (cf. Mc 4, 38), in questa notte Gesù è presente e all’opera. È Lui stesso che non solo l’ha permessa per distinguere chi Gli appartiene veramente, ma anche la rischiara suscitandovi focolai di speranza: sono tante persone che, singole o associate, resistono con la propria fedeltà, sostenuta dalla Sua grazia, allo sbandamento generale. È così che, grazie a Lui e anche per merito loro, per certi aspetti «la notte è chiara come il giorno» (Sal 139 [138], 12). È anche grazie a questa luce che possiamo continuare ad avanzare sulla linea retta del nostro cammino senza minimamente defletterne e a proclamare la verità senza mai venir meno, nonostante l’odio che essa suscita in chi ha preferito il mondo e le sue menzogne.
Come ci insegna sant’Antonio di Padova nei suoi Sermoni, «la verità genera odio; per questo alcuni, per non incorrere nell’odio degli ascoltatori, velano la bocca con il manto del silenzio. Se predicassero la verità, come la verità stessa esige e la divina Scrittura apertamente impone, essi incorrerebbero nell’odio delle persone mondane, che finirebbero per estrometterli dai loro ambienti. Ma siccome camminano secondo la mentalità dei mondani, temono di scandalizzarli, mentre non si deve mai venir meno alla verità, neppure a costo di scandalo». Noi facciamo semplicemente il nostro dovere di cristiani, fedeli figli della Chiesa cattolica. Abbiamo dunque tutte le ragioni per essere nella pace e nella gioia.
«Una luce si è levata per il giusto, gioia per i retti di cuore. Rallegratevi, giusti, nel Signore, rendete grazie al suo santo nome» (Sal 97 [96], 11-12).
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