Le tradizioni ecclesiastiche, loro ruolo e conseguenza della loro abolizione pratica
Questo scritto segue, in qualche modo,
quello precedente.
Probabilmente ho già parlato attorno a
questo tema. Nonostante ciò, lo voglio riprendere per approfondirne qualche
aspetto.
Nello schema riportato nell’ultimo
post e qui ripreso, ho puntualizzato che l’autorità fondativa (Gesù Cristo) è
all’origine della Tradizione religiosa (cristiana).
Per Tradizione cristiana non si deve
solo intendere quanto ci giunge dalla rivelazione scritta (il Nuovo Testamento)
ma il modo d’interpretare e di vivere la Scrittura.
È esattamente questo modo
d’interpretarla e di viverla che ripara la Rivelazione scritta ad ogni genere
d’arbitrio e di soggettivistica interpretazione.
È esattamente questo modo
d’interpretarla e di viverla che realizza la comunione ecclesiastica dimodoché
un ambito ecclesiastico inizia a divenire scismatico dalla Chiesa nel preciso
momento in cui cambia sostanzialmente il suo modo d’interpretare e vivere la
Tradizione.
È sempre questo modo d’interpretarla e
viverla a comporre la cosiddetta “esperienza cristiana”.
L’ “esperienza cristiana” non è, dunque,
il risultato di un soggettivismo capriccioso, qualcosa di meramente psicologico
(o psicologistico) ma qualcosa nella quale si conosce e riconosce lo stile (l’ ethos) di Cristo che si
distacca da un piano puramente umanistico.
L’Apostolo Giovanni lo esprime in
questo modo: “Quel che era dal principio, quel che abbiamo udito, quel che
abbiamo visto con i nostri occhi, quel che abbiamo contemplato e che le nostre
mani hanno toccato del Verbo della Vita” (1 Gv 1, 1).
Chi viene dopo gli apostoli, non
avendo un contatto fisico diretto con il “Verbo della Vita”, ne riceve la
mentalità (e la grazia) dalla Chiesa nel modo che segue.
Le autorità non fondative (i vescovi),
dopo aver conosciuto e vissuto la Tradizione ricevuta dagli apostoli hanno
fondato delle tradizioni ecclesiastiche in grado di custodire e supportare la
Tradizione trasmessa da Cristo. In questo preciso senso le tradizioni riportano
alla Tradizione: “Siete stati edificati sul fondamento degli apostoli e dei
profeti, essendo Cristo Gesù stesso la pietra angolare” (Ef 2, 20).
La Liturgia cristiana si pone su
questo preciso livello: si nutre della Tradizione, ne trasmette lo spirito e,
allo stesso tempo, veicola la Tradizione stessa. Per loro natura le tradizioni
ecclesiastiche tendono ad essere possibilmente intangibili, proprio perché si
riferiscono alla Tradizione che di suo è intangibile: “Nessuno può porre un
fondamento diverso da Gesù Cristo” (1 Cor 3, 11).
Di conseguenza una liturgia finisce
normalmente per fissarsi, assumere un’identità stabile che non è lecito
modificare.
C’è però da aggiungere qualche
precisazione.
Il riferirsi continuo delle tradizioni
alla Tradizione non è sempre scontato e neppure automatico.
Mi spiego: non è sempre detto che
delle tradizioni ecclesiastiche, o una liturgia particolare, riflettano in modo
fedele lo spirito della Tradizione. Lungo la storia non poche volte gli uomini
hanno eretto un muro opaco tra loro e la Tradizione, interpretandola in modo
distorto o parziale. Quest’interpretazione ha creato anche nella liturgia
elementi erronei. Si pensi, tanto per citare un esempio, agli inni composti
dagli ariani nel IV sec. Erano senza dubbio delle composizioni ecclesiastiche
che non riflettevano il Credo della Chiesa, la profonda coscienza ecclesiale su
Cristo.
A volte basta assai poco perché il
contesto ecclesiastico si oscuri e non riesca più ad essere un efficace rimando
alla Tradizione trasmessa da Cristo.
Per impedire una tal evenienza,
l’Oriente cristiano ha sempre sottolineato l’estrema importanza della funzione
del monachesimo nella Chiesa. Il monachesimo non è altro che una famiglia di
laici i quali vivono in modo intenso la fede cristiana fino al punto da
conoscerne per esperienza gli aspetti più reconditi e mistici.
Infatti per accostarsi alla fede
cristiana ed entrare nella sua intimità non è solo necessario studiarla e
viverla genericamente. È necessario scalare le ardue vette dell’ascesi. È questo
che forma i “puri di cuore che vedranno Dio” (Mt 5, 8), come ricordano le
Beatitudini. Questi “puri di cuore” sono i veri teologi della Chiesa, i veri
“specialisti” della teologia, i riferimenti della Chiesa. I teologi, dunque,
non sono dei semplici studiosi ma i conoscitori sapienziali e mistici del
Cristianesimo. Ed ecco la funzione dei monaci, appunto o, detto più
precisamente, dei santi. Questa funzione agisce da profondo ancoraggio per la
Chiesa, impedendole di vagare inquieta, a seconda dei gusti e delle mode. Ne
consegue che chi vuole cambiare la Chiesa, disancorarla, basta che cambi,
anemizzi o castri il monachesimo!
Non è infatti un caso che proprio dal
monachesimo venissero le resistenze più forti alle modifiche unilaterali o
secolarizzanti della liturgia. Si pensi alla lotta monastica contro
l’iconoclastia (la soppressione del culto delle immagini), alle persecuzioni,
ai martirii e agli esili che i monaci in Oriente dovettero subire per la loro
testimonianza che, a lungo andare, ristabilì l’Ortodossia della fede.
I monaci erano un luogo privilegiato
della teologia al punto che in tutti i concili celebrati nel primo millennio,
erano sempre rappresentati da una nutrita delegazione (*). Costoro non stavano
nei concili o nei sinodi per bella figura, tant’è che, in Occidente, san
Massimo il Confessore, partecipò attivamente ad un sinodo romano contro il
monotelitismo componendo alcuni testi dogmatici.
Che successe in seguito?
In Occidente la teologia
s’intellettualizzò sempre più isolandosi dalla vita ascetica. Quest’opera
d’intellettualizzazione non riguarda tanto le grandi scuole teologiche, sorte
su impulso dell’Aquinate il quale aveva presente certi limiti da non superare, ma
quelle attorno agli epigoni della Scolastica.
In pieno XV secolo la
teologia occidentale decadde in una pletora d’analisi filosofiche sempre più
fine se stesse, arzigogolata in autocompiacenti “bizantinismi”. Poco più tardi
questa teologia riceverà gli strali ironici di un Erasmo da Rotterdam il quale,
a ben ragione, ne evidenziava gli aspetti più ridicoli.
La vita monastica, nel medesimo torno
di tempo, era già decaduta da qualche secolo: san Francesco non riuscì a
riportare il monachesimo al centro della vita della Chiesa, come avrebbe
inizialmente voluto. In questo modo al “magistero della santità monastica” (al
quale appartiene pure un san Gregorio Magno, tanto per dare un riferimento) si
sostituì un magistero semplicemente ecclesiastico, di derivazione
intellettuale.
La tradizione liturgica non poté non
riflettere tal clima formale. Divenne il campo delle più fantasiose
interpretazioni allegoriche.
Alle soglie dell’età moderna ci
troviamo, così, con un Cristianesimo che – di fatto – è decurtato e vive di un
respiro limitato. Non meraviglia che in questo contesto di crisi sia maturato
un uomo che segnerà per sempre i destini di una parte del Cristianesimo
Occidentale: Martin Lutero.
Lutero, monaco agostiniano, era dotato
di una sensibilità non comune e di un bagaglio culturale che, per i tempi, non
era certo irrilevante. Nonostante ciò non riuscì a dare un senso profondo alle
tradizioni cristiane del suo tempo proprio perché, nel frattempo, nella
teologia si erano affastellate tutta una serie d’interpretazioni oziose e
francamente inutili e la prassi era tutt’altro che incoraggiante. Furono queste
cose ad inquietare Lutero e a spingerlo ad un'analisi le cui conseguenze
furono impreviste pure per lui stesso.
Con la riforma luterana (che per il
religioso sassone voleva semplicemente essere la riforma di tutta la Chiesa) si
operò una scelta estrema: il rifiuto di gran parte delle tradizioni
ecclesiastiche e la loro sostituzione con l’interpretazione individuale della
sacra Scrittura. Il riformatore non si avvide, però, che in questo modo si
rendeva simile a chi, constata la ruggine in alcune tubature dell’acqua, non ne
sostituisce le parti corrose ma le toglie tutte per affidarsi ad un secchio più
o meno bucato con il quale, ogni volta, prende dell’acqua da una cisterna.
Con questa soluzione si riuscirà a
portare dell’acqua in casa? Ammesso che vi si riesca che genere d’acqua
arriverà se, magari, il secchio oltre ad essere mezzo rotto è pure sporco?
Non c'è dubbio che la
"soluzione" luterana fu disperata ma la disperazione non è una
scusante o un'attenuante per le scelte erronee.
Al Cristianesimo protestante si può
applicare generalmente il paragone appena fatto per cui la cura che la Riforma
cercò di trovare, finì per divenire peggio del male che aveva analizzato. Le
conseguenze non tardarono ad arrivare: la spaccatura del Cristianesimo
riformato in infinite divisioni in disaccordo tra loro.
Il Cattolicesimo per 500 anni dallo
scoppio della riforma luterana ebbe una storia particolare. S’irrigidì come un
corpo in un busto, applicando le sanzioni più severe nei riguardi dei “liberi
pensatori” religiosi. La gerarchia aveva ricevuto una seria batosta da Martin
Lutero ed era terrorizzata di perdere ulteriore terreno. Di qui la sua
inappellabile severità.
Il Protestantesimo abolendo le
tradizioni religiose, rese di fatto utopistica la Tradizione di Cristo al punto
che Rudolf Bultmann (†1976), teologo protestante, giunse a separare
rigorosamente il Cristo della storia (irraggiungibile, il cui messaggio evangelico
è storicamente assai dubbioso) dal Cristo della fede (vissuto soggettivamente
in ognuno, al punto che il messaggio evangelico, non provenendo direttamente da
Cristo, nasce solo con le prime comunità cristiane).
Il Cattolicesimo postridentino,
d’altro canto, legò alla Chiesa i suoi fedeli sotto pena di scomunica e di
peccato mortale. Tanto il Protestantesimo sottolineava il ruolo e l’importanza
dell’individuo nell’interpretazione biblica (priva dunque della mediazione
della tradizione ecclesiastica), tanto il Cattolicesimo tridentino sottolineava
l’importanza della Chiesa nello stabilire l’oggettività dell’interpretazione
biblica. Al singolo non restava che dare piena fiducia.
Nel contesto tridentino la tradizione
ecclesiastica era vista prevalentemente come un insieme di rigidi norme a cui
obbedire ciecamente senza cercare necessariamente un senso spirituale (e con la
maggior diffidenza possibile nei riguardi dei mistici). Nonostante questa cappa
di terrore - nello Stato Pontificio era previsto perfino il carcere per chi non
si recava a Messa la domenica -, fiorirono non pochi casi di esempi cristiani.
Ma i tempi erano destinati a cambiare.
Con l’epoca dei Lumi e soprattutto nel XIX secolo, progredì un vero e proprio
senso d’insofferenza verso lo stile impositivo della Chiesa, un’insofferenza
maturata dapprima nel laicato e in seguito nel clero.
La gerarchia cattolica cercò di
resistere a chi voleva demolire porte e cancelli a protezione della fede,
ammorbidendo le leggi ecclesiastiche o semplicemente aprendo la Chiesa allo
spirito del secolo, come si auspicavano alcuni che prendevano il nome di "modernisti"
tra cui Alfred Loisy (**). Morte le generazioni antiche e avanzando quelle che
compresero e, in un certo senso, fecero propria quest’insofferenza, il clima
cambiò e le porte iniziarono a socchiudersi. Giovanni XXIII, che in gioventù fu
sfiorato dalle idee moderniste, finì per incarnare moderatamente tale
insofferenza.
Così, dopo Pio XII la svolta ci fu e
fu repentina sia nel Concilio Vaticano II, sia a seguito di esso fino al punto
che i portoni furono divelti. Al rigidismo tridentino seguì un vero e proprio
lassismo che perdura ancor oggi.
Il famoso concilio, perciò,
rappresentò la rivoluzione religiosa da lungo attesa. In essa non solo fu
soppressa la mentalità rigidamente legale con la quale il Cattolicesimo si
reggeva fino ad allora ma avvenne molto di più: fu posta la parola “fine” al
proprio passato, voltando le spalle anche a quanto di positivo in esso
continuava ad esistere. Fu questa la vera rivoluzione. A nulla valgono le
opinioni contrarie di chi, come certi "normalisti" continuano ad
asserire che tutto ciò non fu voluto dal Concilio e che, a dispetto di certe
evidenze, esiste una continuità con il passato. Affermazione davvero patetica
questa, poiché contra factum
non valet argumentum, e di
fatti da 50 anni in qua se ne sono visti a bizzeffe.
Non è un caso che in quest’assise il
Cattolicesimo non volle più lanciare condanne, stabilire delle rigide leggi,
sottolineare i confini tra la verità oggettiva (come si amava dire fino a poco
prima) e gli errori soggettivi.
5 Secoli di rigide imposizioni avevano
creato una viscerale antipatia verso quanto si riteneva tradizionale, in primis negli stessi chierici.
Ma non fu solo questione d’essere più
gentili con la modernità. Dopo quest’assise nel mondo cattolico si aprirono i
“vasi di Pandora”, si liberarono delle energie represse che si concretizzarono
in una rapida corsa verso le posizioni del Protestantesimo liberale non senza
una profonda simpatia per il mondo secolare.
I primi papi postconciliari, pur
avendo nutrito quest’ingenuo slancio, rimasero attoniti per le sue logiche e
inquietanti conseguenze poiché evidentemente non avevano capito che genere
d’energie avevano liberato. Stabilirono qualche freno. Oggi sembra che pure
tali freni siano saltati.
Quali sono le conseguenze per quanto
riguarda la nostra analisi?
Innanzitutto uno: il significato della
tradizione ecclesiastica è ulteriormente cambiato.
Nel periodo tridentino coincideva con
la prassi della Chiesa, il magistero normativo e la legge ecclesiastica,
ritenuta per sempre intangibile. Oggi non solo si nota una profonda avversione
e disprezzo clericale per la storia religiosa immediatamente precedente al
Concilio Vaticano II (tradizioni ecclesiastiche incluse), ma si constata una
variazione sostanziale della tradizione ridotta di fatto a semplice opinione
stabilita da questo o quel papa, da questo o quel vescovo, opinione che può
anche cambiare radicalmente, se i tempi lo richiedono. Non pare che ci si
chieda se questo tipo di “magistero fluido” rappresenta o no un ostacolo per
vivere la Scrittura e incontrare veramente Cristo.
Si pensa che l’opinione magisteriale
sia automaticamente la migliore lettura e interpretazione al vangelo
nell’attuale epoca, nonostante in tal magistero non sia difficile riscontrare
una sempre maggiore mentalità secolare che lo rende avulso da una prospettiva
trascendente. L’opinione magisteriale è quindi soggetta a cambiare o, come si
dice talora, ad evolvere. Ci si conforta pensando che l’evoluzione
dell’opinione religiosa e del magistero sia un segno di “vita” e un “dono dello
Spirito” alla Chiesa!
E' tutt'altra storia se ci si volge in
Oriente dove si ama dire che solo chi purifica asceticamente la propria
interiorità può capire bene la tradizione ecclesiastica autentica (non soggetta
a rivolgimenti o ripensamenti!). Questo significa che non si devono solo vivere
i comandamenti e i precetti della Chiesa ma si dev’essere molto maturi e
progrediti, spiritualmente parlando. Solo salendo a livello di chi ha stabilito
delle tradizioni affidabili, si può finalmente capire la ragione per cui esse
furono stabilite. Un uomo così è in profonda comunione con tutto il passato
della Chiesa e legge profeticamente il suo presente alla luce d’immutabili
valori evangelici.
In Occidente tutto questo non ha
realmente alcuna importanza (ateismo pratico) non solo perché la spiritualità e
l’ascesi si è ridotta al lumicino ma perché la si ritiene buona solo per
qualche originale persona che si isola dalla società (il che non è quasi mai
visto positivamente). Qui il dogma può non essere più combattuto, semplicemente
perché non gli si riconosce alcun effetto pratico. Lo si lascia in disparte e
di fatto si fa a meno di esso. E' una “filosofia” d'altri tempi!
Che rimane della tradizione
ecclesiastica?
Sinceramente parlando, credo che
oramai ne rimangano brandelli poiché il contesto cattolico è in gran parte una
specie di protestantesimo presieduto dal papa con qualche raro correttivo
cattolico, sempre più residuale, in verità.
I tentativi di tornare a dare un po'
di dottrina al mondo cattolico, da parte di Joseph Ratzinger, sono miseramente
naufragati perché non potevano trovare aggancio alcuno nella maggioranza del
Cattolicesimo, oramai refrattario ad ogni genere di discorso tradizionale. Le
sue dimissioni da papa sono la prova più lampante di tutto ciò, esattamente
come lo furono le dimissioni del famoso arcivescovo Marcel Lefebvre dalla
presidenza dei religiosi spiritani, quando questi ultimi erano in piena
rivoluzione e non lo obbedivano più, verso la fine degli anni sessanta. Oggi, a
maggior ragione "l'obbedienza non è più una virtù" e questo crea un
caos senza fine (***).
In questi ultimi tempi la corsa verso
la protestantizzazione (ossia verso un cristianesimo puramente sociologico) si
è ulteriormente accelerata. Chiunque bene informato non può non notarlo,
analizzando pure lo stranissimo insegnamento dell’attuale chiesa, più attenta a
piacere al popolino che a confermare i credenti nei capisaldi della fede.
Questo spiega la distanza sempre
maggiore tra chi ha mantenuto i riferimenti tradizionali (questo blog cerca
d’indicarli) e chi oramai tende ad essere come una zattera alla deriva,
religiosamente parlando.
Si deve ricordare, però, che non può
esistere alcun Cristianesimo reale senza la Tradizione e senza le autentiche
tradizioni ecclesiastiche che lo veicolano e che uniscono tra loro Tradizione e
credente.
Se
si prescinde da ciò, alla fine, si creerà una “maschera”, una scimmiottatura di
Cristianesimo. Questo neo-cristianesimo potrà magari essere simile ad una
scatola coloratissima e risulterà simpaticissimo al mondo perché gli darà
ragione in tutto. In questa scatola, però, non sarà rimasto più niente.
Note
(*) Non così avviene nel mondo cristiano latino. Non ripeterò mai a sufficienza che la centralità della vita monastica nella Chiesa in Occidente non è affatto essenziale proprio perché la teologia tende ad essere ridotta a riflessione, a pensiero e non discende necessariamente da un cammino ascetico di comunione con Dio (teologia patristica). D'altra parte lo stesso monachesimo occidentale ha accettato di buon grado di porsi in un angolo, come gli indiani d'America nella loro riserva e se ne sta lì buono buono, dimentico che è fatto per testimoniare la verità cristiana fino all'effusione del sangue, se necessario. D'altra parte la spiritualità con la quale dovrebbe essere animato, tende ad abbassarsi a livello di conforto psicologico, non di propedeutica per una salita spirituale nella quale si giunge ad una conoscenza più nitida della propria fede il che porta necessariamente ad una lotta, se necessario. Aver isolato nella Chiesa delle funzioni essenziali (separando spiritualità da dogma) è uno dei più gravi problemi dell'Occidente cristiano, terreno di coltura per tutte le disgrazie attuali. La corsa finale di queste alterazioni è la necrosi del corpo ecclesiale.
(**) Ecco un esempio di come allora si vedevano le cose e di come si cercò di reagire: “Quando chiedo ai sapienti di questo tempo quale sia la più grande piaga dell’attuale società, sento rispondere ovunque che è l'indebolimento dei caratteri, l'ammorbidimento delle anime. La terra è afflitta da una grande desolazione perché non ci sono più dei battezzati che si ricordano come si dovrebbe del proprio battesimo, coscienza della grandezza e delle energie del proprio battesimo. No, con le dottrine dimezzate e le verità diminuite non si otterrà che dei mezzi cristiani. E con dei mezzi cristiani né la società religiosa, né la società civile avranno mai ragione sul tremendo nemico”. Card. Pie di Poitiers (1815-1880).
Parole più che profetiche, ad
osservare cos'è successo 150 anni dopo, e la tendenza al ribasso è in costante
progresso con l'aiuto pure del clero il quale non predica più delle mezze
verità ma evita direttamente le verità!
(***) Don Franco Barbero, prete canonicamente "ridotto" allo stato laicale non è che la punta di un iceberg che, con estrema franchezza, ammette quanto segue: "L'obbedienza non solo non è più una virtù, ma costituisce una grave patologia dell'anima che ingabbia la vita e spegne la comunità. Certo, la disobbedienza evangelica ha i suoi costi e i suoi rischi, ma crescere nel cammino della libertà ci fa gustare anche le più invitanti gioie del convito umano e comunitario. Occorre scegliere tra una chiesa di minorenni e una comunità di donne e di uomini che tentano l'arduo sentiero della libertà". http://donfrancobarbero.blogspot.it/2007/12/patologie-dellobbedienza.html
(***) Don Franco Barbero, prete canonicamente "ridotto" allo stato laicale non è che la punta di un iceberg che, con estrema franchezza, ammette quanto segue: "L'obbedienza non solo non è più una virtù, ma costituisce una grave patologia dell'anima che ingabbia la vita e spegne la comunità. Certo, la disobbedienza evangelica ha i suoi costi e i suoi rischi, ma crescere nel cammino della libertà ci fa gustare anche le più invitanti gioie del convito umano e comunitario. Occorre scegliere tra una chiesa di minorenni e una comunità di donne e di uomini che tentano l'arduo sentiero della libertà". http://donfrancobarbero.blogspot.it/2007/12/patologie-dellobbedienza.html
È un pensiero che, anche se non confessato così apertamente, moltissimo clero oramai pratica. Di qui l'ingovernabilità sempre maggiore del mondo cattolico.
http://traditioliturgica.blogspot.it/
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