Tralasciando di trattare, anche per soli pochi cenni, il grave problema della rarefazione delle vocazioni sacerdotali in Italia a fronte di una fiorente milizia proveniente dai paesi africani – del che qualche prelato ha osato, timidamente, eccepire ponendo riserve di tipo contingente – ciò che ci interessa mettere sotto lente è l’omelìa che il Papa ha tenuto sul tema della missione sacerdotale.
Nel contesto di un’allocuzione in cui molti passaggi sono del tutto e pienamente condivisibili perché allineati nel solco dell’ortodossìa, quali l’impegno pastorale, la sequela alla parola e all’esempio di Cristo, l’adempimento dei doveri sacerdotali in specie quelli riferiti all’amministrazione dei sacramenti, in tale contesto tuttavia il Pontefice ha inserito alcune esortazioni che, a nostro parere, suffragato dalla perenne dottrina della Chiesa, suonano non solo poco incisive ma, addirittura, devianti e di basso profilo teologico e pastorale.
“Che le vostre omelìe non sìano noiose, che le vostre omelìe arrivino proprio al cuore della gente, perché escono dal vostro cuore. Così si dà la parola di Dio e così la vostra dottrina sarà gioia e sostegno ai fedeli di Cristo. Ė brutto un sacerdote che vive per piacere a se stesso, che fa il pavone. ” (Avvenire, 27 aprile 2015 – Il Giornale 27 aprile 2015 pag. 11).
Noi ci saremmo aspettati che Papa Bergoglio avesse messo l’accento sul contenuto delle omelìe le quali, invece, stando a un dato statistico, sono oggi talmente misere, povere in termini di idealità e di sostanza concettuale che, proprio per questo non annoiano affatto, anzi sono quelle che, non impegnando il cervello e l’attenzione, destano l’approvazione compiaciuta dei fedeli.
Ė, per i sacerdoti celebranti, prassi generale e collaudata oltre che ottimo espediente – e lo diciamo per testimonianza ex auditu non solo nella nostra parrocchia ma anche in altre vicine e lontane – deviare da un tema forte, quale ad esempio, il brano di Marco 16, 14/16 ove Cristo ordina di predicare il Suo Vangelo, di battezzare e di condannare chi non crede, lanciandosi su commenti e riflessioni di altra natura per lo più sociologica come il dovere dello studio, la solidarietà, il diritto al lavoro, lo sport, il problema della droga, della violenza. Insomma, quando la Parola di Dio, annunciata nelle due letture e nel Vangelo, propone aspetti di aspra e forte connotazione teologica - il peccato, la morte, l’Inferno, la giustizia di Dio. . . – la sensibilità del celebrante consiglia di saltare del tutto il tema diffondendosi in considerazioni di bassa quota e di condivisa opinione.
Stia tranquillo Sua Santità Francesco ché le omelìe, financo le sue, proprio per evitare i temi asperrimi della realtà spirituale e dell’escatologìa, non sono noiose risultando tali, ripetiamo, soltanto quelle in cui il fedele e la sua coscienza vengono messi davanti alla verità fredda e cruda.
La noia scaturisce da tanti aspetti: per una voce melensa, biascicante e monotona, per ripetizioni lessicali e concettuali, per discontinuità sintattica. Certamente, ma la noia, lo dicemmo sopra, sorge soprattutto quando l’omelìa tratta argomenti vigorosi che spiacciono alla coscienza torpida e superba del cristiano moderno, quel “cristiano adulto” che guarda con compassione la pia e devota donnetta snocciolante un Rosario, e che afferma la preminenza della problematica sociale delle cose concrete di quaggiù alla realtà impalpabile ma tremenda delle cose di lassù.
Ecco: la noia, quel senso di fastidio e di tedio sonnolento, cioè, che prende il cristiano non è la cifra delle omelìe melense e banali; al contrario, essa nasce proprio da quelle in cui si sollecita vigorosamente l’intelletto all’attenzione mettendolo alle corde di un esame di coscienza. Ma ciò non piace perché da quando la Chiesa, convinta che l’errore si guarisce da solo, decise di dismettere la medicina del rigore a vantaggio della misericordia (Giovanni XXIII – Gaudet Mater Ecclesia, 16 - 11 ott. 1962), la cattolicità postconciliare esige il tono e l’argomento tenero, delicato niente affatto traumatico. Così come, due anni or sono, nella nostra parrocchia, alcune mamme si rivolsero al parroco piccate e sdegnate perché reputavano antieducativo, e traumatico, che il catechista parlasse ai giovani cresimandi del peccato mortale, dell’Inferno e della morte.
E non è da credere che tale evento sia indiziario dell’immaturità culturale e della pochezza di fede di queste mamme perché la stessa circostanza, in proporzioni più alte ed estese, s’è ripetuta nell’Arcidiocesi di Milano il cui reggente, cardinal Angelo Scola, ha pensato bene, sulla scorta di un falso e mendace servizio del laico foglio “La Repubblica”, di licenziare un docente di religione, il prof. Giorgio Nadali con 26 anni di anzianità di servizio, reo di aver proiettato, nella sua classe, il filmato “L’urlo silenzioso”, celebre denuncia dell’aborto. “Incapacità didattica” ha sentenziato l’inquisitore diocesano don Giambattista Rota.
Traumatico, cioè, anche per le eccelse menti dei supremi pastori. Che pena!
A completamento di informazione, comunichiamo che il ricorso del docente è stato respinto senza nemmeno una risposta.
Insomma, Santità, le moderne omelìe viaggiano di comune accordo col mondo ché laddove un celebrante catechizzi in vesti di clown, un altro faccia esegesi stupendo i fedeli con giochi e scherzi di prestidigitazione, un altro ancora organizzi rassegne di barzellette, tutto sarà lieto e divertente, altro che quella tetra liturgìa tridentina e latina dei Frati dell’Immacolata che Lei, giustamente, ha cancellato dalla faccia della Chiesa!
Ed ecco, allora, quale rinforzino paterno, il velenoso e corruttore appello al cuore. Un appello che riduce l’annuncio del messaggio, il suo contenuto e il suo accoglimento, a un processo sentimentale, col cuore inteso quale prima ed ultima tappa della fede.
Nel suo straordinario e profondo studio: “La Chiesa Ribaltata – ed. Gandolin 2014”, Enrico Maria Radaelli dedica a questa tematica un capitolo specifico (pag. 85), oltre a sparse osservazioni, in cui fa presente come la fede è il principio, l’amore il fine e come l’oggetto da amare, Dio, deve essere prima conosciuto non stabilendo, tuttavia, gerarchie tra le due realtà ma solo fissando il dogma quale loro legante.
Ė lo stesso S. Paolo che pone la fede nella categoria della conoscenza razionale quando afferma: “Est autem fides sperandarum substantia rerum, argumentum apparentium” (Ebr. 11, 1) che la nostra maggior musa così traduce . “Fede è sustanza di cose sperate/e argomento de le non parventi/ e questa pare a me sua quiditate” (Par. XXIV, 64/66). Ė il “rationabile obsequium” (Rom. 12, 1) che si deve a Dio e da cui non si può prescindere, è la ragione che, verificata la incomprensibilità del mistero della Divinità ma constatatane l’esistenza, l’accetta e l’ama.
Ora, ponendo l’amore quale criterio privilegiato ed unico della vita spirituale, si cancella il ruolo della ragione così come impongono l’antropologìa e la psicologìa moderne che la ritengono ammessa al solo àmbito scientifico ed esclusa dalla cosiddetta “esperienza religiosa” di cui il cuore è il solo interprete.
Ci si è fatti scudo di quella bella quanto appariscente diafora di Pascal: “Il cuore ha delle ragioni che la ragione non conosce” (Pensieri n. 146 – Ed. Einaudi 1967 pag. 58/59) con cui il giansenista francese visibilmente anticipa l’odierna cultura che, come dicemmo, relega la ragione alla scienza e il cuore all’interiorità. Ė il trionfo, dobbiamo constatare, del sentimentalismo.
Ma in che cosa esso consiste?
Si può dire che esso sia “l’abbandonarsi alle emozioni proprie o altrui, l’esaltarsi in esse e per esse senza rapporto con la loro forza effettiva che fa della religione e, soprattutto, della teologìa morale, un condensato di tenerezza e di zuccheroso relativismo fondato sull’esclusiva misericordia di Dio vista come la componente unica della sua essenza. Kant vide nel sentimentalismo la debolezza di lasciarsi dominare, anche contro la propria volontà, dalla partecipazione allo stato emotivo degli altri” (Nicola Abbagnano: Dizionario filosofico– Ed. UTET 1971, pag. 783). Il filosofo la contrappose alla padronanza di sé, la quale rende possibile quella finezza di spirito e di ragione per cui si giudica secondo criterî certi ed oggettivi lungi, pertanto, dalle miopi e fallaci valutazioni del cuore.
Si tratta, allo stato delle cose, di una progressiva svalutazione della categorìa della trascendenza verso il fondo valle dell’immanenza, quale ad esempio l’introduzione, oramai vittoriosamente conclusa, della definizione della Chiesa quale “Popolo di Dio” che ha del tutto offuscato e accantonato quella più alta, misteriosa oltre che vera, di “Corpo mistico”, la realtà in cui si fondono la Chiesa Militante, la Chiesa Purgante, la Chiesa Trionfante di cui Cristo è il Capo. “Et ipse (Jesus) est caput corporis ecclesiae”(Col. 1, 18).
Trova così, nelle parole del Papa, accreditamento e legittimazione, quel detto secondo cui “al cuore non si comanda” la cui sottile romanticheria, piuttosto celebrata quale saggezza di popolo, sarà motivo di quel relativismo etico che, già essendosi affermata l’autonomìa della coscienza quale giudice del bene e del male, diverrà dottrina universale così come si augurava la massoneria che, sorridendo, potrà godersi la vittoria. Infatti, come tutti sanno, fu Papa Bergoglio a conferire alla coscienza individuale il diritto e il potere di definire cosa, dove e quando il Bene e il male. “Lo ripeto: ciascuno ha una sua idea del bene e del male e deve scegliere di seguire il Bene e combattere il Male come lui li concepisce. Basterebbe questo per migliorare il mondo” (La Repubblica: Intervista Bergoglio-Scalfari – 1 ottobre 2013).
Saremmo, poi, inclini ad approvare l’esortazione papale rivolta ai novelli sacerdoti a non “fare i pavoni”, a non farsi primi attori sulla scena del mondo, se non fosse che – ci perdoni ma ci sentiamo di pensarlo e di scriverlo – proprio lui ha dato, e dà di continuo, esempio di autocompiacimento, di voluta esposizione mediatica. E non ci sarebbe difficile ricordare le tante circostanze in cui egli ha interpretato il pavone mentre arduo è quello di elencarle. Per lui giornali, riviste, rotocalchi, filmati si avvicendano senza soluzione di continuità. Chi non ricorda la GMG di Rio cadenzata da balli e coreografìe, l’assemblea del Movimento carismatico allo stadio di Roma in un tripudio di chitarre e di corpi femminili, la visita alla pagoda buddista di Manila e la preghiera, in “pianeta” arancione tra i bonzi? La rivista massonica Times, a nove mesi dalla sua elezione, lo ha acclamato “uomo dell’anno”, bruciando sul tempo, secondo la compiaciuta sala stampa vaticana, i papi precedenti a cui erano stati necessarî anni di attesa; una editrice stampa il settimanale “Il mio Papa”, e le folle in delirio, che riempiono stadî e piazze – disertando le chiese – sono una presenza costante la cui caratteristica non è tanto la preghiera quanto l’applauso papalatrico.
“Guai quando gli uomini diranno bene di voi. Allo stesso modo infatti facevano i loro padri con i falsi profeti”(Lc. 6, 26)
Concedeteci, o Signore, dei sacerdoti.
Concedeteci, o Signore, dei santi sacerdoti.
Concedeteci, o Signore, molti santi sacerdoti.
Concedeteci, o Signore, dei santi sacerdoti.
Concedeteci, o Signore, molti santi sacerdoti.
di L. P.
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