La prima volta di Francesco. Col nemico ottomano
In due anni da papa non gli era mai avvenuto di essere attaccato così aspramente, come oggi dalla Turchia, per la sua denuncia del genocidio armeno. Una svolta nel pontificatodi Sandro Magister
ROMA, 17 aprile 2015 – Il primo vero "casus belli" che ha rotto l'incantesimo di un pontificato fino a ieri tanto riverito e osannato è scoppiato a causa di una strage di un secolo fa, che papa Francesco ha avuto l'ardire di chiamare per nome, il nome tabù di "genocidio", e di equipararla a tutti gli altri annientamenti sistematici, programmati, di popoli e di religioni che hanno segnato il Novecento e ormai anche il secolo presente.
Difficile negare che ciò segni una svolta nel pontificato. Perché solo pochi mesi fa, a fine novembre, Francesco era stato in Turchia e degli armeni non aveva fatto parola.
A chi gliene aveva chiesto ragione aveva risposto che gli importavano di più i piccoli passi, come quello compiuto un anno prima dal presidente Recep Tayyip Erdogan con una sua lettera di cordoglio. In realtà quella lettera, negazionismo puro dietro un po' di fumo, non aveva affatto consolato gli armeni, li aveva amareggiati ancora di più.
Ma sul genocidio Erdogan aveva chiesto al papa di tacere, e Francesco rispettò la consegna.
La diplomazia vaticana respirò di sollievo. In fondo, sono appena una ventina al mondo i paesi che esplicitamente chiamano genocidio lo sterminio degli armeni cristiani. E lo fanno con tutte le cautele del caso, per non irritare un alleato, vero o potenziale, a cui tengono troppo.
Ma quando, nella sua agenda, papa Francesco assegnò alla domenica dopo Pasqua del 2015 la memoria in San Pietro dei cent'anni della strage degli armeni, era scritto che avrebbe cambiato passo.
Come avrebbe potuto Francesco dire meno di ciò che avevano detto i suoi predecessori?
Perché già il 9 novembre del 2000 Giovanni Paolo II aveva definito genocidio quella tragedia, e poi ancora il 27 settembre 2001, in due dichiarazioni solenni sottoscritte assieme al "catholicos" Karekin II, la prima a Roma e la seconda nella capitale dell'Armenia, dove si era recato mentre il mondo era sconvolto dall'abbattimento delle Torri gemelle.
Non solo, in quel viaggio papa Karol Wojtyla fece visita al memoriale dello sterminio, è pronunciò una preghiera accorata in cui lo chiamava come gli armeni lo chiamano: "Metz Yeghérn", il grande male.
Anche allora queste erano parole tabù, ma le autorità turche reagirono con moderazione. Erdogan non era ancora asceso al potere, col suo neoislamismo combattivo, ed era all'apogeo l'interesse della Turchia per un ingresso nella comunità europea, al quale il caso armeno faceva d'ostacolo.
Anche Benedetto XVI, nel ricevere il 20 marzo 2006 il patriarca degli armeni cattolici, evocò il "Metz Yeghérn" senza suscitare reazioni, che invece sarebbero esplose fragorosamente contro di lui pochi mesi dopo, quando a Ratisbona svelò le radici violente della religione musulmana.
Domenica scorsa papa Francesco poteva dire il minimo, come aveva fatto tre giorni prima ricevendo gli armeni cattolici. Invece, ed è qui la novità, è andato oltre, e di molto.
Non solo ha messo il genocidio degli armeni in testa agli altri genocidi dell'ultimo secolo, ma li ha elencati ad uno ad uno, fino a quelli che si compiono ancora oggi a danno di tanti "perseguitati, esiliati, uccisi, decapitati per il solo fatto di essere cristiani", siano essi cattolici e ortodossi, siriaci, assiri, caldei, greci. Come cent'anni fa, ha detto, "sembra che l'umanità non riesca a cessare dal versare sangue innocente".
Virulente le reazioni turche, elusive le cancellerie occidentali. Per Francesco è finita la quiete.
http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1351032
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