L’angoscia è il pungolo che ci ricorda che siamo fatti per un luogo più bello di questo. Siamo fatti per la vita, ne siamo affamati, assetati, ardentemente innamorati, eppure siamo destinati a morire e lo sappiamo con fredda e spaventosa certezza
L’angoscia è il pungolo che ci ricorda che siamo fatti per un luogo più bello di questo
Siamo fatti per la vita, siamo affamati e assetati di vita, ardentemente innamorati di vivere; eppure siamo destinati a morire, e lo sappiamo con fredda, assoluta, spaventosa certezza: a rigore, è la nostra sola certezza, dal momento della nascita in poi.
Come sopportare una simile tensione psicologica; come alleggerire un così schiacciante peso esistenziale? Dove trovare la forza, dove reperire gli strumenti e le strategie per non lasciarsi afferrare e trascinare via dalla disperazione, per non soccombere?
Gli antichi parlavamo di “malinconia”, anzi, di “melancholia”: uno dei più grandi artisti del Rinascimento, Albrecht Dürer, ne ha tratto ispirazione, nel 1514, per uno dei suoi capolavori assoluti: una piccola incisione a bulino (meno di 30 cm. per 30), conservata nella Staatliche Kunsthalle di Karlsruhe, che originariamente faceva parte di un trittico, comprendente anche «San Gerolamo nella sua cella» e Il cavaliere, la morte e il diavolo».
A sinistra "Melancholia", seguono alcune opere di Albrecht Duerer
Senza addentrarci nei complessi significati esoterici, alchemici e astrologici dell’opera, sui quali non vi è concordanza da parte degli studiosi, resta il fatto che in questa piccola incisione l’artista tedesco, oltre a rappresentare il percorso dell’anima dalle tenebre verso la luce – almeno su questo nucleo centrale vi è un sostanziale accordo -, ha espresso anche, con rara intensità e potenza rappresentativa, l’angoscia lacerante dell’anima umana chiusa nella propria finitezza e bruciante dal desiderio di slanciarsi verso l’assoluto e verso l’eterno, spezzando i suoi ceppi.
Nel volto serio, teso, assorto, quasi cupo della figura femminile alata, seduta mentre sta tracciando misteriose figure con il compasso, rapita e come folgorata dal raggio di una sublime ispirazione, Dürer ha saputo esprimere magnificamente il dramma della condizione umana, sospesa tra il finito e l’infinito, tra il caduco e l’eterno, tra l’angoscia esistenziale e la gioia che scaturisce dalla piena consapevolezza dell’essere.
Questi concetti sono densamente formulati in una pagina molto intensa e sofferta del «Diario di un curato di campagna» di Georges Bernanos, pubblicato nel 1936 (titolo originale: «Journal d’un curé de campagne», Paris, Librairie Plon, 1936; traduzione dal francese di Adriano Grande, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1946, p.188):
«Non importa! Ho un bel rileggere queste pagine, alle quali il mio giudizio non trova nulla da correggere: mi sembrano vane. È perché nessun ragionamento, in questo mondo, potrebbe provocare la vera tristezza - quella del’anima – o vincerla, quando è entrata in noi, Dio sa attraverso quale breccia dell’essere… Che dire? Non è entrata, era già in noi. Credo sempre più che quello che noi chiamiamo tristezza, angoscia, disperazione, come per persuaderci che si tratta di certi moti dell’anima, sia codesta anima stessa e che, dopo la caduta, la condizione dell’uomo è tale ch’egli non potrebbe percepire più nulla, in sé e fuori di sé, che sotto la forma dell’angoscia. Il più indifferente al soprannaturale conserva persino nel piacere l’oscura coscienza dello spaventoso miracolo costituito dallo sbocciare d’una sola gioia in un essere capace di concepire il proprio annullamento e costretto a giustificare con grande fatica, attraverso i suoi ragionamenti sempre precari, la furiosa rivolta della propria carne contro quell’ipotesi assurda, odiosa. Non fosse per la vigilante pietà di Dio, mi sembra che al primo prender coscienza di se stesso l’uomo ricadrebbe in polvere.»
Sì, è verissimo: perfino nella persona meno spirituale, perfino nel momento del massimo piacere, la natura umana conserva un frammento di consapevolezza della precarietà e della fragilità del proprio equilibrio esistenziale: quale miracolo è rappresentato dalla capacità di gioire, in un essere destinato alla dissoluzione, e che è perennemente cosciente di tale destinazione finale! Quale meraviglia, quale sovvertimento fondamentale delle stesse leggi naturali, nel fatto che un tale essere, non che vivere sempre torturato dall’angoscia più avvilente, riesca tuttavia a condurre una esistenza normale, a distrarsi, a provare piacere non solo per le cose grandi, ma anche per le piccole: per il profumo di un fiore, per il canto di un grillo, per lo splendore di un’alba!
Eppure, sotto sotto, l’angoscia permane, eccome, e continua a scavare e indebolire l’edificio delle nostre certezze; anche quando non vi pensiamo, essa sussiste e imperversa, implacabile, inestinguibile; anche quando la coscienza è rivolta a tutt’altro, essa prosegue nella sua corrosione sistematica della nostra gioia vitale, nella distruzione inesorabile del nostro edificio spirituale, nell’opera silenziosa e diuturna di avvelenamento di tutto ciò che di buono, di bello, di sereno la nostra anima è in grado di realizzare e di godere, sussurrando al nostro inconscio il suo lugubre ritornello: «Eppure, tu sei destinato al nulla! Verrà il momento, forse assai presto, forse assai prima di quanto tu possa immaginare, in cui cesserai di vedere, di sentire, di pensare, di sognare, di sperare!».
Ed ecco, allora – come osserva finemente Bernanos – che noi arriviamo ad afferrare come la tristezza, l’angoscia, la disperazione, non siano momenti di scoraggiamento e di caduta dell’anima, ma sono la vita stessa dell’anima, sono la sua condizione “normale” ed essenziale, il suo statuto ontologico: questo, e non altro, è l’anima umana, in quanto tale. Non è sempre stato così; ma certamente è divenuto così, per tutti gli esseri umani – con una sola eccezione – dal momento della Caduta. Non per nulla il filosofo colombiano Nicolas Gomez Davila affermava, in uno suo celebra aforisma, che l’umanità si può dividere in due gruppi di persone: da una pare, coloro che credono al Peccato originale; dall’altra, gli sciocchi.
Sciocchi sono tutti i pensatori e tutte le filosofie che negano questa tristezza strutturale, questa angoscia ontologica dell’anima umana, che non è originaria, ma si è prodotta dopo la Caduta; sciocco è affermare la bontà originaria dell’uomo, e accusare i preti e i teologi d’essersi inventati una colpa originale inesistente, per scagionare Dio d’aver creato una natura imperfetta e un essere umano infelice e morituro, torturato dalla coscienza della sua finitezza e della sua fugacità. Sciocchi sono tutti coloro i quali sostengono che la natura è buona, anzi perfetta, in se stessa; e che basterebbe riuscire a liberarla dai ceppi, dalle bende e dalle maschere della “civiltà”, per restituirle il suo splendore originario, la sua luminosità intrinseca.
Tutti costoro, esplicitamente o implicitamente, fanno della natura, Dio stesso; e non vedono che, così facendo, rendono ancora più imbarazzante, ancora più ironica, ancora più contraddittoria la loro posizione, di quella che rimproverano ai credenti: perché se la natura è perfetta in se stessa, se la natura è Dio, o svolge le veci di Dio, allora da dove proviene il male? E, nello stesso tempo: da dove proviene quella sottile, inesorabile, logorante angoscia esistenziale, che è capace di inquinare e di rovinare anche la gioia più pura, anche l’abbandono più felice? Non basta dire che tutto questo proviene dalla “civiltà”: è forse colpa della civiltà, il fatto che l’uomo sia inclinato non al bene che vorrebbe, ma al male che detesta? Ed è forse colpa della civiltà, il fatto che egli sia perfettamente consapevole di dover morire, di dover cessare questa vita che ama intensamente; che è pur bella, anche in mezzo ai dolori; e che è pur dolce, anche in mezzo alle amarezze?
Ma ecco che le cose prendono un aspetto completamente diverso, se noi proviamo a modificare la nostra prospettiva e a considerare la nostra condizione non dal punto di vista del finito, nel quale – come esseri fisici – siamo immersi, ma dal punto di vista dell’infinito – verso il quale, come esseri spirituali, siamo ardentemente protesi. Ecco che, assumendo questa nuova prospettiva, ciò che appariva inesplicabile, trova un principio di spiegazione; e ciò che era francamente inaccettabile, scandaloso, terribile – la coscienza di dover morire – diventa non solo accettabile, ma perfettamente logico e perfino buono: perché la nostra ribellione davanti all’idea della dissoluzione che ci attende, è anche la luminosa testimonianza del destino ultraterreno cui siamo destinati.
Da dove ci verrebbero la nostra angoscia, da dove la nostra disperazione, se la morte fosse davvero la “logica” e “naturale” conclusione di tutto? Al contrario: dovremmo essere fatti in maniera tale da non provare angoscia, né scandalo, né senso di rivolta; da accettare serenamente quel che tempo che ci è dato da vivere, e poi avviarci al nulla, senza fremiti e senza rimpianti. Vivremmo e moriremmo paghi del nostro destino; non ci tormenteremmo con il pensiero dell’inevitabile, perché l’inevitabile farebbe parte del nostro orizzonte, non soltanto esistenziale, ma anche logico e spirituale: lo accetteremmo, così come si accetta il bello e il cattivo tempo; così come si accetta il succedersi degli eventi e il progressivo allontanarsi delle cose più dilette.
Se noi siamo capaci di provare, nel deserto, l’arsura della sete, ciò attesta, di per se stesso, che l’acqua esiste, e che esiste – da qualche parte, e sia pure molto lontano – la possibilità di spegnere quell’arsura, quella sete divorante; allo stesso modo, se noi siamo capaci – anzi, non possiamo farne a meno – di provare orrore e sgomento davanti alla consapevolezza della nostra fine, ciò attesta che quella fine non è tale, ma solo la porta che introduce ad un nuovo principio, su di un nuovo e più elevato piano di realtà. Se fossimo “naturalmente” destinati al nulla, non ci ribelleremmo a una tale idea: la natura ci avrebbe fatti in modo da non trasalire, da non turbarci: essa ci accompagnerebbe, passo dopo passo, dal primo giorno all’ultimo della nostra vita, senza scossoni, senza inutili e “assurde” proteste esistenziali. È capace di soffrire la sete, infatti, solamente quell’organismo che, per sopravvivere, ha una assoluta necessità di assumere dell’acqua; ed è capace di soffrire all’idea della propria fine, solo quella creatura che si realizza pienamente e definitivamente non già sul piano del finito, ma su quello dell’infinito.
Questo ci dice la logica; questo ci dice l’evidenza; questo ci dice una buona e sana filosofia. Le filosofie che parlano un linguaggio diverso, si ingannano e ingannano i loro seguaci: mostrano loro un uomo che non esiste, se non nelle loro fantasie, nelle loro elucubrazioni, nelle loro fumisterie; e mostrano loro una natura che non è quella che effettivamente si dà, anche se – in genere – costoro professano il più rigoroso materialismo e il più ferreo naturalismo. Ma che naturalismo sarà mai, quello che idealizza e assolutizza la natura, e poi grida al tradimento allorché si rende conto che essa non si adatta all’immagine storpiata che costoro se ne sono fatta, ma che, nondimeno, vorrebbero contrabbandare per buona? La causa del loro errore e del loro traviamento risiede nell’orgoglio: nel folle orgoglio per cui non accettano la condizione di creature e vorrebbero insediarsi sul trono del Creatore.
Questa è la loro ribellione intellettuale, che, nel linguaggio della fede, si chiama peccato: un disconoscere i rispettivi ruoli di colui che è stato creato e di Colui che crea. Ed è una ribellione antichissima, della quale portiamo ancora su di noi le amare conseguenze, che sempre si rinnovano in ogni figlio di Eva: la ribellione dell’orgoglio, del voler essere superiori al proprio statuto ontologico. È la ribellione di Adamo; ed è la ribellione di Faust. Ed è una ribellione cattiva, portatrice di ogni genere di male; mentre l’altra ribellione, quella esistenziale davanti all’orrore della morte, non è cattiva, anzi, sarebbe buona in se stessa, se noi la sapessimo riconoscere nella suo autentico significato di testimonianza della realtà ulteriore cui siamo destinati. La prima, è una ribellione che nasce dall’orgoglio dell’intelletto; la seconda, è una ribellione che nasce da quella scintilla della vita divina che è già in noi, qui, fin da ora.
Già adesso, infatti, noi possiamo gettare uno sguardo, e sia pure assai fugace, su quella dimensione ulteriore: i grandi mistici e i santi lo hanno fatto, e ne sono rimasti estasiati. La loro testimonianza è una sicura indicazione, che si aggiunge a quella della sana speculazione intellettuale: l’intelletto, infatti, non è un male in sé (ci mancherebbe altro!), ma lo diviene quando presume di essere tutto, di poter comprendere tutto e quando si arroga l’incredibile pretesa di rifare la realtà secondo il suo talento. Ne era certo anche Platone: vi sono dei momenti privilegiati nei quali l’anima arriva a intravedere lo splendore indescrivibile dell’Essere, che nessuna lingua umana sarà mai capace di raccontare. Sono esperienze che si possono fare, ma non comunicare. E tuttavia, sono esperienze reali. Checché ne dicano i materialisti, sono le più vere stupende che ci siano date in questa vita…
di
Francesco Lamendola
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