con la consorte Bruna Seymour e il figlio Walter VI
A Firenze Papa Francesco potrà sostare davanti alla "Crocifissione bianca" di Marc Chagall, uno dei dipinti che ama di più
(a cura Redazione "Il sismografo")
A Firenze Papa Francesco potrà sostare davanti alla "Crocifissione bianca" di Marc Chagall, uno dei dipinti che ama di più
(a cura Redazione "Il sismografo")
(Francesco Gagliano) Sulla "Crocifissione bianca" di Marc Chagall (1938, l'anno della Notte dei cristalli in Germania e delle leggi razziali fasciste in Italia), il cardinale Jorge Mario Bergoglio, nella conversazione con Francesca Ambrogetti e Sergio Rubin (El Jesuita, 2010), sottolinea che a suo avviso il dipinto "non è crudele", anzi "dà speranza" e aggiunge "il dolore viene mostrato con serietà. Penso che sia una delle cose più belle che lui abbia dipinto".
Successivamente Papa Francesco, nella sua prima intervista a Civiltà Cattolica, ha ricordato ancora questo famoso dipinto tra le opere che più ama. Ora, il 10 novembre, in occasione della sua Visita a Firenze, per incontrare i partecipanti al Quinto Convegno Ecclesiale Nazionale (9 - 13 novembre) il Pontefice potrà ammirare l'opera e per lui sarà un momento di grande importanza. “Siamo lieti di poter offrire al Santo Padre e a tutti i partecipanti al Convegno ecclesiale questa esperienza culturale e spirituale che si può definire unica”, ha detto pochi giorni fa l'arcivescovo di Firenze cardinale Giuseppe Betori.
Il dipinto - 155cm x140 cm - sarà collocato il 9 novembre in Battistero nel lato dell’ottagono fra la Porta nord e quella est. Il dipinto è evocazione dolorosa della persecuzione degli ebrei, si legge nella nota della diocesi, e “dialogherà con i mosaici del 1200 della cupola e dell’abside, rappresentando così l’unità del messaggio fra l’arte antica e quella contemporanea, la stessa tensione degli artisti di tutti i tempi verso la trascendenza”.
L’iniziativa è stata possibile grazie alla disponibilità dell’Art Institute di Chicago, da cui proviene il celebre dipinto, della Fondazione Palazzo Strozzi e dell’Opera del Duomo di Firenze. L’opera sarà trasferita al Battistero eccezionalmente da Palazzo Strozzi per poi ritornarvi fino al 24 gennaio 2016 per la mostra “Bellezza divina: tra Van Gogh, Chagall e Fontana”.
Per poter apprezzare la ricchezza e complessità del dipinto, denso di elementi narrativi e richiami simbolici, riportiamo le sintetiche ma precise analisi di due esperti: Giuseppe Frangi e Rodolfo Casadei.
Per poter apprezzare la ricchezza e complessità del dipinto, denso di elementi narrativi e richiami simbolici, riportiamo le sintetiche ma precise analisi di due esperti: Giuseppe Frangi e Rodolfo Casadei.
Giuseppe Frangi scrive: "Chagall, ebreo, vuole raccontare le persecuzioni che la sua gente stava subendo, e per dare più forza al tutto mette sorprendentemente al centro la figura di Cristo crocefisso. La narrazione può iniziare da sinistra, dove un gruppo di rivoluzionari in bandiera rossa marcia su una villaggio in fiamme; avanzando in senso antiorario troviamo un gruppo di persone che sta cercando salvezza scappando su un battello: la concitazione dei gesti rende con immediatezza la drammaticità della situazione. Altri, invece, nell’angolo stanno scappando dalla scena ma anche quasi dal quadro, per portare in salvo i rotoli della legge. Passata la menorah (il candelabro a 7 braccia), si vede un’altra donna che fugge con un bambino e un uomo che si porta in salvo con un magro sacco sulle spalle. Salendo si incontra l’altra polarità della persecuzione: un militante nazista sembra danzare trionfante dopo aver dato fuoco alla sinagoga. Poco sopra una donna e due rabbini piangono disperatamente fluttuando nell’oscurità causata dal fumo dell’incendio. Il cerchio si chiude nel particolare più toccante e disarmato della storia: tre personaggi del Vecchio Testamento piangono e si disperano guardando il disastro che là sotto gli uomini hanno combinato. Ma, messo di fronte a questa insostenibile quantità di dolore, la libera fantasia di Chagall approda a quell’immagine, così poco ortodossa rispetto alla sua religione, che sola esprime l’idea di una presenza di Dio davanti alla sofferenza degli uomini. È il grande Crocifisso bianco, bianco per il cono di luce che dall’alto scende su di lui. Con un sorprendente e poetico tocco di sincretismo Chagall riveste Gesù non con il consueto perizoma, ma con un tallit, il tipico scialle ebraico. Con Chagall tutto questo rimescolamento avviene in assoluta naturalezza, sul fondo di quel bianco che ha sì un aspetto freddo e drammatico, ma che alla fine fa da amalgama. La sua pittura è libera, com’è libero il suo cuore che d’istinto allaccia relazioni impreviste, che associa tradizioni, storie, simboli: lui ha una fortunata vocazione a non farsi intimidire dalle differenze e a non vedere gli steccati. A cogliere le affinità piuttosto che le opposizioni. In questo si capisce perché possa piacere al nuovo vescovo di Roma."
Rodolfo Casadei spiega: "I simboli di Chagall si prestano a molte letture, e qualcuno potrebbe proporre interpretazioni diverse da queste. C’è chi nelle fiamme di cui è ricco il dipinto ha voluto vedere un richiamo ai forni crematori, che nel 1938 di certo non esistevano. Chi ha parlato di un parallelo fra le persecuzioni antigiudaiche dei nazisti (individuabili nel personaggio che distrugge gli arredi della sinagoga) e quelle dei bolscevichi, raffigurati da soldati con la bandiera rossa nei pressi del villaggio ribaltato. In realtà la citazione dell’Armata Rossa simboleggia probabilmente l’unica e insufficiente speranza umana di resistenza e riscatto di fronte all’ondata antisemita, piuttosto che un fattore della persecuzione. Chagall fu Commissario dell’arte per la regione di Vitebsk all’indomani della rivoluzione bolscevica, prima di emigrare in Francia, e nel 1943, temporaneamente emigrato negli Stati Uniti, contribuì a far raccogliere aiuti per le forze armate sovietiche che combattevano l’invasione nazista. Papa Francesco non ignora certamente tutte queste complessità dell’olio su tela di Chagall. Non sappiamo su quali giudizi estetici e contenutistici si fondi la sua preferenza per questa opera. Il contrasto fra il crocifisso pacificato e silenzioso e il mondo intorno lacerato e scosso, l’apparente riconciliazione fra Gesù in croce e il suo popolo nel momento di massima persecuzione di quest’ultimo, a sua volta crocefisso, la discreta e insieme inisistita e insistente invocazione a Cristo a scendere dalla croce, devono averlo certamente colpito. Essendo un pastore di anime, ad averlo colpito di più dovrebbe essere stato soprattutto il grido blasfemo e umanissimo dell’artista. Nel cuore di papa Francesco c’è posto anche per gli uomini esasperati."
Perché papa Francesco ama Marc Chagall
16-03-2013
Da ardito filosofo e colto intellettuale, Papa Francesco ha una predilezione per la Crocifissione bianca di Chagall. Questo conferma l’intuizione, avuta sin dal suo primo apparire, di un Papa sì semplice e informale, ma dalla natura ferma e dalla comprensione piena di ciò che ci attende. E quello che ci attende lo si può comprendere solo alla luce di un’adeguata lettura di un passato non lontano, come quello descritto da Marc Chagall nell’opera in questione.
La Crocifissione bianca riassume la tragedia del popolo ebraico, delle persecuzioni, dei pogrom, delle espropriazioni indebite subite lungo tutto il XX secolo. In alto, a sinistra, le bandiere rosse dell’ideologia comunista firmano drammaticamente l’azione distruttrice verso una comunità che ovunque si trovi conserva il legame prezioso dei teffillim. La sinagoga incendiata rievoca le distruzioni naziste dei luoghi di culto e delle opere di molti artisti ebrei, tra cui quelle dello stesso Chagall. In alto, il dolore dei rabbini e delle donne si mescola al fumo che, salendo da Auschwitz, porta con sé infinite esistenze.
Al centro, Cristo catalizza la girandola di eventi: un Cristo luminoso in cui ogni dolore s’infrange, tanto è grande la pace e la serenità che emana. Cristo come capitulum, come rotolo attorno al quale si avviluppa la torà, assomma in sé la forza intrinseca di un popolo che canta a Dio: «se anche mi uccidesse, spererei in Lui». Cristo, infatti, porta il talled Gadol, lo scialle della preghiera e davanti a Lui arde instancabile una menorah.
Da alcune dichiarazioni rilasciate da Papa Francesco mentre ancora era Cardinale, dalle parole brevi e chiare pronunciate all’inizio di questo suo Pontificato mi pare davvero ch’egli abbia davanti ai suoi occhi il capitulum del Cristo crocefisso, attorno al quale si avviluppa non soltanto tutta la torah, ma la storia della salvezza nella sua totalità.
In quest’opera si legge in filigrana il dolore di ogni perseguitato. Chagall, infatti, ebreo convinto, ha saputo leggere nelle piaghe del Crocefisso il grido di ogni innocente, specie dell’innocenza del suo popolo. Non aveva bisogno Chagall di togliere la croce dai muri per proclamare la sua identità, non aveva bisogno di cancellare la fede cristiana per affermare la sua. Egli ha saputo riconoscere nell’autentica esperienza religiosa cristiana la via per dare un nome al dolore.
Forse per questo l’opera in questione piace tanto al Papa, Chagall ci riconduce al valore della testimonianza: chi non confessa Cristo, ha appena annunciato il neo eletto Pontefice, lo voglia o no annuncia l’Anticristo, cioè Satana. Abbiamo bisogno di parole così, chiare, com’è chiara l’arte ispirata. L’arte, come la fede vera, quella sorretta dalla ragione, l’arte vera, come la ragione sorretta dalla fede nella verità, educa al Mistero, educa all’incontro con quell’Altro e con quell’Oltre che rende liberi di fronte al diverso che ci vive accanto.
Chagall dipinge in quest’opera ciò che ha visto coni suoi occhi: la sofferenza della Shoà, il tramonto dell’ideologia che ancora inonda di rosso il cielo di Europa. Ha visto e non può tacere. Nella sua voce c’è la nostra voce. Non è la voce altisonante e stridula che si leva spesso dai polemici ad oltranza, da quelli che per definizione sono «contro». È la voce sommessa della preghiera salmica, voce impercettibile, ma robusta e ardente come il fuoco della menorah. È la voce del violino che riposa ancora, nonostante i pogrom, accanto alle case incendiate del quadro di Chagall. È la voce della bellezza della verità la quale, proprio quando è conculcata, allora grida più forte. Questa è la voce del Papa e di mille volti sconosciuti (come era sconosciuto ai più il volto di Bergoglio) che del dialogo o meglio, dell’incontro e della ricerca sincera della verità, fanno la loro missione.
Ebrei e Chiesa Cattolica
C’è stato sempre nei secoli un ruscello di ebrei che sono diventati cristiani, ma oggi il fenomeno ha caratteristiche e dimensioni nuove.
Sembra che attualmente gli ebrei che riconoscano in Gesù il vero Messia sono nel mondo circa 50.000.
Costoro sono dunque spiritualmente cristiani, ma non si fanno battezzare, non entrano nella Chiesa, quasi che la Chiesa non l’avesse voluta Gesù.
Essi ritengono d’essere l’avanguardia dei tempi escatologici annunciati da Gesù, quando gli Ebrei ridiventeranno in blocco messianici, ossia riconosceranno che Gesù è il Messia, e l’apostolato vivrà una svolta decisiva per il mondo intero (dove, peraltro, la Chiesa è già presente in tutte le Nazioni della società internazionale).
La Chiesa Cattolica ha stabilito rapporti di dialogo con i rappresentanti di questi ebrei messianici, dei quali 10.000 circa sono in Israele, rassicurandoli della continuità, da essa sempre professata, tra Antica e Nuova Alleanza e spiegando la derivazione messianica dei riti di questa ultima.
Il fenomeno è molto importante, perché tra l’Ottocento e il Novecento tutti i capi della rivoluzione secolarizzante sono stati ebrei e se in questo nostro secolo il fenomeno crescesse potrebbe riservare consolanti sorprese per la Chiesa.
Don Ennio Innocenti 24 ott 2015
Per Chagall la crocifissione è simbolo del popolo ebraico
La "Crocefissione bianca" dell'artista russo Marc Chagall è il quadro preferito di papa FrancescoRoma, (ZENIT.org) Tanja Schultz | 8315 hits
La celebre Crocifissione bianca di Marc Chagall (1887-1985) è il dipinto preferito di Papa Francesco. Lo ha rivelato egli stesso nel libro-intervista Il gesuita, pubblicato nel 2010 dai giornalisti argentini Francesca Ambrogetti e Sergio Rubin.
Il dipinto a olio (155 × 140 cm), conservato all'Istitute of Arts di Chicago, è uno dei più discussi tra le opere dell'artista russo.
Nato e cresciuto in una famiglia ebraica ortodossa (il suo vero nome era Moishe Segal un cognome levita, acronimo di Segan Levi, che significa "assistente levita") Chagall ha spesso affrontato nelle sue opere il rapporto tra ebrei e cristiani. Esistono diversi dipinti con la scena della crocifissione. LaCrocifissione bianca - così chiamata per il colore bianco-grigio dello sfondo - interpreta il Cristo martire in modo inconsueto e particolare.
In questo dipinto Gesù Crocifisso indossa intorno ai fianchi il tallit, lo scialle di preghiera ebraico, e un panno invece della corona di spine sul capo. Intorno a lui, il mondo sta sprofondando nel caos e nella sofferenza: al posto della madre consolatrice accanto al crocefisso si vedono scene di persecuzione nei confronti degli ebrei.
A indurre l’artista all‘esecuzione del quadro fu la brutale "Notte dei cristalli" (Kristallnacht) nel novembre 1938, quando ebbe l’inizio la persecuzione degli ebrei in Germania.
In questo modo Chagall avrebbe espresso il suo orrore per gli episodi che stavano accadendo, uno sconvolgente documento del tempo.
Circa l’interpretazione del dipinto, sul ruolo di colui che si diceva essere il figlio di Dio e sulle scene simboliche ci sono posizioni divergenti.
Chagall è stato molto criticato in alcuni ambienti ebraici per la personalissima visione della figura di Cristo. Alcuni cristiani hanno letto il dipinto come un richiamo provocatorio alle radici ebraiche.
In merito alle diverse interpretazioni, già Chagall si lamentò dei critici ebrei: "Non hanno mai capito – disse - chi era veramente questo Gesù. Uno dei nostri rabbini più amorevole che soccorreva sempre i bisognosi e i perseguitati. Gli hanno attribuito troppe insegne da sovrano. E‘ stato considerato un predicatore dalle regole forti. Per me è l'archetipo del martire ebreo di tutti i tempi."
A prima vista le figure e gli oggetti dipinti in stile naif richiamano alle fantasiose immagini del “sogno” dell’artista.
La violenza e la brutalità delle raffigurazioni nascoste si scoprono solo in un esame più attento.
Il centro del dipinto è occupato da Cristo, inchiodato a una gigantesca croce a forma di T.
La rinuncia alla consueta forma cristiana della croce viene interpretato come un’aspirazione pacifista che supera l’abuso della croce utilizzata come spada nelle Crociate e, in considerazione del momento storico in cui il dipinto fu eseguito, simboleggia il desiderio di pace in una Germania sopraffatta dalla mobilitazione per la guerra.
L'iscrizione I.N.R.I. (Iesus Nazarenus Rex Iudaeorum) compare due volte sulla croce: in rosso, color sangue, in lettere gotiche, che ricorda i pamphlet antisemiti dei nazionalsocialisti, e poi scritta per esteso in ebraico.
Ai piedi del Cristo, il candelabro ebraico - la menorah - è illuminato da un raggio di sole che viene dal cielo. La posizione della menorah vicino alla croce e il raggio di luce vengono interpretati come omaggio di Chagall al Salvatore. Un ampio raggio di luce bianca raggiunge il crocifisso passando dall’alto. In altre opere di Chagall la luce trascendente caratterizza alcuni profeti ebrei, come Mosè e Elia. Questo fa presumere che Chagall consideri Cristo allo stesso livello dei profeti venerati degli ebrei. Ancora più importante è il messaggio, secondo cui nel Crocifisso il martirio del popolo ebraico è stato accettato da Dio. Per Chagall la crocifissione di Gesù diventa un simbolo del popolo ebraico!
Cristo ha gli occhi socchiusi: sembra addormentato sulla croce e malgrado le mani e i piedi insanguinati, non sembra soffrire. Non percepisce la sofferenza e la distruzione intorno a lui. La grande scala appoggiata contro la croce viene interpretata da alcuni come un invito a scendere dalla croce, per porre fine alla violenza ed alla sofferenza. Altri vanno oltre e ne leggono innanzitutto una critica a quella che sarebbe stato un atteggiamento passivo della Chiesa durante il periodo nazista.
Intorno al Crocifisso il mondo è in subbuglio. Un mondo straziato da rivolte, saccheggi, incendi, omicidi, distruzione e espulsione forzata delle genti. A destra si vedono le fiamme che escono da una sinagoga distrutta. Un uomo in divisa e stivali neri, un nazista accanito, con la faccia sanguigna piena di odio, ha appena acceso il fuoco alla tenda del tempio. Sulla strada ci sono un lampadario distrutto a terra e una sedia rovesciata, sulla quale, una volta, stavano seduti i pii fedeli, dondolandosi nella preghiera, cercando la consolazione divina.
L'arca è spezzata, un fumo grigio si solleva da un rotolo della Torah che sta bruciando. Libri di preghiera sono buttati nel fango. Alcune pagine sono bagnate dalle lacrime versate. Un vecchio ebreo, con un sacco sulle spalle, tipiche di un profugo, cerca di scappare, pare addirittura voler uscire dal quadro. Una barca sovraccarica di profughi disperati balla senza meta sulle onde, senza speranza di trovare un porto sicuro, un approdo dove essere accolti. Accanto ci sono gli abitanti di un villaggio distrutto. Sullo sfondo avanzano dei combattenti dell'Armata Rossa. Un uomo, con una targa bianca appesa al collo, stigmatizzato come ebreo, vacilla umiliato con le braccia tese alzate. Gli unici che piangono per tante sofferenze sono un gruppo di ebrei anziani, quasi come angeli dal cielo.
L'allora cardinale Bergoglio non ha spiegato che cosa in particolare ha attirato la sua attenzione in questo dipinto, né ha fornito una sua interpretazione dell’opera di Chagall. Tuttavia, il suo favore dà l’idea di una certa apertura nei confronti dei contenuti anticonformisti nell’arte, della sua sensibilità nei confronti degli ebrei e forse incuriosito dell‘interpretazione del rabbi in Croce.
E‘ ben noto che il cardinale Bergoglio è particolarmente interessato all’amicizia con il popolo e la religione ebraica. Una volta eletto Papa, ha invitato il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, alla cerimonia dell’inaugurazione del suo pontificato. Durante l’incontro personale papa Francesco e il rabbi Riccardo di Segni si sono mostrati sorridenti e allegri.
(23 Marzo 2013) © Innovative Media Inc.
(a cura Redazione "Il sismografo")
(Francesco Gagliano) Sono passati 50 anni dalla pubblicazione della Nostra aetate, una delle Dichiarazioni più significative di un evento epocale per la Chiesa Cattolica: il Concilio Vaticano II; evento che nella parte finale del Sinodo - che si è chiuso domenica scorsa - è tornato prepotentemente, aleggiando come un soffio sui padri sinodali a tal punto che sono in molti a pensare che le allocuzioni commemorative del 17 ottobre scorso - del Papa e del cardinale austriaco Christoph Schönborn - non sono estranee alla riuscita dell'assemblea sinodale, che nelle prime due settimane sembrava intrappolata nella palude.
La Dichiarazione conciliare sarà ricordata domani, giorno della ricorrenza, con una singolare e mai vista Udienza generale interreligiosa presieduta da Papa Francesco in Piazza San Pietro. Il Santo Padre, ricorda l'Osservatore Romano, mercoledì 28 "incontrerà fratelli e sorelle di diverse religioni e i partecipanti al convegno internazionale organizzato per la circostanza dal Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso, assieme alla Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo (del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani) e alla Pontificia università Gregoriana". (Alcuni interventi)
Giovedì 28 ottobre 1965
50 anni fa, giovedì 28 ottobre 1965, il Concilio approvò la Dichiarazione Nostra aetate con 2221 voti favorevoli, 88 contrari e uno nullo. (1) Quando Papa Montini promulgò questo e altri documenti conciliari esclamò:"La Chiesa parla, la Chiesa prega, la Chiesa cresce, la Chiesa si costruisce». La Nostra aetate, Dichiarazione sulle relazioni della Chiesa con le Religioni non Cristiane, conobbe - ricordò poi il cardinale Francis Arinze- un iter arduo e spesso difficile. Qualcuno dice che dopo un anno di lavoro preparatorio il testo si componeva di poche pagine. Nel 1963 il testo, lungo poco più di una facciata, venne distribuito in aula come IV capitolo dello Schema sull’Ecumenismo. "Nostra Aetate - osseva il porporato africano - fonda le sue radici nel capitolo 4 dello Schema originale del Concilio Vaticano Secondo sull’Ecumenismo. All’inizio era stato concepito per eseguire il desiderio di Papa Giovanni XXIII di una dichiarazione sugli Ebrei. Poiché questo non sarebbe però ricaduto in senso stretto sotto il tema dell’ecumenismo, prevalse presto l’idea di fare un documento a parte. Anche i contenuti vennero estesi. Mentre i Padri conciliari dell’Europa e degli Stati Uniti pensavano alle relazioni con gli Ebrei, quelli del mondo arabo avvertivano una diversa reazione dai Musulmani, per cui difesero l’idea che almeno si discutessero nello stesso documento le relazioni tanto con gli Ebrei che con i Musulmani. Per di più i Padri del Concilio, specie dall’Asia e dall’Africa, pensavano alle altre religioni del mondo."
Riflessi di verità
Per la prima volta nella sua storia bi-millenaria, la Chiesa - con la Nostra aetate - apriva un fraterno dialogo con le altre religioni riconoscendo “riflessi di verità” in alcune di esse (induismo, buddismo) e inaugurando una nuova stagione di dialogo con le altri due grandi fedi monoteiste e abramitiche: l’Islam e l’Ebraismo. (2) Una sfida non facile. La religione musulmana era stata l’eterna rivale di quella cristiana per buona parte della storia e non erano poi passati molti secoli da quando musulmano e cristiano erano sinonimi di “infedele”. Nella Dichiarazione tuttavia si sottolineavano le numerose affinità tra le fedi monoteiste e abramitiche (3) e non si esitava a sottolineare che “se, nel corso dei secoli, non pochi dissensi e inimicizie sono sorte tra cristiani e musulmani, il sacro Concilio esorta tutti a dimenticare il passato e a esercitare sinceramente la mutua comprensione, nonché a difendere e promuovere insieme per tutti gli uomini la giustizia sociale, i valori morali, la pace e la libertà”.
Il popolo ebraico
Lo stesso spirito di reciproca comprensione e la stessa volontà di superare il passato permeano i nuovi rapporti con l’ebraismo. Il popolo ebraico è quello con cui Dio ha stretto la prima Alleanza e la Chiesa stessa “si nutre dalla radice dell'ulivo buono su cui sono stati innestati i rami dell'ulivo selvatico che sono i gentili. La Chiesa crede, infatti, che Cristo, nostra pace, ha riconciliato gli Ebrei e i gentili per mezzo della sua croce e dei due ha fatto una sola cosa in se stesso”. Una metafora potente, i gentili si sono innestati sul tronco dell’ulivo buono del popolo ebraico, che per primo beneficiò della misericordia di Dio. Ma il documento conciliare non si esaurisce così; erano passati solo 20 anni dagli orrori dell’Olocausto ed era vitale per la Chiesa condannare apertamente una pagina così oscura di un passato così prossimo. Si agì su due fronti: condannando le persecuzioni e superando l’antico pregiudizio nei confronti del popolo cosiddetto "deicida": “la Chiesa, che esecra tutte le persecuzioni contro qualsiasi uomo, memore del patrimonio che essa ha in comune con gli Ebrei, e spinta non da motivi politici, ma da religiosa carità evangelica, deplora gli odi, le persecuzioni e tutte le manifestazioni dell'antisemitismo dirette contro gli Ebrei in ogni tempo e da chiunque”. Premessa a questo passaggio fondamentale è un’altra breve ma decisiva dichiarazione: “se autorità ebraiche con i propri seguaci si sono adoperate per la morte di Cristo, tuttavia quanto è stato commesso durante la sua passione, non può essere imputato né indistintamente a tutti gli Ebrei allora viventi, né agli Ebrei del nostro tempo”. È con queste poche righe che ogni riferimento negativo al popolo ebraico, già abolito da Giovanni XXIII nel 1959 nel corso di una celebrazione eucaristica, venne eliminato una volta per tutte con l’introduzione della nuova liturgia in lingua volgare voluta da Paolo VI nel 1970.
L’ eredità della Nostra aetate è quindi preziosa e quanto mai attuale e su questo si riflette in questi giorni. Oltre al Simposio presso l’Università Pontificia Università Gregoriana dal 26 al 28 ottobre il 29 ottobre si terrà inoltre un forum sul tema «L’importanza del continuo impegno interreligioso nella lotta contro l’intolleranza» organizzato dall’Ambasciata degli Stati Uniti presso la Santa Sede e dalla John Cabot University, in cui prenderanno parola rappresentanti cattolici, ebrei e musulmani. Infine, si terrà a Castel Gandolfo dal 28 ottobre all’1 novembre l’assemblea europea di «Religioni per la Pace» dal titolo «Accogliere l’altro: dalla paura alla fiducia». Perché l’accoglienza è l’unico strumento che, in armonia con il Concilio, possa scongiurare “qualsiasi discriminazione tra gli uomini e persecuzione perpetrata per motivi di razza e di colore, di condizione sociale o di religione”. E così la Chiesa “seguendo le tracce dei santi apostoli Pietro e Paolo, ardentemente scongiura i cristiani che, « mantenendo tra le genti una condotta impeccabile » (1 Pt 2,12), se è possibile, per quanto da loro dipende, stiano in pace con tutti gli uomini affinché siano realmente figli del Padre che è nei Cieli”.
Note
(1) Nella stessa data fuono approvati i decreti Optatam totius, Perfectae caritatis, Christus Dominus e la dichiarazione Gravissimum educationis.
(2) Quello che ne risultò alla fine fu un breve documento articolato in cinque paragrafi. I paragrafi 1 e 5 si applicano a tutte le religioni. Il paragrafo 2 è sull’Induismo, il Buddismo e altre religioni. I musulmani sono ricordati nel paragrafo 3 e gli Ebrei nel paragrafo 4.
(3) Il testo non usa l'espressione "abramitiche". Parla di Abramo.
La Dichiarazione conciliare sarà ricordata domani, giorno della ricorrenza, con una singolare e mai vista Udienza generale interreligiosa presieduta da Papa Francesco in Piazza San Pietro. Il Santo Padre, ricorda l'Osservatore Romano, mercoledì 28 "incontrerà fratelli e sorelle di diverse religioni e i partecipanti al convegno internazionale organizzato per la circostanza dal Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso, assieme alla Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo (del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani) e alla Pontificia università Gregoriana". (Alcuni interventi)
Giovedì 28 ottobre 1965
50 anni fa, giovedì 28 ottobre 1965, il Concilio approvò la Dichiarazione Nostra aetate con 2221 voti favorevoli, 88 contrari e uno nullo. (1) Quando Papa Montini promulgò questo e altri documenti conciliari esclamò:"La Chiesa parla, la Chiesa prega, la Chiesa cresce, la Chiesa si costruisce». La Nostra aetate, Dichiarazione sulle relazioni della Chiesa con le Religioni non Cristiane, conobbe - ricordò poi il cardinale Francis Arinze- un iter arduo e spesso difficile. Qualcuno dice che dopo un anno di lavoro preparatorio il testo si componeva di poche pagine. Nel 1963 il testo, lungo poco più di una facciata, venne distribuito in aula come IV capitolo dello Schema sull’Ecumenismo. "Nostra Aetate - osseva il porporato africano - fonda le sue radici nel capitolo 4 dello Schema originale del Concilio Vaticano Secondo sull’Ecumenismo. All’inizio era stato concepito per eseguire il desiderio di Papa Giovanni XXIII di una dichiarazione sugli Ebrei. Poiché questo non sarebbe però ricaduto in senso stretto sotto il tema dell’ecumenismo, prevalse presto l’idea di fare un documento a parte. Anche i contenuti vennero estesi. Mentre i Padri conciliari dell’Europa e degli Stati Uniti pensavano alle relazioni con gli Ebrei, quelli del mondo arabo avvertivano una diversa reazione dai Musulmani, per cui difesero l’idea che almeno si discutessero nello stesso documento le relazioni tanto con gli Ebrei che con i Musulmani. Per di più i Padri del Concilio, specie dall’Asia e dall’Africa, pensavano alle altre religioni del mondo."
Riflessi di verità
Per la prima volta nella sua storia bi-millenaria, la Chiesa - con la Nostra aetate - apriva un fraterno dialogo con le altre religioni riconoscendo “riflessi di verità” in alcune di esse (induismo, buddismo) e inaugurando una nuova stagione di dialogo con le altri due grandi fedi monoteiste e abramitiche: l’Islam e l’Ebraismo. (2) Una sfida non facile. La religione musulmana era stata l’eterna rivale di quella cristiana per buona parte della storia e non erano poi passati molti secoli da quando musulmano e cristiano erano sinonimi di “infedele”. Nella Dichiarazione tuttavia si sottolineavano le numerose affinità tra le fedi monoteiste e abramitiche (3) e non si esitava a sottolineare che “se, nel corso dei secoli, non pochi dissensi e inimicizie sono sorte tra cristiani e musulmani, il sacro Concilio esorta tutti a dimenticare il passato e a esercitare sinceramente la mutua comprensione, nonché a difendere e promuovere insieme per tutti gli uomini la giustizia sociale, i valori morali, la pace e la libertà”.
Il popolo ebraico
Lo stesso spirito di reciproca comprensione e la stessa volontà di superare il passato permeano i nuovi rapporti con l’ebraismo. Il popolo ebraico è quello con cui Dio ha stretto la prima Alleanza e la Chiesa stessa “si nutre dalla radice dell'ulivo buono su cui sono stati innestati i rami dell'ulivo selvatico che sono i gentili. La Chiesa crede, infatti, che Cristo, nostra pace, ha riconciliato gli Ebrei e i gentili per mezzo della sua croce e dei due ha fatto una sola cosa in se stesso”. Una metafora potente, i gentili si sono innestati sul tronco dell’ulivo buono del popolo ebraico, che per primo beneficiò della misericordia di Dio. Ma il documento conciliare non si esaurisce così; erano passati solo 20 anni dagli orrori dell’Olocausto ed era vitale per la Chiesa condannare apertamente una pagina così oscura di un passato così prossimo. Si agì su due fronti: condannando le persecuzioni e superando l’antico pregiudizio nei confronti del popolo cosiddetto "deicida": “la Chiesa, che esecra tutte le persecuzioni contro qualsiasi uomo, memore del patrimonio che essa ha in comune con gli Ebrei, e spinta non da motivi politici, ma da religiosa carità evangelica, deplora gli odi, le persecuzioni e tutte le manifestazioni dell'antisemitismo dirette contro gli Ebrei in ogni tempo e da chiunque”. Premessa a questo passaggio fondamentale è un’altra breve ma decisiva dichiarazione: “se autorità ebraiche con i propri seguaci si sono adoperate per la morte di Cristo, tuttavia quanto è stato commesso durante la sua passione, non può essere imputato né indistintamente a tutti gli Ebrei allora viventi, né agli Ebrei del nostro tempo”. È con queste poche righe che ogni riferimento negativo al popolo ebraico, già abolito da Giovanni XXIII nel 1959 nel corso di una celebrazione eucaristica, venne eliminato una volta per tutte con l’introduzione della nuova liturgia in lingua volgare voluta da Paolo VI nel 1970.
L’ eredità della Nostra aetate è quindi preziosa e quanto mai attuale e su questo si riflette in questi giorni. Oltre al Simposio presso l’Università Pontificia Università Gregoriana dal 26 al 28 ottobre il 29 ottobre si terrà inoltre un forum sul tema «L’importanza del continuo impegno interreligioso nella lotta contro l’intolleranza» organizzato dall’Ambasciata degli Stati Uniti presso la Santa Sede e dalla John Cabot University, in cui prenderanno parola rappresentanti cattolici, ebrei e musulmani. Infine, si terrà a Castel Gandolfo dal 28 ottobre all’1 novembre l’assemblea europea di «Religioni per la Pace» dal titolo «Accogliere l’altro: dalla paura alla fiducia». Perché l’accoglienza è l’unico strumento che, in armonia con il Concilio, possa scongiurare “qualsiasi discriminazione tra gli uomini e persecuzione perpetrata per motivi di razza e di colore, di condizione sociale o di religione”. E così la Chiesa “seguendo le tracce dei santi apostoli Pietro e Paolo, ardentemente scongiura i cristiani che, « mantenendo tra le genti una condotta impeccabile » (1 Pt 2,12), se è possibile, per quanto da loro dipende, stiano in pace con tutti gli uomini affinché siano realmente figli del Padre che è nei Cieli”.
Note
(1) Nella stessa data fuono approvati i decreti Optatam totius, Perfectae caritatis, Christus Dominus e la dichiarazione Gravissimum educationis.
(2) Quello che ne risultò alla fine fu un breve documento articolato in cinque paragrafi. I paragrafi 1 e 5 si applicano a tutte le religioni. Il paragrafo 2 è sull’Induismo, il Buddismo e altre religioni. I musulmani sono ricordati nel paragrafo 3 e gli Ebrei nel paragrafo 4.
(3) Il testo non usa l'espressione "abramitiche". Parla di Abramo.
“In questi cinquant’anni tanto è stato fatto ma tanto resta ancora da fare. Tante parole sono state dette ma ci sono stati anche tanti silenzi. La strada indicata dalla Nostra Aetate è tuttora di grande attualità e, come si legge nella Dichiarazione, ancor oggi siamo esortati (...)
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