Ordo Orbis. Un saggio di Álvaro d'Ors per la tragica ora presente dell'Europa
Attraverso una serrata analisi che risale alle variazioni del religioso e del politico nei primordi dell'Epoca moderna Alvaro d'Ors, forse il più grande giurista cattolico del XX secolo, in un saggio pubblicato con il titolo Ordo orbis nella Revista de Estudios Politicos (1947, nr. 35, quil'originale spagnolo), ravvisa il vero momento di crisi mondiale perdurante nella mancanza di un'istanza capace di pronunciare efficacemente il diritto per tutti i corpi politici e le nazioni. I tentativi dell'umanità, o di parti di essa che di volta in volta si proclamano "umanità", di assumere la funzione di questa giurisdizione sono finora falliti causando disordine ancora maggiore. La soluzione esposta da d'Ors, a ridosso della pubblicazione dell'enciclica di Pio XII Mystici Corporis (1943) (qui) e a essa ispirata, può forse ai più apparire del tutto inattuale in un periodo di secolarizzazione avanzata, ma, in questo preciso momento di tragico trionfo dell'anomia anticristica e dell'errore (vedi l'opportunissimo articolo di Chiesa e postconcilio qui), ha certamente il raro pregio di dimostrare ciò che manca da troppo tempo: l'esercizio dell'autorità cattolica e della sua forza frenante di fronte a tutti gli uomini e a ogni nazione.
L’Europa perse la sua egemonia mondiale durante la guerra europea e il suo pensiero fu sottomesso al gioco di due forze esotiche le quali, nonostante il loro carattere generale, procedevano dall’impulso di due prepotenti imperialismi che tentavano di soppiantare il Vecchio Continente nella sua posizione egemonica. Da una parte, l’internazionalismo comunista che procedeva da ciò che più tardi si rivelò essere l’imperialismo slavo; dall’altra, il pacifismo sanzionista che, seppur in maniera meno esplicita, era una copia dell’atteggiamento imperialista americano. E, come la prima forza operava favorendo la dissoluzione, anche se aspirando a un’ulteriore costruzione globale, la seconda pretendeva d’instaurare immediatamente un ordine stabile. Entrambe tuttavia convergevano in un punto essenziale: nell’eliminazione del vecchio diritto di guerra, il tradizionale ius belli europeo, attraverso la condanna totale e assoluta della guerra tra Stati, della guerra considerata come duello tra parti eguali, in virtù del quale un conflitto di interessi irrisolvibile per transazione assumeva il carattere dell’offesa e si concludeva fattualmente attraverso la vittoria militare di uno dei due eserciti. Rispetto a questo concetto di guerra limitata, di guerra duello, la nuova dottrina venuta dall’Oriente afferma che non v’è guerra lecita all’infuori della lotta civile, della lotta di tutto il proletariato per la propria liberazione; la dottrina americana, a sua volta, sostiene che non v’è guerra lecita se non quella che si esegue nella forma delle sanzioni inflitte all’aggressore e in nome di una presunta delega universale di tutte le nazioni. Diciamo che quest’ultima dottrina è la fedele trasposizione della mentalità americana, giacché furono gli Stati Uniti a coniugare nel modo più naturale dichiarazioni di asettico pacifismo (attraverso la demarcazione di linee che servivano a isolare, come cordoni sanitari, i loro virtuosi e pacifici abitanti da ogni contaminazione proveniente dalla vecchia Europa bellicista e decadente) con interventi sanzionatorii di portata generale e in contraddizione con ogni pretesa neutralità. Se l’aspetto pacifista, di cui abbiamo detto, si manifesta nella dottrina Monroe, nella prospettiva americana, e nel patto Kellog come momento di instaurazione generale, l’altro aspetto, quello interventista, coniugato con estrema naturalezza con il pacifismo, trova espressione nella tramontata organizzazione della Società delle Nazioni e nella, non molto più efficace, attuale Organizzazione delle Nazioni Unite; ancor più concretamente, in quanto atto propriamente americano, nell’intervento degli eserciti transatlantici nelle questioni del nostro emisfero[1].
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