PADRE GEMELLI E SAN PIO
Nel 1920 la fama di Padre Pio da Pietrelcina, al secolo Francesco Forgione, aveva già cominciato a spandersi per tutta l’Italia, l’Europa e il mondo.
Nel marzo del 1920, in veste privata ma, in realtà, su richiesta del papa Benedetto XV, si era presentato a San Giovanni Rotondo l’arcivescovo di Simla, in India, monsignor A. E. J. Kenealy, noto per la sua diffidenza verso i fenomeni mistici e per la sua adesione ai fatti scientificamente provati. Ebbene, al termine della sua visita e del colloquio avuto con Padre Pio, nel corso del quale poté anche osservare le mani stigmatizzate del cappuccino, egli riferì testualmente: «Sono venuto, ho visto e sono stato vinto.»
Al giudizio entusiasta di monsignor Kenealy, che descriveva Padre Pio come un vero uomo di Dio, come un santo, e che si diceva certissimo della origine soprannaturale delle sue stimmate, si aggiungevano anche quelli di altre insigni personalità, tra cui il vescovo di Corinto, Bonaventura Cerretti; per non parlare della popolazione di quell’angolo della Puglia, che era compattamente solidale con il frate ed entusiasta del suo carisma e del suo esempio.
Però vi erano anche dei potenti nemici, i quali aspettavano il momento di metterlo nella peggiore luce possibile davanti al papa e davanti alla Chiesa: primo fra tutti, il vescovo di Manfredonia (dalla cui autorità dipendeva il convento di San Giovanni Rotondo), monsignor Pasquale Gagliardi, uomo piccolo, malfidente e rancoroso, il quale non si stancava di presentare quel suo oscuro fraticello, assurto quasi improvvisamente alla notorietà nazionale e internazionale, come un vanitoso, un ipocrita, un amante del lusso e, soprattutto, della compagnia delle donne, con le quali intratteneva una familiarità a dir poco sospetta.
Così, nel 1920, la posizione di Padre Pio era, per così dire, sospesa in bilico fra due abissi: quello della popolarità ormai quasi incontenibile, cui mancava solo il suggello ufficiale della gerarchia ecclesiastica perché egli fosse venerato, di fatto, come un santo; e quello dell’ostracismo, della sorda guerriglia, della malevola persecuzione, che stava chiamando a raccolta tutti coloro i quali, specialmente nelle alte sfere del Sant’Uffizio, diffidavano fortemente di lui, perché lo consideravano un esaltato o un isterico, se non addirittura un simulatore e un autolesionista, né potevano ammettere assolutamente che le sue stimmate fossero autentiche.
Mentre la posizione di Padre Pio all’interno della Chiesa cattolica era, dunque, così in bilico, la spinta decisiva nella seconda direzione, quella della persecuzione dura, implacabile, che sarebbe durata per gran parte della sua vita (e avrebbe conosciuto una recrudescenza a partire dal 1960, quando si giunse al punto di collocare dei registratori nel suo confessionale, per smascherare i suoi pretesi rapporti illeciti con le pie donne del suo seguito) gli venne data da una personalità eminente del mondo culturale cattolico: Padre Agostino Gemelli.
Recente fondatore della Università Cattolica di Milano, scienziato conosciuto a livello mondiale per i suoi studi di psicologia, e fornito di agganci e conoscenze nelle più alte sfere della Chiesa, compreso il papa Benedetto XV, al secolo Giacomo Della Chiesa, ed il futuro papa Pio XI, al secolo Achille Ratti (che all’epoca del fatto era nunzio apostolico in Polonia e sarebbe poi divenuto, l‘anno successivo, arcivescovo di Milano), nonché ardente propugnatore della filosofia neotomista e sostenitore della necessità, per la Chiesa, di passare al contrattacco, lanciando la sfida al mondo secolarizzato, egli possedeva le qualità per emettere un parere decisivo intorno al “caso” di Padre Pio.
Di Padre Agostino Gemelli abbiamo già avuto occasione di occuparci, per la sua straordinaria mancanza di carità verso i nostri fratelli minori, gli animali, in un articolo di un paio d’anni or sono (cfr. «Un francescano non molto caritatevole: padre Agostino gemelli, vivisettore», apparso sul sito di Arianna Editrice in data 12/11/2008). C’è da chiedersi se Gemelli si sia mai preso la briga di leggere e meditare a fondo i «Fioretti» di San Francesco, il fondatore dell’Ordine di cui portava egli stesso il saio; se, ad esempio, avesse mai svolto qualche riflessione e tratto qualche conclusione sul celeberrimo episodio del Lupo di Gubbio, che, all’epoca, perfino i bambini delle scuole elementari conoscevano in ogni particolare.
Né maggiore carità avrebbe egli mostrato nella delicatissima missione “diplomatica” che gli venne affidata da Pio XI per convincere lo scomunicato padre Ernesto Buonaiuti, nel gennaio del 1926, a rinunciare spontaneamente alla cattedra universitaria e a far ritirare il libro su Lutero, che l’editore Zanichelli di Bologna stava per mettere in commercio, in cambio di un rientro nel seno della Chiesa cattolica. In quella occasione, a detta di Buonaiuti e di altre persone presenti al colloquio, il francescano si mostrò di una rozzezza addirittura offensiva, spingendo lo scomunicato a rifiutare la riconciliazione; fra l’altro, a proposito del libro di Zanichelli, avrebbe detto testualmente: «Dica, dica un prezzo, don Ernesto, e sarà pagato», dando a vedere trattarsi, per lui, esclusivamente o prioritariamente di una questione venale, risolvibile in moneta sonante (episodio citato nella biografia di Giordano Bruno Guerri, «Eretico e profeta», Mondadori, 2001).
Per quello che riguarda il ruolo da lui avuto nella persecuzione contro il futuro San Pio da Pietrelcina, l’episodio è stato rievocato dallo scrittore e giornalista Renzo Allegri nel suo libro «A tu per tu con Padre Pio» (Milano, Mondadori, 1995, pp. 105-106):
«Perché Padre Gemelli avesse deciso di andare a visitare Padre Pio, non si è mai saputo. Né si è mai saputo se qualcuno lo avesse mandato. Era amico delle maggiori autorità ecclesiastiche del tempo. Era rettore dell’Università Cattolica, presidente della Pontificia Accademia delle Scienze, consultore del Sant’Uffizio, amico del papa Benedetto XV e amico e confidente di Achille Ratti, che sarebbe diventato papa due anni dopo con il nome di Pio XI.
Il giudizio di Padre Gemelli poteva essere definitivo sul “caso” di Padre Pio. È evidente quindi che le massime autorità ecclesiastiche avessero interesse a sentire che cosa ne pensasse. Che Padre Gemelli poi avesse deciso di andare a San Giovanni Rotondo con l’esplicito proposito di vistare Padre Pio, è documentato dal fatto che, poco tempo prima, aveva scritto una lettera al provinciale dei frati cappuccini di Foggia, dicendo che desiderava visitare Pare Pio.
Della visita di Padre Gemelli e di come si sia svolta, abbiamo una testimonianza scritta di padre benedetto da San Marco in Lamis, che era ancora il direttore spirituale di Padre Pio, ed era presente all’avvenimento. Eccola.
“Quanto io scrivo lo ricordo con certezza certissima, come se fosse avvenuto ieri, e posso confermarlo anche con giuramento.
Padre gemelli scrisse anche al provinciale, Padre Pietro, di volersi recare per una visita a San Giovanni. Padre Pietro gli rispose che, se intendeva andarvi come scienziato, per osservare Padre Pio, doveva munirsi a Roma di uno speciale permesso dei superiori. Gemelli rispose che andava solo per fini spirituali e privati.
“Essendo io proprio quel giorno capitato a Foggia per recarmi a san Giovanni, Padre Pietro mi fece leggere la risposta di Gemelli (una cartolina postale) e mi disse di attendere fino a domani per accompagnare l’illustre padre a San Giovanni Rotondo..
Gemelli arrivò alla sera e non espresse alcun desiderio di vistare Padre Pio, come medico. L’indomani, con il vicario generale, il segretario della provincia di Foggia, Padre Gerardo, e il guardiamo dei Frati Minori accompagnammo Padre Gemelli e Armida Barelli a San Giovanni Rotondo. La Barelli chiese un colloquio con Padre Pio e, me presente, domandò se il Signore avrebbe benedetto l’opera da poco ideata, l’Università Cattolica. Padre Pio rispose con un monosillabo: “Sì”.
Il giorno seguente, la detta signorina cominciò a pregarmi perché autorizzassi il Gemelli a vistare le piaghe di Padre Pio. Risposi di non poterlo fare perché il provinciale mi aveva espressamente detto di non costringere Padre Pio a quella mortificazione giacché il Gemelli non s’era munito di permesso a Roma e inoltre aveva dichiarato di non essere venuto con tali intenzioni. Alle reiterate insistenze della Barelli, non potei far altro che rispondere che non potevo.
Smessa l’idea della visita, Gemelli chiese un abboccamento con Padre Pio che avvenne in sacrestia e durò pochi minuti. Ero in un angolo, ed ebbi l’impressione che Padre Pio lo licenziasse come seccato.»
Lasciando aperta e impregiudicata la questione, diciamo così, formale, se cioè la visita di padre Gemelli a San Giovanni Rotondo, nonché il suo rozzo tentativo di “visitare” padre Pio dal punto di vista medico e psichiatrico, sia stata una sua personale iniziativa, dettata da interesse scientifico non disgiunto dalla sua abituale presunzione, o, come è più probabile, una missione affidatagli dall’alto, resta il fatto che Gemelli, rientrato con le pive nel sacco, ossia senza aver potuto condurre a buon fine il suo progetto, non si peritò di scrivere una relazione per il Sant’Uffizio, nella quale sosteneva che il religioso, pur essendo uomo dalla vita ammirevole, non era affatto, secondo lui, un mistico. Ad ogni modo, lasciava per il momento aperta la possibilità che i fenomeni soprannaturali potessero avere una base reale, dal momento che suggeriva la costituzione di una apposita commissione d’inchiesta, della quale avrebbero dovuto far parte degli specialisti di tutte le discipline interessate allo studio di quei fenomeni: medicina, psichiatria e teologia.
In una seconda lettera, redatta alquanto più tardi, nel 1926, e sempre indirizzata al Sant’Uffizio, egli, sulla base di non si sa quali informazioni o suggerimenti, mise da parte ogni prudenza (e ogni residuo di carità cristiana) e, pur non avendo mai più rivisto il frate, e tanto meno visitato, lo qualificò come un isterico, un impostore e un autolesionista, che si infliggeva le ferite delle pretese stimmate al solo scopo di attirare su di sé l’attenzione generale. Lo definiva testualmente uno “psicopatico ignorante”, e sosteneva che lo scopo della sua messa in scena era, semplicemente, quello di sfruttare la credulità del popolo. Anche se pare accertato che i provvedimenti persecutori adottati nei confronti di padre Pio non furono il risultato di questo documento, resta il fatto che esso non dovette certamente contribuire a porre il frate di San Giovanni Rotondo in una luce favorevole agli occhi dei suoi sospettosi superiori e non giovò di sicuro ad alleggerire la sua già compromessa posizione all’interno della Chiesa cattolica.
Questo tristo documento dell’umana presunzione, che getta una luce fin troppo eloquente sull’abisso che si apre fra i cultori non già della scienza, ma dello scientismo, ed una personalità autenticamente mistica, allorché si trovano faccia a faccia, ci ricorda quanto sia importante che la fede e la ragione - come ha costantemente ammonito Benedetto XVI durante il suo pontificato e, prima, durante il suo lungo itinerario di teologo - procedano affiancate e solidali: così come, del resto, insegna l’intera tradizione cattolica, e specialmente l’opera monumentale del suo più grande filosofo, San Tommaso d’Aquino. La fede senza la ragione tende a degenerare nella superstizione e nello stravolgimento dell’autentico sentimento religioso; ma la ragione senza la fede (e senza la carità, che ne è il cuore, come ammonisce San Paolo nella Prima lettera ai Corinzi) gira a vuoto, come un mulino impazzito, e non riconosce neppure la santità, quando per caso se la trova davanti.
Il caso di padre Gemelli è, secondo noi, particolarmente significativo, e ciò per una ragione che lui, studioso di psicologia, avrebbe dovuto ben conoscere e riconoscere in se stesso: lo zelo eccessivo e mal diretto del neofita, specialmente se questi ha un passato da “farsi perdonare”, o, per dir meglio, che stenta a perdonare a se stesso. Agostino Gemelli era stato un fanatico ammiratore del Positivismo, un acceso anticlericale e un fervente socialista; e, quando si convertì al cattolicesimo, sembra aver voluto “lavare” questi precedenti, irrigidendosi su posizioni medievaliste e antistoriche, ma conservando tutto intero il suo rigorismo positivista, solo cambiandone l’indirizzo specifico. Insomma: era un fanatico della scienza positiva, e tale rimase anche dopo la conversione: non si spiega altrimenti la sua totale incomprensione di padre Pio, non solo e non tanto sotto il profilo prettamente scientifico, ma anche sul piano umano. Che cantonata colossale, in nome della scienza!
L’arroganza scientista di padre Gemelli e la lunga tribolazione di San Pio da Pietrelcina
di Francesco Lamendola
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