Capodanno, l'esorcista Padre Giacobbe Elia: “Il 2015 è stato un anno di buio. Dove cade l'uomo moderno”
Padre Giacobbe Elia, esorcista incaricato per la
Diocesi di Roma dal 1987 e autore di numerosi libri e pubblicazioni,
intervistato da IntelligoNews parla dell'anno trascorso e di
quello che verrà. Mette in guardia dalle tentazioni moderne e
chiarisce come procedere evitando di cadere nel nichilismo e non cancellando
l’idea del peccato che può trarre in inganno...
Finisce il 2015, per molti un anno buio. Si può parlare
di anni di “prova” particolarmente duri o si lotta oggi come ieri?
"Più che una domanda la sua è una provocazione, di
fronte a un’evidenza: “il 2015 è stato un anno di buio”. E io credo che quasi
tutto il 2016 non sarà meno duro. Nel mio libro Il segreto di Fatima (Sugarco
2011, p. 18) condividevo il pensiero di Donoso Cortés, che nel suo l’Ensayo
sobre el catolicismo, el liberalismo y el socialismo, pubblicato nel 1851
contemporaneamente a Madrid e a Parigi, dove egli era ambasciatore, notava con
disincanto: «il mondo ha visto e vedrà sempre che ogni qual volta l’uomo fugge
dall’ordine per la porta del peccato è costretto poi a rientrarvi per la porta
del castigo, questo messaggero di Dio che tutti raggiunge con le sue
ambasciate». Questa verità da me riproposta con convinzione è stata considerata
impertinente, e persino insolente, da qualche cattolico ormai allergico alla
realtà del peccato, mentre è stata ritenuta con attenzione (e spesso approvata)
da chi si dichiarava non praticante o, addirittura, non credente. È
interessante (benché sorprenda sempre di meno) questa diversa reazione
all’annuncio del Vangelo.
Cortés, pur consapevole di irritare la sensibilità del
mondo, non ha temuto di aprire il suo saggio con un capitolo coraggioso e
irriverente: «ogni grande questione politica dipende da una fondamentale
questione teologica», mostrando come i due principali movimenti politici di allora, il liberalismo e il
socialismo, costituiscono una soluzione erronea e insufficiente ai bisogni
degli uomini. Insomma, l’uomo non è Dio, ma una sua creatura che trova senso
soltanto in Lui. Fuori di Cristo-Dio non rimane che il regno del Male e
dell’assurdo. Un vuoto che disperatamente, ma invano, l’uomo cerca di riempire
con i suoi surrogati, sempre insufficienti e mutevoli. L’uomo moderno si è
ingannato pensando di “poter essere” emancipandosi da Dio. Senza di Lui ogni
creatura è restituita al proprio nulla, perché l’essere stesso, la vita, invoca
il Creatore che lo dona. La generazione umana è metafora eloquente di questo
mistero. E come il bambino che volesse emanciparsi dal seno materno si
condannerebbe a morte certa, così noi allontanandoci dal Salvatore ci
consegniamo al peccato e, infine, all’inferno. Perché il peccato è il rifiuto
di Dio e del suo Cristo, l’unico Salvatore. Gli antichi avevano compreso bene
questo dramma dell’uomo e lo hanno detto con un’espressione bruciante: «aut
Deus aut diabolus, tertius non dabitur». Fino alla consumazione dei secoli
questa lotta vitale riguarderà ogni uomo, come insegna sant’Agostino spiegando
il senso della prova: «La nostra vita in questo pellegrinaggio non può essere
esente da prove e il nostro progresso si compie attraverso la tentazione.
Nessuno può conoscere se stesso, se non è tentato, né può essere coronato senza
aver vinto, né può vincere senza combattere; ma il combattimento suppone un
nemico, una prova».
Oggi rispetto a ieri, quali peccati e tentazioni ci sono
e come è cambiato l'Uomo?
"Il peccato dell’uomo moderno consiste nel voler
cancellare l’idea stessa del peccato. La sua stessa possibilità è diluita in
un’infinita e mortificante analisi sociologica, che priva la nostra libertà di
qualsiasi responsabilità. La colpa è sempre dell’altro, della società, delle
istituzioni… Ma una libertà senza responsabilità non è vera libertà e una vita
senza impegno e senza passione si consegna all’insignificanza, che segna il
trionfo del Male sull’uomo. Strumentalizzando il pensiero della Chiesa, oggi si
preferisce parlare soltanto della misericordia di Dio e si tace della sua
tremenda giustizia, ignorando (colpevolmente) che questa dolorosa menzogna non
solleva l’uomo, ma lo rende più vulnerabile di fonte alle prove, perché –
parola di Silvio Pellico –: «né somma pace, né somma inquietudine possono
durare quaggiù. Conviene persuadersi di questa verità, per non insuperbire
nelle ore felici e non avvilirsi in quelle di perturbamento». A Venezia,
provato dal carcere e inquieto, egli aveva smesso e di pregare e di leggere la
Bibbia in preda ad un’interiore ribellione che lo fa apparire pacificato e più
sicuro ai suoi carcerieri, che nutrono per lui rispetto e affetto (a dispetto
delle menzogne raccontateci). Un giorno uno dei ragazzi del custode gli fa
notare che da quando «non legge più quel libraccio [la Bibbia], non ha più
tanta melanconia». Silvio rimane sferzato da queste parole e “arrossisce”.
Prende la Bibbia, “ne toglie la polvere con il fazzoletto, e sbadatamente
apertala”, legge (in latino): «disse ancora ai suoi discepoli: “è inevitabile
che avvengano scandali, ma guai a colui per cui avvengono. È meglio per lui che
gli sia messa al collo una pietra da mulino e venga gettato nel mare, piuttosto
che scandalizzare uno di questi piccoli» (Lc 17,1). Ritorna in sé e «rimprovera
amorevolmente quel ragazzo: “Scapestratello! Questo non è un libraccio, e da
alcuni giorni che non lo leggo sto assai peggio”. Rimasto solo geme: «E t’aveva
abbandonato, mio Dio? E m’era pervertito? Ed aveva potuto credere che l’infame
riso del cinismo convenisse alla mia disperata situazione?», cade in
ginocchio per leggere la Bibbia e scoppia in un pianto liberatorio. Si alza
dopo più di un’ora e confessa di aver superato la crisi che gliela faceva
giudicare “con la meschina critica di Voltaire, vilipendendo espressioni, le
quali [invece] non sono risibili o false, se non quando, per vera ignoranza o
per malizia, non si penetra nel loro senso. M’appariva chiaramente quanto fosse
il codice della santità, e quindi della verità; […] quanto la superiorità di
tali scritture sul Corano e sulla teologia degli Indi fosse innegabile». Dio si
è fatto uomo per sanare la nostra infermità. Il medico divino è venuto a
visitare e a pranzare con i pubblicani e i peccatori ammalati per prendersene
cura in vista della loro guarigione. Attentissimo alle nostre malattie, non le
ha mai contratte. Sensibilissimo ai tormenti del nostro cuore, non è mai stato
indulgente con il nostro peccato, ben sapendo che proprio il peccato è la
sorgente della nostra infelicità e che è preferibile una viva sofferenza nel
tempo all’atroce tormento dell’eternità".
29 dicembre 2015 ore 10:36, Marta Moriconi
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