Sacco vuoto o sacco pieno?
I recenti fatti legati al terrorismo islamico hanno innescato un dibattito in merito alle cause. Si è partiti soprattutto da un’evidenza: giovani sono disposti a farsi saltare in aria. Perché lo fanno? E a riguardo sono venute fuori due “letture” complementari.
La prima: il terrorismo sarebbe l’esito di una mancanza di cultura, per cui ne viene consequenziale che più cultura si dà meno terrorismo si ha. Il Presidente della Repubblica Mattarella lo ha detto chiaramente: questa ondata di “oscurantismo” si può combattere solo con un nuovo umanesimo. E il Presidente del Consiglio Renzi gli ha fatto eco dicendo più o meno le stesse cose, anzi proponendo che ad ogni euro che verrà dato per la sicurezza bisognerà dare anche un euro perché i giovani abbiano più confidenza con la cultura. Insomma, bombardiamo sì… ma al posto delle bombe utilizziamo i volumi della Treccani. La seconda: il terrorismo troverebbe la sua causa prevalentemente nella povertà. Anche il Papa lo ha detto nel primo discorso all’arrivo in Kenya. Pertanto basterebbe qualche soldino in più e… via il terrorismo. Un bel piano Marshall, pacchi di pasta e caramelle, un buon lavoro per tutti e il problema sarebbe per lo più risolto. A me queste interpretazioni non convincono affatto e ve lo spiego.
Iniziamo dalla prima: il terrorismo effetto della mancanza di cultura. Ci sono almeno due buoni motivi per capire quanto ingenua (e persino pericolosa) sia questa tesi. Il primo motivo è considerare la condizione sociale di coloro che si sono resi autori finora di atti terroristici. Si tratta di giovani non solo perfettamente integrati (tant’è che facevano vita tutt’altro che diversa da quella che solitamente fanno i giovani delle nostre città) ma anche abbastanza acculturati. Certamente non allievi da accademia né studenti-modello, ma comunque non rozzi analfabeti. E se proprio si vuole fare un passo indietro, va ricordato che il capo degli attentatori delle Twin Towers, Mohamed Atta, aveva niente di meno che una laurea in ingegneria edile, con studi non solo all’Università del Cairo, ma anche in quella di Amburgo.
Il secondo motivo che ci fa capire quanto ingenua sia l’equazione terrorismo-poca cultura è il livello culturale di coloro che negli ultimi due secoli si sono resi artefici di massacri e genocidi. Robespierre, colui che ideò il Terrore giacobino, era un avvocato, di provincia e non di grido, ma comunque avvocato. Anche se Hitler da giovane bordeggiava tra l’umile lavoro di imbianchino e la passione di dipingere, non era affatto sprovveduto culturalmente, basterebbe pensare con quali discorsi intratteneva i suoi commensali. Stalin aveva studiato in seminario, luogo dove culturalmente non si sta con le mani in mano. Pol Pot, il sanguinario capo dei Khmer rossi cambogiani che – si dice – su 6 milioni di connazionali ne abbia fatti fuori 3 milioni, vinse una borsa di studio per andare a studiare radioingegneria all’EFREI di Parigi. Veniva da una buona famiglia (con frequentazione degli ambienti reali) che lo mandò a studiare in Francia. Qui si entusiasmò al marxismo e soprattutto al maoismo, con il filosofo Jean-Paul Sartre a fargli da mentore e ispiratore. Tornò poi in Cambogia, si unì ai Khmer Rossi, prese il potere e applicò la rivoluzione culturale maoista facendo massacri su massacri. Dette ordine che si incarcerassero perfino coloro che avevano il segno degli occhiali, perché ciò significava che questi sapessero leggere e pertanto erano certamente entrati in contatto con la cultura occidentale e capitalistica, da qui la necessità di essere “purificati”.
Insomma anche chi vuole andare contro la cultura deve sempre possedere la “cultura” per poter giudicare cosa è culturalmente buono e cosa è culturalmente sbagliato, cosa è da conservare o da eliminare. Anche coloro che nell’Isis distruggono la cultura antica lo fanno perché pieni della loro cultura (sbagliata) che li porta a giudicare e quindi a rifiutare tutto ciò che ritengono negativo.
Ma, come dicevo prima, ugualmente non convince l’equazione terrorismo-povertà. Tornando al già citato Mohamed Atta, capo dei terroristi delle Twin Towers, questi non solo era ingegnere ma anche figlio di uno dei più famosi avvocati penalisti egiziani, per cui sin da piccolo aveva senz’altro beneficiato di un benessere economico non da tutti in quella terra. Dicasi cose simili anche per altri terroristi.
E allora se queste due tesi non spiegano, quale interpretazione utilizzare? Qui – lo ripeto – abbiamo giovani che hanno il coraggio (non l’eroismo, perché c’è una differenza tra l’eroe e il coraggioso) di farsi saltare in aria. Prima di tutto c’è una spiegazione da trarre dall’Islam stesso. Questi giovani sono convinti di trovare, alla loro morte, un paradiso terrenizzato con i piaceri della vita portati all’estremo. Inoltre sono convinti di poter accedere immediatamente in questo paradiso. C’è un elemento della dottrina islamica che pochi conoscono: quando si muore non c’è sopravvivenza, bensì si sprofonda nel nulla per poi venir resuscitati al momento del giudizio universale; c’è però una sola categoria di persone che beneficerà di un immediato arrivo in paradiso senza passare per il lungo tunnel della morte, e questi sono coloro i quali muoiono nel jihad, involontariamente o volontariamente non importa.
Ma tale spiegazione è insufficiente, se ne deve aggiungere un’altra molto più importante. L’uomo ha bisogno di vivere e spendersi per grandi cose. Anche questi fatti terribili dimostrano paradossalmente una positività, che cioè l’uomo non è capace di quietarsi con una semplice soddisfazione del ventre, bensì ha bisogno di molto di più, perché la sua natura non è solamente corporea ma anche spirituale. In una bellissima poesia Trilussa coglie la grandezza dell’uomo parlando di una candela (la poesia infatti si intitola “La candela”). Come la candela è votata a consumarsi, così l’uomo si realizza pienamente spendendosi per qualcosa. Ad un certo punto Trilussa dice: “Chi nun arde, nun vive”.
Un altro elemento da considerare è che l’uomo, oltre al bisogno di spendersi, necessita di trovare anche qualcosa di forte per cui vale la pena di sacrificarsi. Qualcosa che non si dissolva nel divenire del tempo, che non si spenga con la pura relatività delle opinioni né tantomeno con passeggere e transitorie emozioni. Da qui si capisce il grave errore che è presente nella cultura dominante: credere che valori forti possano essere, proprio in quanto forti, pericolosi per la convivenza sociale. Quando invece la pericolosità dei “valori” non sta nella forza (anzi!), bensì nel contenuto.
Ecco perché ci sono due posizioni fallimentari, e quindi pericolose. La prima è quando i valori forti hanno un contenuto razionalmente sbagliato, cioè contro l’ordine razionale delle cose. La seconda è quando si pretende di far affascinare l’uomo al valore dei non-valori, cioè ad un puro relativismo.
Per farmi capire mi servo di un’immagine. Il sacco può essere vuoto o essere pieno, ma quando è pieno può contenere materia di rifiuto o materia nobile.
Se il sacco non contiene nulla rimane afflosciato a terra, non si capisce a cosa possa servire, anzi non viene nemmeno riconosciuto come tale. A questa immagine corrisponde l’uomo che dovrebbe contentarsi di ciò che è relativo, che dovrebbe riempirsi di ciò che paradossalmente non può riempire. Che cos’è, infatti, il cosiddetto “pensiero debole” se non la pretesa di rispondere alle ansie della vita con ciò che volutamente non si configura come risposta? In questa prospettiva l’uomo è un “sacco vuoto”, incapace di rimanere in piedi nell’avventura della sua esistenza, incapace di affrontare virilmente le difficoltà che gli si presentano, incapace di orientarsi e di trovare la risposta al perché del suo esistere. Un sacco afflosciato a terra non risponde all’essere della sua natura.
Se il sacco contiene materia di rifiuto rimane in piedi, si riconosce come sacco, ma dà cattivo odore. A questa immagine corrisponde l’uomo che riempie sì la sua vita di valori forti, ma questi hanno un contenuto innaturale, insensato, errato, ingiusto. L’uomo in questo modo rimane sì in piedi, affronta la vita, la governa anche fino ad “offrirla” per qualcosa, ma ciò si traduce in un pericolo per lui e per gli altri. Come il sacco che è pieno di sterco: è in piedi, si riconosce come sacco, fa il suo “mestiere”, ma lo si deve allontanare perché dà cattivo odore. È nefasto per tutti.
Il terzo modo dell’immagine del sacco è quella di essere pieno di materiale nobile, per esempio di oro. A questa immagine corrisponde l’uomo che riempie la sua vita di valori forti, ma questi hanno un contenuto rispondente a ciò che è naturalmente e razionalmente vero. In questo modo l’uomo rimane in piedi e grazie al contenuto dei suoi valori risponde pienamente all’esigenze del proprio sé e degli altri.
Concludendo mi viene da dire questo. Se mi chiedono di piangere per coloro i quali sono morti nei recenti attentati, io piango. Se mi chiedono di pregare per costoro, io prego. Ma se mi chiedono di cantare la “Marsigliese” io non la canto. Perché si tratta di un inno che è l’espressione di un mondo che si è costruito su una menzogna: quella di affermare che l’uomo possa sentirsi soddisfatto divenendo semplicemente un “sacco vuoto”. I cosiddetti valori illuministici, e quindi specificamente moderni, non sono altro che il trionfo del vuoto antimetafisico con cui si è preteso che l’uomo organizzasse la propria esistenza. Ed è proprio questo vuoto crea nei giovani quel “gap” che li porta a cercare spasmodicamente valori forti, ma che, nell’attuale “supermarket delle religioni” dove ogni offerta di sacro è paritariamente esposta sullo stesso scaffale, possono anche avere un contenuto tutt’altro che ragionevole e umano… e persino demoniaco.
Al giovane non vanno offerti né valori deboli, né valori forti con contenuti falsi… ma valori forti con contenuti veri.
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