… il cristianesimo, quello vero, non è la religione della gioia, quella festosa parodia della fede celebrata attorno alle tavole calde nella messa inventata dalla riforma di Paolo VI. Solo dei poveri simoniaci che fanno mercimonio di una misericordia a buon mercato potranno spacciare cibo spirituale adulterato così goffamente. Il cristianesimo, quello vero, è la religione della salvezza inchiodata sulla Croce. Non c’è uomo che su questa terra possa dirsi salvo una volta per sempre e dunque non c’è uomo che non possa dirsi triste.
Mercoledì 3 febbraio 2016
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È pervenuta in redazione:
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Gentilissimo Alessandro Gnocchi,
mi presento dicendole subito che sono ateo. Mi sforzo di esserlo con onestà e coerenza, anche se con il passare del tempo e l’accumularsi degli anni temo che onestà e coerenza comincino a vacillare. Sono cresciuto in una famiglia in cui l’ateismo era una fede e mi parrebbe di tradire i miei legami più intimi se pensassi che esiste qualche cosa oltre la vita su questa terra. D’altra parte, vedo che ai preti del giorno d’oggi interessa poco la conversione di quelli come me, forse perché non ci credono più neanche loro. È stato Scalfari a scrivere che l’attuale Papa gli ha chiesto di non convertirsi. Non so se è vero, però è verosimile. Ora lei si chiederà perché scrivo proprio a questo sito e alla sua rubrica e la risposta è molto semplice. Perché questo è un luogo in cui trovo qualcosa che forse sto cercando senza avere il coraggio di confessarlo. Sappiate che parlando con serietà e amore della vostra fede parlate anche a chi quella fede non l’ha. Per favore, non smettete di farlo almeno voi.
Grazie
Piergiorgio Tommasoni
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Caro Piergiorgio,
che bel cristiano sarebbe un ateo come lei, se solo, con onestà e coerenza, si arrendesse senza condizioni alla fede che preme sulla soglia del suo cuore. Ogni fremito della sua anima è il battere di Dio che chiama attendendo fino all’ultimo istante un sì o un no. Quel Dio che, infinitamente più generoso del generoso degli uomini, si offre alle sue creature nel mirabile “pulsate et aperietur vobis”. Agli uomini che bussano saranno aperte le porte del Cielo, mentre il Signore dell’universo corre l’amorevole rischio di fermarsi davanti a una porta chiusa sulla terra. Una porta come quella della sua anima, caro Piergiorgio, che lascia vedere uno spiraglio, ma non è spalancata. E offenderei la sua onestà, la sua coerenza e anche la sua intelligenza, se le dicessi che quel pertugio basta per sentirsi al sicuro nel momento del giudizio, o se la tranquillizzassi suggerendole che quel momento non verrà mai perché siamo tutti già salvi, che è come dire che siamo tutti già dannati.
Il mondo è pieno di cristiani anonimi alimentati nel loro rifiuto di Cristo da uomini di Chiesa contagiati e abbruttiti dall’ateismo, estranei o forse terrorizzati all’idea della vita eterna. Sarà Cristo giudice a stabilirne il destino perpetuo, ma si può solo tremare per loro e per chi li inganna, sapendo che l’unica salvezza viene dalla Croce di Cristo e si trova solamente dentro la Chiesa cattolica. Chi, in nome della bontà di Dio, non le chiede di convertirsi, caro Piergiorgio, nomina invano la misericordia, la bestemmia, sbeffeggia Cristo sulla Croce come il demonio sul Calvario.
Questi pastori di cristiani anonimi che la invitano ad abbracciare il mondo invece della Croce lo fanno per sfuggire alla prima domanda che lei rivolgerebbe loro, se solo avessero la carità di ascoltarla invece che la superbia di affidarla ai loro luccicanti piani pastorali. Sono terrorizzati, inerti e inermi davanti all’universale interrogativo sul momento cruciale della vita di ogni creatura: quello che precede la morte. Non sanno cosa dire perché non sanno cosa credere. Non le parlano della Croce, per la quale il principe della Chiesa del dubbio Carlo Maria Martini confessò di avere tanta repulsione, perché, pur nell’orizzonte della resurrezione, la Croce parla della morte e del soffrire, e non di altro. Per offrirla, bisogna aver avuto almeno un po’ di fede e un po’ di coraggio per abbracciarla. Se lei cerca qualcuno che abbia la forza di farla inginocchiare, caro Piergiorgio, deve trovare chi le parli virilmente degli attimi che precedono il morire. Perché, lei lo ha capito, se quel momento fosse dominato solo dal comprensibile timore che ogni uomo prova in prossimità della fine, forse basterebbe una scommessa, un’ultima guasconata, per arrivare fin sulla soglia storditi abbastanza da non pensarci. Se fosse così, avrebbero ragione l’illuminismo e i suoi epigoni quando indicano nella banalissima paura della morte l’origine della religione.
Se fosse così, caro Piergiorgio. Ma, evidentemente, non lo è, se fior di uomini di ingegno, figli delle più estrose varianti dei lumi, in prossimità dell’attimo cruciale si sono incamminati lungo strade impreviste, che li hanno sottratti all’anonimato di un cristianesimo senza Cristo. Evidentemente non è così, se le loro decisioni ultime tengono banco tra credenti e non credenti, se si continua a parlare della conversione di Renato Guttuso, di quella intravista nel corona del Rosario di Proust, di quella inquieta e opinata di Oriana Fallaci o di quella quasi certa di Gramsci.
Può negarlo a parole, caro Piergiorgio, per un mal riposto senso dell’onestà e della coerenza, ma i fatti, anche dentro la sua anima si svolgono diversamente da come vorrebbe. Anche per lei, come per tutti i disincantati abitanti del terzo millennio, la conversione, la fiduciosa apertura su una trascendenza a lungo negata, continua a esercitare un fascino invincibile poiché va alla radice dell’esistenza di ogni singolo uomo. Ciò che è tragico è che gli unici a essere imbarazzati da questa parola, “conversione”, sono quei guardiani di anime morte che invitano il prossimo a non aprirsi sinceramente a Dio in nome di una non meglio precisata autenticità.
Eppure, non vi è sincerità più concreta che la risposta alla perenne chiamata di Dio, al richiamo pacificatore capace di rendere vero l’essere umano nel momento più importante della propria vita. Quando a San Carlo Borromeo chiesero che cosa avrebbe fatto se gli avessero detto che sarebbe morto entro un’ora rispose: “Cercherei di fare particolarmente bene ciò che sto facendo ora”. Altri tempi, dirà lei, caro Piergiorgio, e per certi aspetti non sbaglierebbe. Erano tempi in cui i sacerdoti, invece delle intonse eppure nefaste encicliche verdi sulla cura della Casa Comune, tenevano sul loro scrittoio un teschio per aver ben presente la caducità dell’esistenza. Erano i tempi in cui era facile trovare sin nelle case più povere libretti che si intitolavano Apparecchio alla buona morte. Ma, proprio per questo, contrariamente a quanto sostiene la vulgata corrente, erano tempi pieni di vita. Un uomo del Seicento non aveva bisogno di trovarsi davanti all’assurda tragedia del Bataclan per scoprire che esiste la morte. E, soprattutto, ne aveva avuto ben chiaro il senso.
L’uomo moderno, invece, si trova sempre più spesso nella condizione di dover prendere atto dell’epilogo solo poco prima che avvenga. E allora non può più fingere. Per tutta la sua esistenza può aver giocato con il senso della vita, può aver occultato, dissacrato, violentato il mistero della nascita, può continuare a ritenerlo un fatto puramente biologico, ma solo fino al penultimo atto della sua esistenza. La morte gli si presenta inevitabilmente anche sotto un aspetto soprannaturale e, in questo frangente, non c’è teoria che tenga.
Per la prima volta, il mistero gli si palesa in forma tanto decisa e prepotente da non essere eludibile. Gli compare in forma sincera e generosa, non come qualcosa che deve essere decifrato o svelato, ma come Qualcuno che gli si fa incontro per dirgli chi è veramente. La consapevolezza dell’eterno si fa largo nella coscienza e mostra con le piccole, grandi e concrete evidenze della decadenza che la vita senza fine non ha nulla a che fare con il dato biologico, ma riguarda l’interezza della persona, anima e corpo. Ed è qui, caro Piergiorgio, che la conversione giunge a compimento, nel punto in cui la persona finita scopre che può trarre il senso autentico della propria vita da una Persona che finita non può essere.
Oggi, molti sostengono che il problema dell’ateismo stia nella difficoltà di spiegare l’origine della vita. In realtà, il vero problema dell’ateismo sta nella sua strutturale incapacità di spiegarne la fine. Il razionalista può anche illudersi di padroneggiare l’inizio dell’esistenza, ma non potrà mai farlo con la sua fine, neanche puntandosi un pistola alla tempia, neanche inventandosi tutte le possibili leggi sull’eutanasia. In prossimità della fine l’adulto è molto meno adulto di quanto potrebbe immaginare. Non a caso, gli insegnamenti più concreti sulla morte si trovano nelle fiabe. Ve n’è uno straordinario in un racconto modernissimo, nel film Mr Magorium e la bottega delle meraviglie. Al momento di lasciare questo mondo, uno straordinario Dustin Hoffman spiega il senso di tutto dicendo: “Quando re Lear muore nel quinto atto, sai Shakespeare che cosa ha scritto? Ha scritto semplicemente: ‘muore’!”. Caro Piergiorgio, ci voleva un genio per raccontare in una parola il senso della vita. Ci vuole Dio fare in modo che quel senso non sia vano.
In poche parole, ci vuole la fede, che non è un anestetico per esseri inferiori, come hanno tentato di farci credere quegli intelletti e quelle anime deboli degli illuministi e come hanno finito per credere quegli intelletti e quelle anime ancora più deboli che pascolano anime morte dentro una Chiesa anonima. La fede è quella che Abramo ha mostrato sul Monte Moria, quella che impegna qui e ora davanti a Dio. Il Signore aveva messo il vecchio patriarca alla prova chiedendogli in sacrificio il figlio e lui, in virtù della sua fede, poteva solo obbedire e, insieme, affidarsi: inoltrasi nella follia secondo il mondo per salvare la vita di Isacco e la sua anima. Kierkegaard, in Timore e tremore lo racconta con suggestione di intelletto e di fede difficilmente eguagliabili: “Abramo tuttavia credette e credette per questa vita. Certo, se la sua fede fosse stata soltanto per una realtà futura, allora sarebbe stato facile per lui affrettarsi a uscire da questo mondo al quale non apparteneva. Ma tale non era la fede di Abramo, se mai esiste una fede simile; poiché in fondo ciò non è fede, ma la possibilità più remota della fede (…). Ma Abramo credette proprio per questa vita, che sarebbe invecchiato in quella terra, onorato dal popolo, benedetto nella sua posterità, indimenticabile in Isacco (…). Abramo credette e non dubitò, egli credette nell’assurdo. Se Abramo avesse dubitato, allora avrebbe fatto qualcosa d’altro, qualcosa di grande e di splendido. (…) Egli si era recato sul Monte Moria, aveva tagliato la legna, acceso la catasta, estratto il coltello, aveva gridato a Dio: ‘Non disdegnare questo sacrificio, non è ciò che ho di meglio, ne sono certo. Poiché cos’è un povero vecchio rispetto al figlio della promessa? È però la cosa migliore che possa darti. Fa che Isacco non lo venga a sapere, che possa consolarsi con la sua giovinezza’. E si sarebbe piantato il coltello nel petto. Sarebbe stato ammirato nel mondo e il suo nome non sarebbe stato dimenticato; ma una cosa è essere ammirati e un’altra è essere una stella che guida, che salva chi è angosciato”.
Altro è l’eroe romantico, caro Piergiorgio, e altro il santo, l’uomo di fede. “Basta il semplice coraggio umano per rinunziare a tutta la realtà temporale nella speranza di ottenere l’eternità” spiega ancora Kierkegaard. “Occorre invece un coraggio umile per poter ora afferrare tutta la realtà temporale in virtù dell’assurdo e questo è il coraggio della fede. Con la fede Abramo non rinunziò a Isacco, con la fede Abramo ottenne Isacco”.
Caro Piergiorgio, il cristianesimo, quello vero, non è la religione della gioia, quella festosa parodia della fede celebrata attorno alle tavole calde nella messa inventata dalla riforma di Paolo VI. Solo dei poveri simoniaci che fanno mercimonio di una misericordia a buon mercato potranno spacciarle cibo spirituale adulterato così goffamente. Il cristianesimo, quello vero, è la religione della salvezza inchiodata sulla Croce. Non c’è uomo che su questa terra possa dirsi salvo una volta per sempre e dunque non c’è uomo che non possa dirsi triste. I padri della Chiesa, specie quelli orientali, riassumono questo stato, che è la condizione stabile anche del più grande tra i santi, con il concetto di “penthos”, di “lutto” per la salvezza perduta, quanto a sé o quanto agli altri. E per salvezza i padri non intendono solo la possibilità di evitare l’inferno, ma, in senso più largo, comprendono la salute, l’assenza di infermità spirituali. Insegnano che tutte le nostre colpe, anche le più piccole, compromettono almeno un po’ la nostra salvezza. “Quando un uomo avesse il potere di fare dei miracoli e delle guarigioni” dice Isaia abate del sesto Discorso “quando possedesse la gnosi intera e resuscitasse dei morti, dal momento che è caduto una volta nel peccato, non può essere senza inquietudine, poiché egli è soggetto a penitenza”. Per questo la religione cristiana è la religione delle lacrime. “Prega per prima cosa per ottenere il dono delle lacrime” scrive Evagrio Pontico nel trattato Sulla preghiera “perché tu possa, mediante la compunzione, ammorbidire la durezza che c’è nella tua anima e, confessando contro te stesso la tua iniquità al Signore, ricevere da Lui il perdono”.
Questo lutto per la salvezza perduta, che deve essere perpetuo, caro Piergiorgio, porta frutto per sé e per il nostro prossimo. A che cos’altro era ispirato il cilicio che portava sotto le vesti damascate la nobile Vanna di Bernardino di Guidone? Ma proprio quando, dopo la sua morte, scoprì quel tormentoso strumento di penitenza, suo marito, il gaudente Jacopo de Benedictis, si convertì e divenne Jacopone da Todi. Oggi, naturalmente, quando parlano di questo episodio, i gioiosi cattolici mondani premettono che “appare dubbio e frutto della leggenda”. Li lasci perdere, Piergiorgio, sono troppo festosi per sentirsi in lutto, troppo ubriachi di misericordia per temere della salvezza, troppo dubbiosi su Dio per fidarsi della leggenda.
Alessandro Gnocchi
Sia lodato Gesù Cristo
“FUORI MODA”. La posta di Alessandro Gnocchi
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PD
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