RUPNIK E QUESTIONE ARTE SACRA
Ma è proprio questo il volto del nostro Redentore? L’arte sacra, quando tenta di rappresentare ciò che non è rappresentabile, deve sforzarsi di farlo con infinita prudenza, umiltà e consapevolezza del limite
di Francesco Lamendola
La mente pensa per immagini: questa è una grande verità, della quale non bisogna mai scordarsi, anche quando si parla di cose assolutamente spirituali. La mente pensa per immagini, non per concetti; o meglio: i concetti vengono “tradotti” dalla mente a se stessa per mezzo d’immagini. La mente umana funziona così: non saprebbe, né potrebbe, staccarsi mai del tutto dalle immagini fisiche di cose materiali, quand’anche riflettesse intorno all’Assoluto. Quando noi diciamo, ad esempio: “Dio”, diciamo qualcosa che la mente, da se stessa, non è in grado di rendere chiaro a se medesima per mezzo di un pensiero astratto; ha bisogno, anche in questo caso, di pensare un’immagine concreta, proprio come fa quando diciamo: “casa”, “mamma”, “strada”, “fiore”, “gatto”, e così’ via.
Ora, qualunque cosa essa pensi quando qualcuno pronunzia la parola “Dio” – e ciascuna mente penserà a qualcosa di particolare, dato che ciascuna mente è unica e irripetibile – è chiaro che essa sta compiendo una operazione indebita sul piano concettuale, perché nulla di pensabile può tradurre, sul piano concreto, l’idea di Dio; e, dunque, è chiaro ed evidente che essa non deve scambiare la propria immagine mentale, che è sempre e solo un simbolo ed una approssimazione, con la cosa pensata, che è, in se stessa, assolutamente intraducibile, perché assolutamente non pensabile da una mente umana.
In effetti, l’idea di Dio è un’idea-limite: essa supera di tanto la mente che la pensa, da sfuggire del tutto a qualunque possibilità di rappresentazione concettuale. Ed è ben per questo che Gesù Cristo, quando parlava di Dio, parlava per mezzo di parabole; e diceva: Il Regno dei Cieli è simile a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra (Matteo, 13, 45-46); oppure: Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo; ogni tralcio che in me non porta frutto, lo toglie e ogni tralcio che porta frutto, lo pota, affinché rechi ancora più frutto (Giovanni, 15, 1-2). Ma pensare il Regno dei Cieli come esso è realmente, è impossibile, a meno d’immaginarselo come il Paradiso islamico, pieno di cose bellissime e umanamente desiderabili, ma nel senso più materiale che sia dato immaginare. Anche pensare Dio, in se stesso, è impossibile: non solo il Padre, ma lo stesso Cristo è di natura così perfetta e luminosa, che nessuno lo potrebbe vedere come egli è realmente. Quando, sul Monte Tabor, si trasfigurò, i suoi discepoli, che pure lo conoscevano ed erano soliti vederlo, perché vivevano con lui, rimasero abbagliati e quasi instupiditi dal suo sovrumano splendore.
Ecco perché l’arte sacra, quando tenta di rappresentare ciò che non è rappresentabile, deve sforzarsi di farlo con infinita prudenza, umiltà e consapevolezza del limite. Deve rammentare sempre che si sta servendo di simboli, ma simboli di enorme significato, dai quali discende la possibilità che i fedeli si avvicinino, per via istintiva e immediata, alle grandi, eterne verità del Vangelo; oppure, viceversa, che se ne allontanino, che le fraintendano, che le interpretino in maniera inadeguata, grossolana, deformante. Di fatto, quest’ultimo pericolo è sempre stato neutralizzato, o quasi sempre, dalla purezza dell’intenzione dell’artista e dalla santità del soggetto medesimo, la quale non chiede che di lasciar agire l’ispirazione dell’Altissimo. È notevole il fatto che, mentre la Chiesa ha dovuto ricorrere (talvolta anche errando) a una serie di precauzioni e di misure repressive per combattere gli abusi in ambito dottrinale – si pensi all’Indice dei libri proibiti -, non vi è mai stata la necessità di operare con altrettanta severità e rigore nei confronti delle arti figurative, e anche della musica sacra, perché qualcosa, a monte della stessa volontà umana, ha evitato a quegli artisti e a quei musicisti di deviare dall’ortodossia, cioè dalla giusta rappresentazione delle verità di fede mediante le loro opere. E non solo quando l’artista era un uomo consacrato a Dio, come nel caso di fra Beato Angelico, ma anche quando era un semplice laico, ben raramente la rappresentazione delle verità eterne ha dato occasione a scandali o, comunque, a rappresentazioni inadeguate. Qualche discussione, ad esempio, vi fu intorno all’opera di Caravaggio dedicata alla Morte della Vergine, giudicata da alcuni troppo realistica e poco rispettosa (l’artista si era servito, come modella, di una povera donna di strada, ripescata annegata dal fiume). Tuttavia, si tratta di rare eccezioni. In pratica, l’ispirazione della divina Provvidenza sembra aver guidato la mano della stragrande maggioranza dei pittori, dei mosaicisti, degli scultori, degli architetti e dei compositori di musica sacra – almeno fino alle soglie della modernità.
Le cose cambiano con l’avvento dell’arte moderna e della civiltà moderna. Negli ultimi decenni, e specialmente dopo il Concilio Vaticano II, sono state erette numerose chiese che non trasmettono il senso del sacro, la maestà di Dio, la spiritualità della Buona Novella; che non trasmettono neppure, a dire il vero, un minimo senso di interiorità e di raccoglimento. Chiese che sembrano cattedrali erette dall’uomo a gloria di se stesso: brutte, arroganti, sgraziate, disarmoniche; chiese moderniste, nel peggior denso del termine (cioè nel senso dell’eresia modernista, condannata solennemente da san Pio X nel 1907). In esse non si coglie l’empito, lo slancio dell’anima verso Dio, ma una sorta di auto-glorificazione dell’uomo, come se l’umanesimo cristiano avesse dato origine a una nuova religione, solo apparentemente ancora incentrata su Dio, ma, in realtà, divenuta la religione dell’Uomo, ebbro di fiducia e di sicurezza in se stesso e ben deciso a redimersi da sé, a salvarsi con le sue sole forze, ammesso che di redenzione e di salvezza vi sia ancora bisogno (data la rarità con cui ci s’imbatte nel concetto di “peccato” in certe omelie di preti post-conciliari).
Della musica sacra, meglio non parlare: abbandonato il canto gregoriano, sostituito l’organo con la chitarra, con i tamburelli e con le nacchere, e i canti devozionali d’un tempo, pieno di spiritualità e di dolcezza, con delle canzonette sguaiate, i giovani e i meno giovani cantano a gola spiegata, senza umiltà, senza rispetto o timor di Dio, alzando la voce il più possibile, come se si sentissero tutti ugole d’oro in un provino per lo Zecchino d’Oro o per il Festival di Sanremo. Lo diciamo con tristezza, ma con rispetto, perché sappiamo bene che non è facile, oggi, mettere insieme un coro parrocchiale, insegnare ai bambini e agli adulti i rudimenti del canto sacro; pure, ci sembra che lo spirito della modernità sia penetrato anche qui, come un veleno sottile e inafferrabile, pervertendo dall’interno anche le buone intenzioni, e, soprattutto, facendo perdere di vista a quelle persone, pur bene intenzionate, che il canto liturgico è una cosa a parte, una cosa speciale, un sottofondo alla santa Messa, il cui scopo è favorire il raccoglimento dell’anima in Dio. Ma questa è appunto l’astuzia di Satana: insinuarsi in mezzo al recinto delle pecorelle; spargere silenziosamente il suo mortale veleno, e stravolgere dal di dentro, senza averne l’aria, il senso del sacro.
E veniamo alla pittura. Imperversano, da qualche tempo, le immagini sacre, o che tali dovrebbero essere, di un gesuita sloveno la cui carriera di artista è esplosa durante il pontificato di Giovanni Paolo II e che prosegue, a vele spiegate, verso la gloria e la celebrità, come se fosse una forza della natura, mentre è probabile che esistano cento altri artisti i quali, più di lui, avrebbero meritato di attirare l’attenzione delle alte sfere ecclesiastiche, e, dunque, che si tratta di una operazione ideologica: stiamo parlando di padre Marko Ivan Rupnik, classe 1954, mosaicista di Salloga d’Idria La sua ascesa spettacolare, apparentemente irresistibile; la sua chiamata a decorare i luoghi più importanti della Chiesa del terzo millennio, partendo dal “laboratorio” del Centro Ezio Aletti di Roma; il fatto a lui si debba anche il logo del Giubileo straordinario del 2016 (che alcuni hanno definito “il giubileo di papa Bergoglio” anziché di Gesù Cristo); che ovunque ci s’imbatte, anche sotto forma di riproduzioni e segnalibri, nelle sue opere, al punto che, ormai, sembrano la più accreditata versione dell’arte cristiana dei nostri giorni: tutto questo ci lascia perplessi, sconcertati, tutt’altro che persuasi. Non noi soltanto, ma molti cristiani e anche dei sacerdoti. Un santo prete di nostra conoscenza, un giorno, mostrandoci il Messale illustrato da Rupnik, ci confidava tutto il suo disagio, tutta la sua scontentezza nel dover guardare, nell’esercizio della sacra liturgia, quel tipo di immagini, trovandovi ben poco di sacro, e nulla di cristiano.
Perché il problema, per l’arte musiva di Rupnik, è proprio questo: che le sue immagini sacre hanno ben poco di sacro; che i suoi Cristi, le sue Madonne, i suoi Santi, non trasmettono né la maestà, né la nobiltà, né la dolcezza che dovrebbero trasmettere; che ci presentano dei volti emaciati, sbigottiti, tristi, deformati, incomprensibili; che non comunicano alcun senso di elevazione dell’anima, ma un suo restringimento, un suo disorientamento; che non parlano affatto al cuore, ma solo alla testa, e anche male; che non paiono l’opera di un artista cristiano, ma di un artista New Age, il quale ha mal digerito la lezione delle icone russe, di Masaccio, dei pittori bizantini, romanici e gotici, ai quali pretenderebbe d’ispirarsi. Ha dichiarato padre Rupnik, con poca modestia: Ho impiegato anni di ricerca per arrivare a una semplice essenzialità che si rifà al primo romanico, alla prima epoca bizantina e gotica. Quelle epoche sono di una maturità artistico-spirituale formidabile. Non si tratta di imitare, ma di ispirarsi e ricreare quell’intenzionalità spirituale.Peccato che un artista non dovrebbe dire da se stesso se abbia, o non abbia, raggiunto “una semplice essenzialità”, tanto meno nel rifarsi a dei modelli illustri: dovrebbero dirlo gli altri. A noi, non è certo questa l’impressone che suscitano i mosaici di padre Rupnik; al contrario: quel che evocano al nostro spirito è un senso di smarrimento, di angoscia, d’insopportabile debolezza e quasi di stravolgimento, di derisione del sacro. Stentiamo a prendere sul serio quei volti di Cristo, e ci domandiamo: è questa l’immagine del nostro divino Salvatore? Certo, il volto di Cristo nessuno l’ha visto; non sarebbe stato male, tuttavia, se padre Rupnik avesse tenuto conto del volto della Sindone, che una tradizione antichissima identifica con il volto autentico di Cristo; o, almeno, di quella nobile maestà e di quella dolce autorevolezza che tutti gli artisti di soggetti sacri, compresi i sommi, come Leonardo e Michelangelo, hanno sempre impresso nei tratti del divino Maestro.
Padre Rupnik non è un artista naïf, come pure potrebbe sembrare; è un artista colto. Ha studiato filosofia, teologia e missiologia, e sa bene quello che fa. Ha scritto e pubblicato numerosi libri di teologia e di spiritualità, tiene conferenze. I suoi mosaici si trovano nella Cappella Redemptoris Mater in Vaticano, nelle basiliche di Fatima e di San Giovanni Rotondo, nel Santuario di Lourdes. È un ammiratore di Kandinskij e, a quanto pare, ritiene che nell’arte del pittore russo vi sia una profonda ispirazione mistica (mah…). Insomma, sarà un intellettuale discutibile fin che si vuole, ma certo non può essere scambiato per uno sprovveduto. Se gli è stato concesso tanto spazio, se ha potuto fare una così sfolgorante carriera, se siamo costretti ad ammirare ovunque (ammirare, si fa per dire) le sue opere, ciò non è frutto del caso, e nemmeno della sua sola bravura di artista, sulla quale crediamo che non noi soltanto, ma anche molti altri avrebbero delle grosse riserve da fare. Siamo portati a dedurre logicamente che l’arte figurativa di padre Rupnik deve essere figlia della sua teologia; e ci chiediamo, preoccupati, quanto una siffatta teologia sia davvero la sana e teologia cattolica di sempre, rispettosa del perenne e inalterabile Depositum fidei.
Perciò non possiamo non concludere che, dietro la sua “rivoluzione” iconografica, e, soprattutto, dietro le intenzioni di coloro che hanno promosso questo oscuro artista di provincia al rango d’una star mondiale dell’arte cattolica, vi sia un disegno preciso: quello di cambiare silenziosamente, insensibilmente, ma irrevocabilmente, l’immaginario collettivo dei cristiani. E qui torniamo al nostro assunto iniziale. Se la mente umana pensa per immagini, la mente delle generazioni del dopo Rupnik penserà Cristo con quei tratti somatici deformi, con quegli occhi bovini, con quella espressione imbambolata e triste. I bambini di oggi, cioè i cristiani adulti di domani, abituati a frequentare la santa Messa in una chiesa ultra-moderna di ferro e cemento, a sentir suonare le chitarre prima e dopo il Sacrificio eucaristico (a proposito, com’è che tanti preti hanno smesso di chiamarlo in questo modo, e parlano solo, sbrigativamente e impropriamente, di “Comunione”?), saranno anche abituati a pensare a Cristo, alla Vergine Maria, ai Santi, con i volti e le figure dei mosaici di Rupnik. Ci chiediamo: sarà ancora il vero cristianesimo, quello che praticheranno e in cui diranno di credere? Sarà ancora la religione del Dio Padre, che si rivela agli uomini per mezzo di Gesù Cristo e che li assiste, li consola e li sorregge per mezzo dello Spirito Santo?
Una cosa è certa. Come ci ammonisce l’Apocalisse, i falsi profeti verranno da dentro la cristianità, non da fuori; e sedurranno le masse, non già assalendo frontalmente le verità eterne del Vangelo, ma annacquandole, smorzandole, aggiustandole, ritoccandole, “aggiornandole”. Poco alla volta: così che molti non si accorgeranno di nulla. Però, alla fine, il cristianesimo potrebbe diventare una cosa completamente diversa da ciò che realmente è; e la Chiesa potrebbe scivolare nell’apostasia, senza quasi rendersene conto. Ci conforta solo la rassicurazione di Gesù Cristo: Non praevalebunt...
Ma è proprio questo il volto del nostro Redentore?
di Francesco Lamendola
"Se gli è stato concesso tanto spazio, se ha potuto fare una così sfolgorante carriera, se siamo costretti ad ammirare ovunque (ammirare, si fa per dire) le sue opere, ciò non è frutto del caso"
RispondiEliminaLe opere sono giusto un gradino al di sopra degli sgorbi kikiani. Come per i neocatecumenali la diffusione spropositata nella chiesa risale all'epoca wojtyliana.
Scrive Colafemmina:
"Queste opere corrispondono nel genere e nello stile alle opere pre
iconiche di Kiko Arguello. Non che ci siano consonanze dirette fra i
due, eppure i percorsi sono i medesimi.
Due artisti il cui percorso nasce dall'astrattismo e dal simbolismo ma non riesce ostinatamente ad approdare al figurativismo e trova quale unico compromesso fra astrazione e rappresentazione figurativa, l'icona".