MORTE E IL MISTERO DELL'ANIMA
Il mistero dell’anima davanti alla morte lo conoscono solo il morente e Dio. La morte rappresenta la soglia davanti alla quale il sapere umano si deve fermare e la scienza deve tacere. E'lo spettacolo del mistero, la maestà della morte
di F.Lamendola
Il mistero dell’anima di fronte alla morte è un mistero grande, luminoso e terribile: sono solo in due a conoscerlo, colui che muore e Dio.
Gli altri, possono solo guardare dall’esterno: il che, ovviamente, cambia del tutto la prospettiva. È come osservare dall’esterno una casa dalle finestre chiuse, o appena socchiuse: nessuno è in grado di dire con assoluta certezza quel che avviene all’interno, anche se quella casa ci è nota, anche se ci siamo stati dentro chissà quante volte. Adesso, però, è diverso; adesso nessuno apre alla porta e nessuno si affaccia a rispondere. C’è un grande silenzio e le tendine, in quel silenzio, si muovono leggermente al soffio del vento; ma nessun suono, nessun altro segno di vita giungono dall’interno. Perfino chi era un frequentatore abituale di quella casa, forse un ospite gradito, ora si trova nella stessa situazione di un prefetto estraneo: anche lui è lì, sulla strada, come chiunque altro; e si fa delle domande; anche lui guarda, ma non sa, non può avere le risposte.
Davanti a questo mistero abissale, noi dobbiamo muoverci in punta di piedi e trattenere persino il fiato, per non fare il più piccolo rumore. Qualunque parola impulsiva, qualunque giudizio affrettato sarebbero una profanazione, né più né meno. Noi non sappiamo: umanamente parlando, non sappiamo un bel nulla, siamo al buio; questa è la verità. Certo, talvolta compaiono degli indizi, almeno per chi li sa vedere. Indizi, non evidenze; o, almeno, raramente si tratta di evidenze. Pure, dei segni ci sono: piccoli, quasi impercettibili. Ma, ripetiamo, è anche necessario saperli vedere; e, se qualcuno si aspettasse qualche cosa di clamoroso, di spettacolare, di scientificamente evidente e dimostrabile, sarebbe del tutto fuori strada, perché non si tratta di nulla del genere. Come lo potrebbe? La morte rappresenta appunto la soglia perfetta, davanti alla quale il sapere umano si deve fermare e la scienza deve tacere. Sulla morte, la scienza non ha nulla da dire, tranne ciò che può dire della casa dalle finestre socchiuse, uno che si trovi confinato al suo esterno. Vede la casa, ma non sa che cosa avvenga dentro: e lo stesso vale per la conoscenza scientifica davanti al mistero della morte. Essa vede il cadavere, registra il cessare del battito cardiaco, il fermarsi degli impulsi delle onde cerebrali: nient’altro. E non ha il diritto di spingersi oltre, di dire altro. Se lo fa, si squalifica da se stessa: perché la scienza studia ciò che è visibile, non l’invisibile; studia i fatti, ma deve saper tacere davanti al mistero. Una scienza che non riconosce il mistero è una scienza che abusa del proprio credito.
Perfino Cristo è sceso in quel mistero insondabile, da uomo, così come da uomo aveva sofferto e si era spento sulla croce. Quel che è avvenuto nelle ore che vanno dal pomeriggio del Venerdì santo al mattino della domenica di Pasqua, nel sepolcro in cui era stato deposto, nessuno lo sa veramente. Si possono fare delle ipotesi: i teologi le hanno fatte. Ipotesi, non certezze; credenze, non dogmi. Tutta la teologia di questo mondo deve fermarsi, anch’essa, davanti a un mistero così grande. Alcuni artisti hanno raffigurato il corpo morto di Cristo, o, per meglio dire, il suo corpo dormiente, il suo volto assorto in una profondità inaccessibile. Alcuni scultori, alcuni pittori lo hanno saputo cogliere con una meravigliosa sensibilità, con una partecipazione commovente: nessuno, però, ha potuto sciogliere il mistero. Perché un tale mistero, umanamente parlando, non può essere sciolto, neppure dal più sapiente degli uomini.
Una cosa è certa: la morte, talvolta, distende sul volto delle persone un tale alone di luminosità, di bellezza, di pace, da far pensare che qualcosa sia realmente avvenuto, all’interno di quel mistero che a noi resta celato; qualcosa che ha cambiato lo stato di quell’anima, facendola passare dalla sofferenza, fisica o morale, ad una intensa, inesprimibile beatitudine. Qualcosa che ci lascia perplessi, increduli, che ci scuote, che c’interroga; qualcosa su cui non abbiamo il diritto di esprimerci con tono assertivo, con positiva sicurezza, perché quel qualcosa si serve di un altro linguaggio, si esprime con altre parole, del tutto diverse da quelle che adoperiamo nella vita ordinaria, poiché si riferisce a una dimensiona altra, a una sfera di realtà che non appartiene alle nostre precedenti esperienze. Infatti, non è di questo mondo.
Un simile concetto si torva espresso nelle pagine finali di un romanzo secondario di Julien Green, il grande scrittore cattolico franco-americano (Parigi, 1900-ivi, 1998; ma il suo corpo riposa in una cappella della Chiesa di Sant’Egidio a Klagenfurt, in Austria), del quale il movimento gay sta cercando di fare una propria icona, sorvolando o addomesticando il dato essenziale della sua biografia e soprattutto, ciò che più importa, della sua opera: che egli, esattamente come Giovanni Testori, e come altri scrittori cattolici che hanno vissuto la stessa situazione personale, non si vantava affatto della propria diversità, anzi, si sentiva profondamente peccatore, e vedeva nel groviglio dei desideri carnali disordinati - differenza fondamentale, ad esempio, con un Pasolini - il campo di battaglia decisivo dello scontro tra il Bene e il Male, tra la fede e l’incredulità. Il romanzo di cui parliamo è Ciascuno la sua notte, che non è certo un capolavoro e rimane alquanto inferiore ad opere magistrali come Adriana Mesurat (1927) o Leviathan (1929); è un libro che appartiene all’ultima, e sia pur lunga, fase della sua produzione letteraria, poiché fu pubblicato nel 1960. È una storia, non del tutto riuscita, e per varie ragioni, del tormento di un’anima – anzi, a ben guardare, di tutte le anime dei diversi personaggi – presa nella drammatica contraddizione fra l’aspirazione alla purezza e alla santità, da una parte, e il prepotente, indomabile richiamo della concupiscenza, dall’altra. Wilfred, il protagonista, è un ventiquattrenne americano che si barcamena con fatica sempre maggiore, e con un crescente senso di colpa e d’ipocrisia, fra il desiderio, o, per meglio dire, l’ossessione della donna, del corpo delle donne, ultima delle quali è Febea – una lontana parente che ha conosciuto in occasione del funerale dello zio, e che è infelicemente sposata con un uomo malato e molto più vecchio di lei – e il richiamo della spiritualità, che gli fa sentire una bruciante, divorante nostalgia della purezza.
La sequenza conclusiva del romanzo, che termina con l’assurda morte del protagonista, ucciso da un uomo che aveva capito, lui solo, il suo segreto, e che provava nei suoi confronti un acuto desiderio omosessuale, è, nondimeno, di una bellezza e di una nitidezza degne delle migliori opere di Green: la riportiamo come commento esemplare a ciò che stavamo dicendo circa il mistero abissale della morte e ciò che, di esso, può talvolta trasparire agli sguardi di coloro che restano (da: Julien Green, Ciascuno la sua notte; titolo originale:Chaque homme dans sa nuit, Paris, Librairie Plon, 1960; traduzione dal francese di Gastone Toschi e Giuseppe Valentini, Milano, Bompiani Editore, 1962, pp. 367-370):
“Angus”, disse il signor Knight, “vedo che siete molto addolorato e capisco benissimo la ragione. È un brutto momento da passare. Se fossi in voi mi sforzerei di piangere e non ne avrei nessuna vergogna” [Angus è un cugino di Wilfred, che era stato irresistibilmente attratto, come tanti altri uomini e donne, da lui; e il signor Knight è il marito di Febea].
Angus scosse il capo e non rispose. Il so bel viso era di un pallore mortale e i suoi occhi dilatati pareva fissassero qualcosa che lo attirava come un incanto.
“Dio l’ha preso con sé al momento”, disse il signor Knight. “Questo momento lui solo lo conosce, ed è sempre lui che lo sceglie. Noi certamente non verremo mai a sapere che cosa fosse andato a fare il povero Wilfred in quella strada e perché quel pazzo gli abbia sparato. Non sono riusciti a strappargli due parole coerenti, all’assassino”.
Il piccolo corto di macchine si infilò in una strada tranquilla, fiancheggiata da giardini.
“Spero che voi abbiate fede in Dio”, disse il signor Knight.
“Non posso”, sussurrò Angus con voce roca.
“Che cosa ve lo impedisce?”.
Vi fu una pausa, poi Angus rispose soltanto:
“Questo”.
Il signor Knight tacque. Ci voleva un buon quarto d’ora prima di giungere al cimitero e il coreo, ch’era uscito dalla città, passava ora per un gran viale dove le case sempre più distanti fra loro si nascondevano dietro gli alberi e rivelavano la vicinanza della campagna. L’ombra dei sicomori si muoveva appena sulle facciate dalle colonnine bianche e i fuori ravvivavano il verde dei prati. Ogni tanto un passante si fermava e guardava passare il carro funebre sotto il sole scintillante.
“Sapete”, disse d’improvviso il signor Knight sommessamente, “Io l’ho assistito sino all’ultimo. Penso che vi farebbe bene, ascoltare quel che vi dirò. Volete?”
Angus accennò di sì.
“C’era stata prima una specie di cerimonia che loro chiamano l’Estrema Unzione [il signor Knight è protestante e sta parlando dei cattolici]. Io non ho voluto assistervi. Non perché io sia contrario a questi riti, ma per non dar noia al prete. Sino andato a trovarlo dopo, in una stanza che gli è stata adibita a studio. È un uomo piccolo, dall’aspetto insignificante, potrebbe sembrare un funzionario qualunque. Almeno questa fu la mia impressione. Portava gli occhiali, aveva una figura rotondetta, di persona ben nutrita. Dopo avergli detto chi ero, gli ho domandato che cos’era l’Estrema Unzione e il beneficio che ne poteva trarre un moribondo. Confesso che era una domanda fatta apposta per prenderlo in trappola, ma è difficile cogliere alla sprovvista questa gente, anche se possono sembrare delle creature semplici. Mi ha risposto con parole precise. L’ho pregato di dirmi come sperava di venire in comunicazione con l’anima di un moribondo, il quale con tutti gli stupefacenti che gli avevano dato non era più cosciente. Mi ha guardato un momento, poi mi ha risposto con una vice calmissima: ‘Io non ho mai assistito un moribondo, la cui anima mi sia apparsa più presente, più sollecita di questa’. ‘E non potrebb’essere’ gli ho detto, ‘una vostra impressione, poiché, di fatto, lui non sentiva più niente’. Di nuovo, quel prete mi ha fissato. ‘Volete che andiamo a vederlo?’ mi ha chiesto. E l’ho seguito nella stanza del morto.”
“Ebbene?” domandò Angus con voce soffocata.
“Ebbene, mio caro, io non sono il tipo che ceda facilmente alle emozioni. Anzi, diffido delle emozioni. Ma quando mi sono trovato in quella piccola camera, ho dovuto afferrarmi con tutt’e due le mani alla sbarra del lettino per non cadere. Io ho vissuto tanti anni, ebbene in tanti anni io non avevo mai visto in un essere umano l’espressione di una così grande felicità come quella che illuminava il viso di Wilfred. Per lui, la parola morto non aveva nessun significato. Viveva, vi dico che pareva vivo! Per un minuto, sono rimasto esterrefatto, poi ho sentito la mia voce che chiedeva l prete: ‘Ma è morto?’. E lui mi ha risposto: ‘Sì, se per morto intendete dire che il suo cuore non batte più’. Non ricordo che cosa gli ho risposto, ma non aveva importanza. Io non potevo staccare gli occhi da Wilfred. Sembrava che sorridesse per la mia sorpresa e che conoscesse dei segreti che teneva per sé solo. Era come se ci avesse voluto fare uno scherzo andandosene, lo scherzo di un ragazzo, e benché tenesse gli occhi chiusi, si sarebbe detto che ci vedesse da lontano, da un regno di luce. Io mi sono avvicinato a lui e l’ho baciato due, tre volte Mi sono trattenuto, perché c’era lì il prete, in ginocchio. Ma se fossi stato solo con Wilfred, sono certo che gli avrei parlato, gli avrei parlato per vi, se avessi saputo quel che so ora, gli avrei parlato per me, e anche per Febea, perché lui c’era, Angus, era lontano eppure era lì, vicinissimo…
Angus si piegò in due e si strinse la testa tra i pugni.
“Tacete”, lo supplicò.“Non dite più niente, niente, niente”.
Ecco: ciò che ha visto quel prete, ciò che ha visto il signor Knight, è stato lo spettacolo del mistero: la maestà della morte, certo, ma anche qualcos’altro; è stato il tralucere di un sorriso, di un altrove, di una beatitudine che il “morto”, forse, sta già assaporando in un’altra vita, mentre noi, i vivi - o meglio, noi che ci crediamo vivi, e invece siamo dei moribondi che non sanno di esserlo - riusciamo solo a intuire, come il passo felpato d’uno sconosciuto che ci passa accanto, portando con sé il profumo e la pungente nostalgia d’un luogo meraviglioso. Un luogo che non è lontano, anzi è qui, vicinissimo; ma del quale ignoriamo tutto, perché una luce abbagliante scaturisce da quella soglia…
Il mistero dell’anima davanti alla morte lo conoscono solo il morente e Dio
di Francesco Lamendola
Incertezza dell'ora della morte
Dagli scritti di Sant'Alfonso Maria de Liguori, Vescovo e Dottore della Chiesa.
Estote parati, quia qua hora non putatis, Filius hominis veniet (Luc 12,40)
PUNTO I
È certo che tutti abbiamo da morire, ma è incerto il quando. "Nihil certius morte (dice l'Idiota), hora autem mortis nihil incertius". Fratello mio, già sta determinato l'anno, il mese, il giorno, l'ora e 'l momento, nel quale io e voi abbiam da lasciar questa terra ed entrare nell'eternità; ma questo tempo a noi è ignoto. Il Signore, acciocché noi ci troviamo sempre apparecchiati, ora ci dice che la morte verrà come un ladro di notte e di nascosto: "Sicut fur in nocte, ita veniet" (1 Thess 5,2): ora ci dice che stiamo vigilanti, perché quando meno ce l'immaginiamo, verrà Egli a giudicarci: "Qua hora non putatis, Filius hominis veniet". Dice S. Gregorio che Dio per nostro bene ci nasconde l'ora della morte, acciocché ci troviamo sempre apparecchiati: "De morte incerti sumus, ut ad mortem semper parati inveniamur". Giacché dunque la morte in ogni tempo, ed in ogni luogo può toglierci la vita, se vogliamo morir bene e salvarci, bisogna (dice S. Bernardo) che in ogni tempo ed in ogni luogo la stiamo aspettando: "Mors ubique te exspectat; tu ubique eam exspectabis".
Ognuno sa che ha da morire, ma il male è che molti ravvisano la morte in tanta lontananza che la perdono di vista. Anche i vecchi più decrepiti e le persone più infermicce pure si lusingano di avere a vivere per tre o quattro altri anni di più. Ma all'incontro, io dico, quanti ne sappiamo noi anche a' giorni nostri morti di subito! chi sedendo, chi camminando, chi dormendo nel suo letto! È certo che niun di costoro credea di avere a morir così improvvisamente ed in quel giorno ch'è morto. Dico in oltre di quanti in quest'anno son passati all'altra vita, morendo nel loro letto, niuno s'immaginava di dovere in quest'anno finire i suoi giorni. Poche sono le morti, che non riescono improvvise.
Dunque, cristiano mio, quando il demonio vi tenta a peccare con dirvi che domani poi vi confesserete, rispondetegli: E che so io, se oggi è l'ultimo giorno di mia vita? se quest'ora, questo momento, in cui voltassi le spalle a Dio, fosse l'ultimo per me, sicché per me poi non vi fosse più tempo di rimediare, che ne sarebbe di me in eterno? A quanti poveri peccatori è succeduto che nello stesso punto che cibavansi di qualch'esca avvelenata, sono stati colti dalla morte e mandati all'inferno? "Sicut pisces capiuntur hamo, sic capiuntur homines in tempore malo" (Eccli 9,12). Il tempo malo è propriamente quello, in cui attualmente il peccatore offende Dio. Dice il demonio che questa disgrazia non vi succederà; ma voi dovete dire: E se mi succede, che ne sarà di me per tutta l'eternità?
PUNTO II
Il Signore non ci vuol vedere perduti, e perciò non lascia d'avvertirci a mutar vita colla minaccia del castigo. "Nisi conversi fueritis, gladium suum vibrabit " (Ps 7,13). Mirate (dice in altro luogo) quanti, perché non l'han voluta finire, quando meno se l'immaginavano, e vivean in pace sicuri di aver a vivere per molti anni, repentinamente è giunta loro la morte: "Cum dixerint pax, et securitas, tunc repentinus eis superveniet interitus" (Prov 29,1). In un altro luogo dice: "Nisi poenitentiam egeritis, omnes similiter peribitis". Perché tanti avvisi del castigo, prima di mandarcelo? se non perché Egli vuole che noi ci emendiamo, e così evitiamo la mala morte. Chi dice, guardati, non ha voglia di ucciderti, dice S. Agostino: "Non vult ferire, qui clamat tibi: Observa".
È necessario dunque apparecchiare i conti, prima che arrivi il giorno de' conti. Cristiano mio, se prima di notte in questo giorno doveste morire, e avesse da decidersi la causa della vostra vita eterna, che dite, vi trovereste i conti apparecchiati? o pure quanto paghereste per ottener da Dio un altro anno, un mese, almeno un altro giorno di tempo? E perché ora che Dio già vi dà questo tempo, non aggiustate la coscienza? Forse non può essere che questo giorno sia l'ultimo per voi? "Non tardes converti ad Dominum, et non differas de die in diem; subito enim veniet ira illius, et in tempore vindictae disperdet te" (Eccli 5,9). Per salvarti, fratello mio, bisogna lasciare il peccato; se dunque hai da lasciarlo una volta, perché non lo lasci ora? "Si aliquando, cur non modo?" (S. Agostino). Aspetti forse che giunga la morte? ma il tempo della morte non è tempo di perdono, ma di vendetta. "In tempore vindictae disperdet te".
Se alcuno vi dee una gran somma, voi presto vi cautelate con farvi fare l'obbligo scritto, dicendo: Chi sa che può succedere? E perché non usate poi la stessa cautela per l'anima vostra, che importa assai più di quella somma? perché non dite lo stesso: Chi sa che può succedere? Se perdete quella somma, non perdete tutto; e benché perdendo quella perdessivo tutto il vostro patrimonio, pure vi resterebbe la speranza di riacquistarlo; ma se in morte perdete l'anima, allora veramente avrete perduto tutto, e non vi sarà più per voi speranza di ricuperarlo. Voi siete così diligente in notare le memorie de' beni che possedete, per timore che non si perdano, se mai v'accadesse una morte improvvisa; e se per caso vi accade questa morte improvvisa, e vi trovate in disgrazia di Dio, che sarà dell'anima vostra per tutta l'eternità?
PUNTO III
"Estote parati". Non dice il Signore che ci apparecchiamo, quando ci arriva la morte, ma che ci troviamo apparecchiati. Quando viene la morte, allora in quella tempesta e confusione sarà quasi impossibile aggiustare una coscienza imbrogliata. Così dice la ragione. Così minaccia Dio, dicendo che allora Egli non verrà a perdonare, ma a vendicarsi del disprezzo fatto delle sue grazie. "Mihi vindicta, et ego retribuam in tempore". (Rom 12,19). Giusto castigo, dice S. Agostino, sarà questo per colui che potendo non ha voluto salvarsi, di non potere quando vorrà: "Iusta poena est, ut qui recta facere cum posset noluit, amittat posse cum velit". Ma dirà alcuno: Chi sa, può essere ancora che allora mi converta, e mi salvi. Ma vi gittereste voi in un pozzo con dire: Chi sa, può essere che gittandomi resto vivo e non muoio? Oh Dio, che cosa è questa? Come il peccato accieca la mente, che fa perdere anche la ragione! Gli uomini, quando si tratta del corpo, parlano da savi; quando poi si tratta d'anima, parlano da pazzi.
Fratello mio, chi sa se questo punto che leggete, è l'ultimo avviso che Dio vi manda? Presto apparecchiamoci alla morte, acciocché non ci colga improvvisamente. Dice S. Agostino che 'l Signore ci nasconde l'ultimo giorno di nostra vita, affinché in tutt'i giorni stiamo apparecchiati a morire: "Latet ultimus dies, ut observentur omnes dies". Ci avvisa S. Paolo che bisogna attendere a salvarci non solo temendo, ma anche tremando: "Cum metu et tremore vestram salutem operamini". (Philipp 2,12). Narra S. Antonino che un certo re della Sicilia per far intendere ad un privato il timore, col quale egli sedea nel trono, lo fece sedere a mensa con una spada pendente da un picciolo filo sulla testa, sicché quegli stando così, appena poté prendere qualche poco di cibo. Tutti noi stiamo collo stesso pericolo, mentre in ogni momento può caderci sopra la spada della morte, da cui dipende la nostra salute eterna.
Si tratta di eternità. "Si ceciderit lignum ad austrum, aut ad aquilonem, in quocunque loco ceciderit, ibi erit" (Eccl 11,3). Se venendo la morte ci troviamo in grazia di Dio, oh che allegrezza sarà dell'anima, potendo allora dire: Ho assicurato tutto, non posso perdere più Dio, sarò felice per sempre. Ma se la morte troverà l'anima in peccato, qual disperazione sarà il dire: "Ergo erravimus". Dunque ho errato ed al mio errore non ci sarà rimedio per tutta l'eternità? Questo timore fece dire al Ven. P. M. Avila, apostolo delle Spagne, quando gli fu portata la nuova della morte: "Oh avessi un altro poco di tempo, per apparecchiarmi a morire!". Questo facea dire all'Abbate Agatone, con tutto che moriva dopo tanti anni di penitenza: "Che ne sarà di me! I giudizi di Dio chi li sa!". S. Arsenio anche tremava in morte, e dimandato da' discepoli, perché così temesse: "Figli, rispose, questo timore non mi è nuovo; io l'ho avuto sempre in tutta la mia vita". Sopra tutti tremava il santo Giobbe, dicendo: "Quid faciam, cum surrexerit ad iudicandum Deus? et cum quaesierit, quid respondebo illi?".
[Tratto da "Apparecchio alla morte", di Sant'Alfonso Maria de Liguori]
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