QUANDO BENEDETTO XVI DICEVA
Quando Benedetto XVI diceva "La Turchia stia fuori dall'Europa". L'allora cardinal Ratzinger scrisse parole di fuoco sulla Turchia, descrivendola come un mondo islamico troppo lontano dai valori occidentali e cristiani
di Giuseppe De Lorenzo
Il golpe in Turchia e le successive epurazioni di Erdogan mettono a nudo le differenze insanabili tra due mondi: quello occidentale, costruito sui valori cristiani, e quello turco, figlio del mondo ottomano.
Il 12 settembre 2006 Ratzinger tenne una lectio magistralis a Ratisbona
Eppure, ancora oggi molti dei politici europei restano convinti che il posto in UE lasciato vuoto dalla Gran Bretagna debba essere assegnato agli eredi di Ataturk. E non si fermano nemmeno di fronte all'evidenza che della rivoluzione laica di Ataturk non è rimasto nulla. All'orizzonte si profila una Turchia più vicina all'impero ottomano che alle democrazie occidentali. La sospensione della Convenzione dei diritti dell'uomo e la sedimentazione nel Paese dei principi della legge islamica, infatti, rendono ancor più profondo il divario tra noi e loro.
L'analisi di Ratzinger sulla Turchia
Ecco. Viene da chiedersi allora se c'era il bisogno di attendere un colpo di Stato e una presidenza dispotica come quella di Erdogan per capire che quello tra Turchia e Europa sarebbe stato un matrimonio nato male è finito peggio. No. Non era necessario tirare così tanto la corda. L'allora cardinal Joseph Ratzinger, infatti, già nel 2004 disse senza mezzi termini che le strade di Ankara e Bruxelles erano "naturalmente" separate. E che cercare di avvicinarle sarebbe stato sciocco.
"Storicamente e culturalmente - scriveva Benedetto XVI - la Turchia ha poco da spartire con l'Europa: perciò sarebbe un errore grande inglobarla nell'Unione Europea. Meglio sarebbe se la Turchia facesse da ponte tra Europa e mondo arabo oppure formasse un suo continente culturale insieme con esso". In questo discorso, ripescato dall'oblio del tempo dal professor Alessandro Campi dell'Università di Perugia, Ratzinger spiega chiaramente cosa separi i due "continenti culturali". "L'Europa - diceva - non è un concetto geografico, ma culturale, formatosi in un percorso storico anche conflittuale imperniato sulla fede cristiana, ed è un fatto che l'impero ottomano è sempre stato in contrapposizione con l'Europa. Anche se Kemal Ataturk negli anni Venti ha costruito una Turchia laica, essa resta il nucleo dell'antico impero ottomano, ha un fondamento islamico e quindi è molto diversa dall'Europa che pure è un insieme di stati laici ma con fondamento cristiano, anche se oggi sembrano ingiustificatamente negarlo. Perciò l'ingresso della Turchia nell’UE sarebbe antistorico”.
Senza se e senza ma.
Quando Benedetto XVI diceva "La Turchia stia fuori dall'Europa"
L'allora cardinal Ratzinger scrisse parole di fuoco sulla Turchia, descrivendola come un mondo islamico troppo lontano dai valori occidentali e cristiani
di
Giuseppe De Lorenzo
il Giornale.it
Il golpe in Turchia e le successive epurazioni di Erdogan mettono a nudo le differenze insanabili tra due mondi: quello occidentale, costruito sui valori cristiani, e quello turco, figlio del mondo ottomano.
Eppure, ancora oggi molti dei politici europei restano convinti che il posto in UE lasciato vuoto dalla Gran Bretagna debba essere assegnato agli eredi di Ataturk. E non si fermano nemmeno di fronte all'evidenza che della rivoluzione laica di Ataturk non è rimasto nulla. All'orizzonte si profila una Turchia più vicina all'impero ottomano che alle democrazie occidentali. La sospensione della Convenzione dei diritti dell'uomo e la sedimentazione nel Paese dei principi della legge islamica, infatti, rendono ancor più profondo il divario tra noi e loro.
L'analisi di Ratzinger sulla Turchia
Ecco. Viene da chiedersi allora se c'era il bisogno di attendere un colpo di Stato e una presidenza dispotica come quella di Erdogan per capire che quello tra Turchia e Europa sarebbe stato un matrimonio nato male è finito peggio. No. Non era necessario tirare così tanto la corda. L'allora cardinal Joseph Ratzinger, infatti, già nel 2004 disse senza mezzi termini che le strade di Ankara e Bruxelles erano "naturalmente" separate. E che cercare di avvicinarle sarebbe stato sciocco.
"Storicamente e culturalmente - scriveva Benedetto XVI - la Turchia ha poco da spartire con l'Europa: perciò sarebbe un errore grande inglobarla nell'Unione Europea. Meglio sarebbe se la Turchia facesse da ponte tra Europa e mondo arabo oppure formasse un suo continente culturale insieme con esso". In questo discorso, ripescato dall'oblio del tempo dal professor Alessandro Campi dell'Università di Perugia, Ratzinger spiega chiaramente cosa separi i due "continenti culturali". "L'Europa - diceva - non è un concetto geografico, ma culturale, formatosi in un percorso storico anche conflittuale imperniato sulla fede cristiana, ed è un fatto che l'impero ottomano è sempre stato in contrapposizione con l'Europa. Anche se Kemal Ataturk negli anni Venti ha costruito una Turchia laica, essa resta il nucleo dell'antico impero ottomano, ha un fondamento islamico e quindi è molto diversa dall'Europa che pure è un insieme di stati laici ma con fondamento cristiano, anche se oggi sembrano ingiustificatamente negarlo. Perciò l'ingresso della Turchia nell’UE sarebbe antistorico”.
Senza se e senza ma.
Quando Benedetto XVI diceva "La Turchia stia fuori dall'Europa"
L'allora cardinal Ratzinger scrisse parole di fuoco sulla Turchia, descrivendola come un mondo islamico troppo lontano dai valori occidentali e cristiani
di
Giuseppe De Lorenzo
il Giornale.it
Turchia-Europa: il trucco del liberismo è vecchio, ma funziona sempre
" Il fatto è che al liberismo non gliene frega assolutamente nulla né della pena di morte né delle repressioni militari e poliziesche e neppure del terrorismo e delle stragi: gli importano solo i soldi"
di Francesco Erspamer*
Il trucco è vecchio ma a quanto vedo funziona sempre. Angela Merkel
e l’ossequiente Federica Mogherini fanno la voce grossa al macellaio
Erdogan: eh no, se rimetti la pena di morte l'Europa te la sogni.
Perché, stava per entrare in Europa, la Turchia integralista di Erdogan?
E davvero la pena di morte è l’unico criterio di valutazione, e
chissenefrega di assassinii, torture, epurazioni, censure, minacce,
autoritarismo, corruzione, per non dire delle stragi di stato e del
genocidio dei curdi? Come a dire che se Hitler avesse tolto la pena di
morte allora il nazismo avrebbe potuto venire sdoganato.
Il fatto è che al liberismo non gliene frega assolutamente nulla né della pena di morte né delle repressioni militari e poliziesche e neppure del terrorismo e delle stragi: gli importano solo i soldi che possono fare le multinazionali e, attraverso di esse, la piccola casta di politici e giornalisti al loro servizio.
È una sceneggiata: il messaggio è chiaro: hai vinto, ci piaci, fai
un piccolo atto puramente formale e ti facciamo entrare nell’UE, a
portarci mano d’opera a costo quasi nullo, scarsa sensibilità ambientale
e sindacale, consumatori che si accattano qualunque americanata, come
neanche gli italiani. E a chi si opponeva prima e si opporrebbe adesso
rispondono: ma non ha la pena di morte, dunque è un paese democratico, è
un paese civile; e se ti opponi a un paese senza pena di morte
evidentemente sei un islamofobo, un razzista, un fascista.
*Professore all'Harvard University. Post Facebook del 21 luglio 2016
*Professore all'Harvard University. Post Facebook del 21 luglio 2016
L'ambiguità che ci rende complici delle dittature. Alberto Negri
C’è un doppio standard della politica internazionale di cui Erdogan prima ha fatto le spese e poi ha approfittato
di Alberto Negri, Il Sole 24 ore
Perché accettiamo autocrati e dittatori? Perché
servono: siamo complici, non partner. Loro lo sanno, si fanno usare e
poi sfuggono al controllo e ci ricattano secondo un copione che
conosciamo benissimo.
Il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, è solo l’ultimo della lista,
ma forse il più insidioso. Insidioso in quanto non è solo appoggiato da
una maggioranza elettorale conservatrice ma fa parte del sistema di
sicurezza occidentale con 24 basi dell’Alleanza atlantica, armi nucleari
comprese. Con l’epurazione nelle Forze armate, oltre a quella
nell’amministrazione, mette sotto torchio i generali laici, più fedeli
alla Nato che a lui.
Gli Stati Uniti e l’Europa non sanno cosa fare: sono a letto con il
nemico che è anche un loro amico e alleato. L’imbarazzo è palpabile e
sfiora l’autoironia. Il consolato Usa ieri celebrava a Istanbul, in
ritardo sul 4 luglio, la festa nazionale: sull’invito si legge,
testuale, che è dedicata «non» al giorno dell’indipendenza americana ma
alla «partnership strategica Usa-Turchia». Ecco servita la politica
occidentale: è immaginabile che Washington tenga sotto pressione Erdogan
ma solo fino a un certo punto, così come l’Unione europea, che ha
firmato con Ankara un accordo perché si tenga tre milioni di profughi
siriani.
C’è un doppio standard della politica internazionale di cui Erdogan
prima ha fatto le spese e poi ha approfittato usando proprio le regole
europee per far fuori i generali laici con falsi processi. Del resto chi
ha mai difeso la Turchia quando si scontrò con Israele per gli aiuti a
Gaza, dove oggi il 90% vive con le razioni dell’Onu? E chi ha mai
sostenuto il presidente egiziano Morsi, appoggiato da Erdogan, sia pure
regolarmente eletto? Per questo il presidente turco ha fatto la pace con
Israele: quando nella regione sei gradito a Tel Aviv a casa puoi fare
quello che vuoi, questo è lo standard dalle nostre parti ed Erdogan lo
conosce perfettamente.
La riappacificazione con Putin chiude un triangolo perfetto: tre Paesi
che non tengono in gran conto i diritti umani e occupano come Israele
territori altrui, da quelli palestinesi al Golan siriano. È
l’incrollabile messaggio che mandiamo da decenni al mondo musulmano.
Non solo. Pensiamo di usare gli autocrati come ci pare: un tempo Saddam
per fare la guerra all’Iran, oggi Erdogan per condurre con i jihadisti
quella alla Siria di Assad perché fa comodo al fronte sunnita anti-Iran,
cioè a quelle monarchie del Golfo che ci riempiono le tasche di
quattrini in commesse militari e investimenti.
Gli americani la chiamano politica del “doppio contenimento”, sia del
fronte sunnita che di quello sciita, dove per altro gli Usa bloccano le
banche internazionali che vogliono fare affari con Teheran, senza mai
scomporsi nei confronti dei sauditi che tagliano teste a tutto spiano.
La pena di morte minacciata da Erdogan è a geometria variabile: si vedono mai dei sit-in davanti all’ambasciata saudita?
Per questo abbiamo tollerato che la Turchia si islamizzasse, che
Erdogan reprimesse chiunque non la pensasse come lui, facendo fuori
oltre al Pkk anche i civili curdi. Ma ci siamo già dimenticati di Kobane
quando bastonava i volontari anti-jihadisti?
Poi qualche cosa non funziona, come la guerra contro Assad e facciamo
finta che non sia stata la signora Hillary Clinton, da segretario di
Stato, a incoraggiare la Turchia a inviare sull’”autostrada della jihad”
migliaia di militanti che adesso tornano nei loro Paesi e a casa nostra
a fare i terroristi. Il risultato è il seguente: non abbiamo la
democrazia in Siria, sostenuta da Putin, e ora neppure in Turchia. Un
capolavoro di ipocrisia e forse anche di imbecillità.
*Pubblichiamo su gentile concessione dell'Autore
La nuova fase del regno di Erdogan e l'ipocrita indignazione dell'occidente. Fulvio Scaglione
Finché la Turchia faceva comodo per intercettare i profughi o per smembrare la Siria, la moderazione di Erdogan non sembrava così indispensabile
di Fulvio Scaglione
“Scene rivoltanti di giustizia arbitraria e vendetta”, fa dire la
cancelliera Merkel ai suoi portavoce. Per aggiungere di persona che la
reintroduzione della pena di morte “significherebbe la fine delle
trattative per l’ingresso nell’Unione Europea”. Il dopo-golpe della
Turchia è scandito dagli arresti ordinati da Recep Erdogan, che ormai si
contano a migliaia tra soldati, poliziotti, prefetti, governatori e
magistrati. Ma anche dai moniti e, come si vede dal caso tedesco, anche
dalle minacce che arrivano da Occidente.
La Merkel non è stata l’unica a legare pena di morte e accoglimento
nella Ue. Lo hanno fatto anche Federica Mogherini, Alto rappresentante
per la politica estera e di sicurezza della Ue, e il nostro ministro
degli Esteri Gentiloni. Al coro europeo si è unito il solista
d’oltreoceano. Gli Usa, per bocca del segretario di Stato John Kerry,
hanno addirittura legato “il mantenimento dei più alti standard di
rispetto per le istituzioni democratiche e per l’applicazione della
legge” alla permanenza della Turchia nella Nato.
Tutto questo avrà di sicuro una qualche influenza sul modo in cui
Erdogan deciderà di varare il nuovo atto del suo regno sulla Turchia: il
terzo, quello del potere assoluto, dopo il primo del consenso
conquistato con il decollo economico e il secondo dell’avventura
imperialista neo-ottomana. Allo stesso tempo, però, rivela tutto il
disagio con cui l’Occidente, e non da oggi, maneggia il “caso Turchia”.
Certo, la gigantesca purga che Erdogan vuole varare, agitando su
golpisti veri e presunti la spada della pena capitale, lo porterà ben
lontano da ciò che, in termini di applicazione della democrazia e
amministrazione della giustizia, si richiede a un Paese dell’Unione
Europea. Ma non è che prima del golpe la Turchia fosse molto vicina.
Negli ultimi anni Erdogan ha varato una serie di riforme che hanno
regalato ai servizi segreti (nei giorni scorsi il suo vero baluardo)
poteri insindacabili, tolto alla magistratura gran parte
dell’indipendenza rispetto al potere esecutivo, ridotto il diritto alla
libera espressione, mortificato la libertà di stampa, limitato
fortemente i diritti civili.
Non si sentivano, allora, molti appelli alla moderazione e al rispetto
dei sacri principi. Allo stesso modo, nel recente passato né gli Usa né
la Nato (di cui Kerry, è bene notarlo, parla come di una proprietà
privata) si preoccupavano degli “alti standard” che ora invocano,
nemmeno di fronte alla repressione nelle regioni curde o alla
benevolenza della Turchia nei confronti delle decine di migliaia di
foreign fighters che attraversavano il suo confine per andare a
sterminare gente in Siria e in Iraq. Anzi, allora la Nato degli “alti
standard” si impegnava a proteggerlo, quel confine, e a stendere il
proprio velo militare a sostegno di Erdogan. Succedeva l’altro ieri, non
mille anni fa.
Finché la Turchia faceva comodo per intercettare, ben pagata, i
profughi che tanto inquietano gli europei o per smembrare la Siria di
quell’Assad tanto inviso agli americani e ai loro alleati in Medio
Oriente, la moderazione di Erdogan non sembrava così indispensabile.
Oggi sì. Ma oggi forse è tardi: il cavallo scosso Erdogan da tempo non
risponde alle redini dell’Occidente ed è difficile che lo faccia, sia
che abbia superato un golpe vero (che comunque non può avere mandanti
solo interni alla Turchia), sia che ne abbia organizzato uno finto.
Comunque, dopo aver ottenuto un potere quasi assoluto.
In questo clamoroso riposizionamento collettivo, c’è un personaggio che
bada bene a non farsi notare ma potrebbe intascare un ottimo dividendo
economico e politico: Vladimir Putin. Il signore del
Cremlino è stato uno dei primi a parlare con Erdogan dopo il vero-finto
golpe e i due si sono promessi di incontrarsi al più presto. La crisi
seguita all’abbattimento del caccia russo nel novembre del 2015 aveva
mandato all’aria scambi commerciali del valore di 45 miliardi l’anno e
un rapporto strategico per entrambi i Paesi, soprattutto nel settore
dell’energia. Lo zar e il califfo si erano rappacificati poche settimane
fa e rilanciare l’intesa è ora negli interessi di entrambi. Della
Turchia, se vorrà proseguire nel duro confronto con l’Europa e gli Usa.
Della Russia, che in quel confronto è da tempo impegnata.
*Pubblichiamo su gentile concessione dell'Autore
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