DIO E SAGGEZZA DIMENTICATA
Abbiamo dimenticato la saggezza perché ci siamo allontanati da Dio. Consigli della Bibbia ed esagerata cultura dei diritti. Dovremmo recuperare la saggezza dei nostri padri, una parte della loro prudenza fortezza e temperanza
di Francesco Lamendola
Lo stile di vita della civiltà moderna ci ha talmente allontanati dalla saggezza, che abbiamo quasi smarrito non solo le virtù teologali – fede, speranza e carità - proprie dell’homo religiosus, ma anche quelle cardinali – prudenza, giustizia, fortezza e temperanza – le quali dovrebbero far parte del bagaglio dell’umana saggezza di qualunque persona, per consentirle di orientarsi nelle diverse e non sempre facili circostanze della vita.
Una rapida scorsa alle cronache quotidiane ci darà immediatamente la conferma di questa affermazione, purché sappiamo guardare ai fatti con mente sgombra dai condizionamenti auto-giustificativi della società consumista, e purché siamo capaci di andare dritti al nocciolo delle cose, senza farci trattenere da ciò che è secondario e fortuito.
Incidenti di macchina, incidenti in montagna, incidenti al mare, pesino incidenti domestici, coi bambini specialmente: quanti di essi sono dovuti al caso, a una mera fatalità, e quanti, invece, si sarebbero potuti evitare, con un minimo di prudenza e di assennatezza? Quanto hanno giocato l’impazienza, l’avventatezza, la faciloneria, il desiderio di farsi notare, ammirare, invidiare, facendo gli spericolati, ostentando una sicurezza che era, semplicemente, incoscienza? E quante volte è venuta a mancare una adeguata capacità di auto-valutazione, di conoscenza di sé, delle proprie attitudini, delle proprie capacità e dei propri limiti fisici; e quante volte è apparsa una insufficiente esperienza di quel particolare ambiente, di quel particolare luogo? Gira e rigira, torniamo sempre lì: alla presunzione, alla leggerezza, alla sicumera, e, soprattutto, alla mancanza di senso del limite. Quel che si nota, in moltissimi casi, è proprio l’incapacità di stabilire una linea di confine tra ciò che si può fare, e ciò che non si deve fare. Quanti morti, sulle strade, si potrebbero evitare, rinunciando a quel sorpasso, a quella velocità sostenuta! E quante morti, in montagna o al mare, si risparmierebbero, tenendo conto del bollettino meteorologico, o evitando di sciare fuori pista, o di spingersi al largo dove l’acqua è più fredda e la corrente più forte, o poco dopo aver pranzato, o, comunque, in condizioni fisiche non perfette? E in quel viaggio ai Tropici, era proprio necessario portarsi dietro il bambino piccolo? Quando si partecipa a un’escursione nella foresta, con un fuoristrada guidato chi sa da chi, è saggio, è prudente portarsi un bambino di un anno, due anni? Il guaio è che nessuno osa fare questi discorsi, per il timore di passare da insensibile; è tanto grande la paura di fare la figura del Grillo parlante che non ha rispetto del dolore altrui, che tutti preferiscono tacere. Eppure, se sono gli uomini a tacere, finiranno per gridare i sassi, tanto la cosa è evidente, tanto è chiaro che quelle tragedie si potevamo e di dovevano evitare: ci sarebbe voluta più prudenza!
Oppure prendiamo il caso di uno studente universitario che se ne va in un Paese extra-europeo, dove le condizioni della democrazia sono alquanto dubbie, e si mette a fare ricerche di natura politica, a incontrare gli oppositori del governo, a raccogliere materiali che, se resi di pubblico dominio, metterebbero in cattiva luce quest’ultimo; non solo: che invia a casa, perché siano pubblicati, degli articoli molto critici su quel regime, e sia pure firmandoli con uno pseudonimo, peraltro riconoscibilissimo. È penoso e sgradevole dire queste cose, perché sembra che si voglia mancare di rispetto alla vittima o puntare il dito contro la famiglia; e tuttavia, bisogna che qualcuno le dica. Se qualche cosa di male accade poi a quel ragazzo, non si ha il diritto di gridare alla fatalità: si sarà trattato di una tragedia annunciata. Dov’era la più elementare prudenza, in quel modo di agire? Dov’era una realistica valutazione dei rischi, dettata dal puro e semplice buon senso? Se uno va a casa di qualcun altro e si comporta non da ospite, ma da occulto nemico, ci si può meravigliare se poi a quel tale accade di pagare le conseguenze dei suoi atti? E con ciò, sia ben chiaro, non stiamo certo giustificando la violenza, le torture, le crudeltà di chicchessia; ci mancherebbe altro: stiamo solo dicendo che, se si va a tirare la coda del leone, è logico e inevitabile che, prima o poi, si finirà sbranati. E, se ciò accade, è giusto chiedere che sia accertata la verità e che sia fatta giustizia, ma senza quel tono di incredulità, di stupore, d’indignazione, come se si fosse verificata la circostanza più imprevedibile e più impensabile di questo mondo. Ogni comportamento ha i suoi rischi e le sue possibili conseguenze, nel bene come nel male: non ammettere questo, o, peggio, non rendersene neppure conto, significa negare il principio di realtà. Significa confondere il mondo delle favole con il mondo reale, così com’è, come noi tutti lo abbiamo fatto. Se il serpente ci morde il tallone, non ha senso imprecare contro di lui e lamentarsi che il suo dente sia velenifero: siamo noi che avremmo dovuto fare attenzione nel muoverci in una zona ove i serpenti sono a casa loro e fanno il mestiere loro: che è quello di mordere, allorché si sentono in pericolo.
Per la vita professionale, sociale e affettiva valgono le stese considerazioni. Vediamo molte persone soffrire: uno ha peso il posto di lavoro, l’altro ha perso la stima degli amici, il terzo è stato piantato dalla fidanzata. Tutti si disperano, tutti se la prendono col mondo intero, qualcuno minaccia il suicidio, o la vendetta; nessuno di essi ha l’onestà di giudicarsi serenamente, senza sconti, senza troppa indulgenza, e di riconoscere gli errori, le imprudenze, le leggerezze, le infedeltà, che hanno provocato simili fallimenti, con il loro inevitabile retaggio di sofferenze, solitudine, amarezza e senso di frustrazione. Se fossero stati un po’ più onesti e leali con se stessi, avrebbero dovuto riconoscere che, in molti casi – non in tutti – vi è stata, da parte loro, una serie di insufficienze, di inadeguatezze, di superficialità che hanno determinato quegli esiti negativi. Si raccoglie quel che si semina: il destino e la sfortuna c’entrano assai meno di quel che solitamente si crede. È facile dare la colpa al destino o alla sfortuna; ancor più facile dare la colpa agli altri, a coloro che si fidavano di noi, alla società intera. E la cosa più grave è che molte persone sono del tutto incapaci di questo atto di verità verso se stesse, sicché non fanno altro che replicare sempre gli stessi comportamenti e i medesimi errori; procedono nella strada della vita, ma non imparano nulla; invecchiano senza diventare mai più saggi. Eppure la saggezza, la saggezza di vita, che nasce dall’esperienza e dall’osservazione equanime delle cose, è una dote alla portata di tutti, o, almeno, di chiunque la voglia accumulare; non è un dono del Cielo, se non viene invocata con umiltà e cercata con realismo; e non arriva un giorno, per caso, a premiare chi non l’ha mai veramente desiderata, chi ha sprecato tutte le occasioni per apprenderla.
Se poi ci domandiamo da dove si sia originata questa perdita di saggezza, di prudenza, di temperanza, di giusta valutazione di sé e delle cose, non tarderemo a vedere che, fra le diverse cause, una spicca in modo particolare: l’effetto di una esagerata cultura dei diritti, astratta e velleitaria, instauratasi nella società europea a partire dall’illuminismo e divenuta, oggi, quasi una seconda natura in moltissime persone. Oltre a non essere bilanciata da una sensibilità altrettanto spiccata per l’etica dei doveri, la cultura dei diritti ha provocato un ottundimento nella valutazione delle cose e delle persone, un vero e proprio corto circuito del buon senso e dello stesso istinto di sopravvivenza. Siccome esiste, ed è scritto nero su bianco, che ciascuno ha il diritto di circolare liberamente, parecchie persone si addentrano nei quartieri ad alto rischio, la notte, senza pensare alle possibili conseguenze. Io ho il diritto di andare dove voglio, pensano, e non intendo permettere a niente e a nessuno di limitarlo; salvo, poi, scontrarsi con il principio di realtà, e pagare le amare conseguenze della loro imprudenza. Il bello è che a dire queste cose, si fa la figura dei pavidi, o di quanti hanno uno scarso senso civico, o, ancora, dei cinici, che non provano compassione davanti alle disgrazie altrui. Per esempio, se una ragazza, abbigliata come una prostituta (perché tale è la moda: ma l’abbigliamento lancia dei segnali ben precisi, che possono dare luogo a gravi equivoci), se ne va in giro, di notte, in posti malfamati, e poi le capita una brutta avventura, non ci sembra sia il caso di parlare di sfortuna, o di fatalità. E se un turista, o, comunque, una persona non pratica di un certo luogo, se ne va in giro per i bassifondi, con il portafoglio ben gonfio e in bella vista nella tasca posteriore dei calzoni, e poi passa qualche guaio, del pari non ci sembra possibile incolpare il destino di ciò che gli è accaduto. Certo: in teoria sia la ragazza, sia il turista, avevamo tutti i diritti di andare per la loro strada, liberamente e a qualsiasi ora: si tratta di una libertà garantita a ogni cittadino; nondimeno, prima dei diritti, c’è, o ci dovrebbe essere, il buon senso, ed è questo, appunto, il grande assente in tante disavventure della vita quotidiana.
La cultura dei diritti ci ha abituati a esercitare una libertà astratta e, sovente, irresponsabile: abbiamo dimenticato la virtù della prudenza. Non è normale che un ragazzo, in gita scolastica, cada dalla finestra dell’albergo; e ancora meno normale è che nessuno dei suoi compagni abbia visto o sentito niente; infine, la cosa meno normale di tutte è che i professori, che accompagnavamo quella classe, siano rimasti fuori da tutta la vicenda, come se fosse cosa che non li riguardava per niente. Ci siamo abituati, un po’ alla volta, a considerare come pure fatalità delle situazioni, o degli eventi, che sono, invece, il frutto di imprudenza, leggerezza, incoscienza, mancanza di senso del limite e di senso della responsabilità. Intendiamoci: le disgrazie impreviste e imprevedibili possono sempre accadere; però sono estremamente rare: nella stragrande maggioranza dei casi, quelle che chiamiamo “disgrazie imprevedibili” non sono affatto tali. E ci stiamo abituando a questa normalità di ciò che è anormale, a questa sorta di diffusa, tacita follia, anche perché, così facendo, scusiamo noi stessi: sentiamo, infatti, nel profondo della nostra coscienza (ammesso che ne abbiamo ancora una), che la superficialità e spavalderia degli altri sono un po’ anche le nostre; che noi pure siamo contagiati dalle stesse tendenze, dagli stessi modi di fare; che non ci conviene puntare il dito contro le mancanze altrui, anche quando sono palesi, perché, un domani, qualcun altro potrebbe puntare il dito contro di noi. E così, per un gioco incrociato delle connivenze e delle complicità, tutto l’edificio sociale si corrompe, si indebolisce, si sfarina: nessuno può più fare conto su nessuno; tutti sanno che è bene non fidarsi, non aspettarsi nulla, neppure ciò che sarebbe giusto e dovuto; gli impegni presi, la parola data, il rispetto delle regole, son tutte cose che non hanno più valore, sono ormai moneta fuori corso.
Prendiamo il caso di quell’alto prelato vaticano che, un bel giorno, convoca una conferenza stampa e davanti alle telecamere e ai microfoni dei giornalisti, annuncia a tutti la sua omosessualità, o meglio, la sua felice convivenza con un altro uomo, il quale è lì presente, e i due si sorridono, si stringono, si baciano; e poi quel monsignore, che per anni e anni ha fatto carriera all’ombra dei sacri palazzi, e si è guardato bene dal manifestare dubbi o disagi, dal rinunciare a onori e privilegi, ora, improvvisamente ispirato dalla voce della sua coscienza, si mette a rimproverare alla Chiesa la sua grettezza morale, la sua omofobia, la sua incomprensione verso i bisogni affettivi dei gay; domandiamo: c’è coerenza, c’è onestà, c’è dignità in un simile modo di agire? Se davvero il monsignore era in crisi, non poteva decidersi prima? E c’era bisogno di convocare i giornalisti, di scrivere un libro da cui schizzare veleno contro la Chiesa, nella quale ha servito per tanti anni? Non poteva rivolgersi al suo direttore spirituale? Non poteva parlare in privato con qualche altro religioso, domandare un consiglio, lasciarsi indirizzare sul modo più discreto, più delicato, più rispettoso di lasciare la tonaca? Notiamo,en passant, che il problema non è, o non è soltanto, l’omosessualità del monsignore: il problema è il celibato, e anche il rispetto verso l’istituzione cui egli appartiene. I sacerdoti pronunciano i tre voti di castità, povertà e obbedienza: agendo in quel modo, costui ha infranto sia il primo che il terzo. Quanto al secondo, sempre lo stesso monsignore ha appena pubblicato il libro di memorie che dovrebbe diventare un best-seller grazie al successo di scandalo: logico, a questo punto, pensare che tutta la messa in scena della conferenza stampa shock, con tanto di bacino affettuoso al suo compagno, fosse solo una preparazione al lancio pubblicitario del libro. Chi ama sinceramente una causa, non persegue il successo personale, tanto meno sul piano economico: quel che ha da dire, lo dice gratis (e oggi, sulla rete, lo si può fare benissimo, e a costo zero: basta solo averne voglia); mentre chi si fa pagare, chi specula e punta a realizzare un profitto, si qualifica da sé, come un furbo e un mercenario.
Dovremmo recuperare almeno un poco della saggezza dei nostri padri, almeno una parte della loro prudenza, fortezza e temperanza; dovremmo tornare a chiederci se è cosa giusta o ingiusta agire in un certo modo, dire una certa cosa; in altre parole, dovremmo tornare a ragionare in termini di responsabilità, e smetterla di addossare sempre agli altri, o alla società indistintamente, la colpa delle cose che non vanno come dovrebbero andare, mentre noi, da parte nostra, non siamo disposti ad assumerci seriamente neppure il più piccolo impegno, né siamo disposti a pagare i nostri errori, ma ci affanniamo sempre a trovare scusanti, giustificazioni, bugie d’ogni sorta, pur di sottrarci a una doverosa resa dei conti.
Della saggezza dei nostri padri e dei nostri nonni faceva parte la frequentazione della preghiera, la pratica del raccoglimento e della lettura della Bibbia. Se si facesse un’inchiesta, probabilmente si scoprirebbe che in moltissime case non c’è neppure una copia dellaBibbia, comprese quelle delle famiglie che si dicono cristiane, e magari attivamente praticanti. I nostri nonni conoscevano a memoria interi brani e capitoli della Bibbia, li meditavano, ne traevano quotidiana ispirazione, li prendevamo a modello di vita. Non era certo ricca, la biblioteca dei nostri nonni e delle nostre nonne, specialmente in campagna: si riduceva a tre, quattro, cinque volumi in tutto; ma la Bibbia, fra essi, non mancava mai. Le pagine recavano i segni dell’uso frequente, gli angoli erano ripiegati, la copertina era un po’ consunta. Non era un libro lasciato ad ammuffire, né c’era pericolo che si coprisse di polvere: veniva preso in mano e letto un poco ogni giorno, o, al massimo, ogni domenica e ogni festività del calendario liturgico. Se confrontassimo quelle smilze, poverissime biblioteche di persone illetterate con le biblioteche delle famiglie moderne, vedremmo una grande differenza: oggi non sono poche le case in cui si leggono moltissimi libri, tanto che i volumi delle rispettive biblioteche si possono contare sull’ordine delle centinaia. Ma sono anche buoni libri, sono letture che restano impresse nell’anima e che forniscono una linea di condotta morale per quel pellegrinaggio che è la nostra vita? O non sono piuttosto libri che si leggono solo per curiosità, o, peggio, per “ammazzare il tempo”, e che – male aggiuntivo ancor più grave degli altri - incitano al relativismo, all’indifferentismo, all’edonismo, al materialismo; e che, dopo aver sollevato infinite domande, non sanno dare neppure una sola risposta, a cominciare da quella più importante, sul perché vi viva e si muoia. Che misero sapere, che squallida biblioteca, se fra tanti e tanti libri non se ne trova neanche uno che affronti onestamente, limpidamente, e con proposito costruttivo e benevolo il problema del vivere e del morire, e non sia capace di fornire il benché minimo sostegno spirituale a chi lo legge, ma, dove, anzi, ogni singola opera solleva interrogativi angosciosi, provoca turbamenti, e poi se ne lava le mani, come se la cosa non la riguardasse affatto?
C’è un libro, nella Bibbia, il Libro dei Proverbi, che, nella sua apparente semplicità, fornisce una serie di consigli e di regole morali che sarebbero di estrema attualità, e più che mai validi, se solo ci fosse ancora qualche orecchio disposto ad ascoltare, e qualche mente non ancora del tutto indurita dallo scetticismo, dalla presunzione intellettuale, dal disprezzo nei confronti del bene e della legge morale.
Scrive, dunque, l’autore del Libro dei Proverbi, che è senza dubbio la raccolta più rappresentativa della sapienza dell’antico popolo d’Israele (2, 1-3,20):
Figlio mio, se accoglierai le mie parole
e conserverai con te i miei precetti,
volgendo alla sapienza il tuo orecchio,
inclinerai il tuo cuore all’intelligenza;
anzi se farai appello all’acutezza,
all’intelligenza rivolgendo il tuo grido;
se la ricercherai come l’argento
e come un tesoro l’andrai scovando:
allora scoprirai il timore del Signore
e la scienza di Dio tu troverai.
Veramente il Signore dona sapienza,
dalla sua bocca viene scienza e intelligenza.
Egli riserva ai retti l’assistenza,
scudo per chi cammina con integrità.
Proteggendo le vie della giustizia
custodisce il cammino dei suoi amici.
Allora comprenderai la giustizia e il diritto,
l’equità ed ogni via della felicità.
Quando sarà entrata la sapienza nel tuo cuore
e la scienza avrà deliziato la tua anima,
la prudenza veglierà su te
e l’assennatezza ti custodirà,
strappandoti dalla via del male,
dall’uomo dalle idee perverse,
da quelli che abbandonano le vie diritte
per mettersi nelle vie oscure,
che si dilettano a fare il male,
esultano nelle perversità del male,
deviano i propri sentieri,
sviano nei loro cammini;
strappandoti dalla donna altrui,
dalla straniera che sa adoperare parole melliflue,
che ha lasciato il compagno della sua giovinezza
e ha dimenticato il patto del suo Dio.
Veramente la sua casa va verso la morte
e verso le ombre i suoi sentieri.
Chi si incammina verso di lei non ritorna indietro
e non raggiunge i sentieri della vita.
Così camminerai per la via dei buoni
e i sentieri dei giusti tu custodirai.
Sì, i retti dimoreranno nel paese,
i puri vi saranno lasciati.
Gli empi invece saranno cancellati,
i fedifraghi saranno sradicati.
Figlio mio, non dimenticare il mio insegnamento
e il tuo cuore custodisca i miei precetti,
perché con la lunghezza dei giorni e degli anni di vita
ti procurano prosperità.
Amore e fedeltà non ti abbandonino!
Légali intorno al tuo collo,
scrivili sopra la tavola del tuo cuore.
Troverai grazia e buona fortuna
agli occhi di Dio e dell’uomo.
Confida nel Signore con tutto il cuore
e non ti appoggiare sulla tua intelligenza.
Tienilo presente in tutte le tue vie
ed egli raddrizzerà i tuoi sentieri.
Non essere saggio ai tuoi occhi!
Temi il Signore e fuggi dal male!
Sarà medicina al tuo corpo,
zampillo alle tue ossa.
Onora il Signore con i tuoi beni
e con le primizie di tutti i tuoi averi.
I tuoi granai saranno pieni di frumento,
di mosto i tuoi strettoi riboccheranno.
Non disprezzar la disciplina del Signore
e al suo rimprovero non metterti contro,
perché rimprovera colui che ama,
come un padre il figlio di cui si compiace.
Beato l’uomo che ha trovato sapienza,
l’uomo che ha incontrato intelligenza.
Ché il suo guadagno è migliore del guadagno ’argento
e migliore dell’oro è il suo frutto.
È più preziosa delle perle
e quanto puoi desiderare non l’eguaglia.
Lunghezza di giorni è nella sua destra,
nella sua sinistra ricchezza e onore.
Le sue vie sono vie deliziose
e tutti i suoi sentieri sono pace.
Albero di vita per chi l’ha afferrata,
e quelli che la tengono sono beati.
Il Signore con la sapienza ha fondato la terra,
sostenendo i cieli con l’intelligenza.
Per la sua scienza si sono aperti gli abissi
e le nubi hanno stillato rugiada.
Il nostro invito è di leggerlo tutto, perché solo così si possono cogliere le necessarie connessioni fra le varie parti. Un concetto, comunque, emerge con limpida chiarezza, già da questo breve estratto: che la saggezza umana è strettamente collegata con la fede in Dio. Senza la fede in Dio, nella sua sapienza, e nella sua capacità e volontà di aiutarci nella nostra ignoranza e mancanza di fede, nulla, nella vita, potrebbe andare a buon fine; le virtù morali sono il riflesso delle virtù religiose: perché, come notava Ivan Karamazov nel capolavoro di Fëdor Dostoevskij, se Dio non esiste, allora tutto è permesso agli uomini.
Dostoevskij è stato, purtroppo, un grande profeta. Ciò che aveva preconizzato si sta compiendo, sotto i nostri occhi; anche se, ai suoi tempi, erano impensabili, ad esempio, le manipolazioni genetiche ora in corso, anzi, mancava un secolo buono alla stessa scoperta della spirale del Dna; nondimeno, egli aveva ben chiara l’intuizione che, una volta eliminata la presenza di Dio dalla vita dell’uomo, questi sarebbe stato capace di commettere qualsiasi abuso, contro i suoi simili e contro se stesso, chiamandolo con il nome menzognero diprogresso. Tutta la spasmodica tensione morale che caratterizza l’opera del grande scrittore russo, e tutta la disperata angoscia che muove i suoi protagonisti, hanno origine da qui: eppure, critici letterari conformisti e professori imbecilli continuano a ripetere che l’inetto di Svevo è figlio dell’uomo del sottosuolo di Dostoevskij, come lo sono gli altri anti-eroi della narrativa novecentesca. Ma si tratta solo di una mezza verità, vale a dire della peggiore delle menzogne: perché la somiglianza è solo esteriore; ai Zeno Cosini, agli Emilio Brentani e agli Alfonso Nitti manca una cosa che è essenziale, invece, nei protagonisti delle opere di Dostoevskij: l’anelito struggente verso Dio e la prepotente, quasi violenta volontà di fare il bene. Per questo gli eroi di Dostoevskij sono tragici, mentre gli anti-eroi di Svevo (e quelli di Proust, e di Joyce, e di Pirandello, e di Kafka, e di Thomas Mann, e di Musil) sono solo patetici, o grotteschi, o addirittura umoristici.
Ma sono proprio quella nostalgia, quell’afflato, che salvano i vari Raskol’nikov, i vari Alioscia Karamazov, dall’abisso della disperazione e dalle tenebre della follia (in cui taluni cadono, come, appunto, Ivan Karamazov: perché l’inferno esiste, con buona pace dei cattolici progressisti e modernisti…), mentre non c’è nulla e nessuno che potrà mai salvare o redimere i personaggi di Svevo e di tanti altri romanzieri o drammaturghi del XX secolo, perché essi hanno voltato le spalle a Dio, per sempre, e senza alcun rimpianto…
Abbiamo dimenticato la saggezza perché ci siamo allontanati da Dio
di Francesco Lamendola
http://www.ilcorrieredelleregioni.it/index.php?option=com_content&view=article&id=9332:abbiamo-dimenticato-la-saggezza&catid=96:filosofia&Itemid=124
Seguaci di Odino in costante crescita
(di Mauro Faverzani) Sempre peggio. È ormai evidente come il ritorno al paganesimo sia un fenomeno da non poter prendere più sottogamba, né da liquidare con un semplice sorrisino. Perché i dati dicono che son sempre più coloro che abiurano, per tornare ad adorare Odino, Thor o Frigg. Accade in Islanda.
Ci eravamo occupati lo scorso anno dell’associazione Asatru, che qui gestisce questo tipo di culto, per evidenziare la crescita esponenziale registrata dal numero dei loro adepti, passati dai 12 del 1973 ai 2.488 del 4 giugno 2015. Ebbene, al primo gennaio 2016 (ultimo dato ufficiale disponibile) sono già arrivati a quota 3.187, registrando una crescita di 699 unità nel giro di soli sei mesi, pari ad oltre il 28%. Impressionante, specie per una realtà come questa, che non prevede una dimensione missionaria, ritenendola “disdicevole”. Chi si è avvicinato, lo ha fatto dunque spontaneamente.
Così l’organizzazione ha pensato di realizzare il primo tempio dedicato agli idoli nordici, per adorarli, ma anche per celebrare “matrimoni” e “funerali” secondo gli antichissimi riti.
L’Asatru è ormai la sesta più grande organizzazione religiosa d’Islanda e la maggiore tra quelle non cristiane. Viene considerata una vera e propria fede con tanto di riconoscimento governativo, non solo qui, bensì anche in Norvegia, Danimarca e Svezia. Non ancora negli Stati Uniti, benché anche qui sia presente da oltre quarant’anni. Pratica, oltre al politeismo, anche il panteismo. Recentemente ha predisposto addirittura un modulo on line in pdf, una sorta di “dichiarazione di fine vita”, per assicurare esequie pagane ai propri seguaci defunti. L’associazione accusa, infatti, i preti cattolici d’averle “sottratto” i suoi cari estinti, assicurando loro un regolare funerale, incuranti delle volontà espresse in vita. Il documento da loro messo a punto dovrebbe prevenire tali “abusi”.
Può stupire il fatto che esistano comunità simili anche in Italia. C’è, ad esempio, laComunità Odinista di Ivrea, molto centrata su basi di identità etnica: «Non siamo italiani, non siamo cittadini del mondo, non siamo politicamente corretti: Noi siamo Longobardi!», è specificato nel loro sito. Alcune decine gli aderenti, sparsi anche in altri gruppi a Corno, Cuneo, Reggio-Emilia, Lenno, Firenze, Treviso, Milano e Vicenza. Sono particolarmente ostili alla Chiesa cattolica: «Restiamo contro la colonizzazione degli spiriti per opera dei seguaci del dio straniero – è scritto, peraltro così, con la minuscola – Siamo contrari ad ogni dogmatismo ed impermeabili ad ogni logica dogmatica ed assolutista delle religioni monoteiste giudaico-cristiane. Crediamo nella libertà personale, opposta al soffocamento dello Spirito e dei Sensi impostoci dal cristianesimo. Non agiamo e non pensiamo secondo le logiche del moralismo giudaico-cristiano».
Non di diverso tono un’altra sigla, quella della Tribù dei Winniler ed il Cerchio Bragafull, costituitasi sempre nell’area di Treviso: una trentina in tutto, con tanto di manuali di combattimento, corsi di arti marziali e street fighting. Ma non solo. Si precisa sul loro blog: «Non sono ammessi stranieri». Ciò che sconcerta è chi questi siano per loro: «cristiani e non-Europei» (da notarsi l’uso bizzarro di maiuscole e minuscole).
In tutto, i neo-pagani in Italia dovrebbero essere un centinaio. Almeno per ora. Davvero questo fenomeno, a qualsiasi latitudine, non è però da sottovalutare: occupa spazi probabilmente lasciati “liberi” dai cattolici allontanatisi troppo dalla Tradizione. Di certo v’è, in ogni caso, che si tratta di un centinaio di anime, che han preferito gli idoli a Dio. (Mauro Faverzani)
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