Passati al vaglio
Io sono la via, la verità e la
vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me
(Gv 14, 6).
Aiutare
un indù ad essere un indù migliore significa aiutarlo ad assoggettarsi di più
ai demòni che adora e all’iniquo sistema sociale creato dalla sua religione,
che ha provocato e mantiene condizioni di miseria spaventosa, che non basta
alleviare senza risalire alle sue cause. Aiutare un musulmano ad essere un
musulmano migliore significa aiutarlo a sottomettersi ancor più ad una divinità
lontana e inaccessibile, la cui “misericordia” arbitraria assomiglia piuttosto
al capriccio di un tiranno e tiene i suoi fedeli prigionieri di un fatalismo
irrazionale e proni ad autorità oppressive che non lasciano nemmeno pensare in
modo autonomo. Aiutare un buddista ad essere un buddista migliore significa incoraggiarlo
a pratiche alienanti che aprono la porta dell’anima a forze oscure che
erroneamente ritiene benefiche. Aiutare un cattolico ad essere un cattolico
migliore significa aiutarlo a conformare il proprio cuore e la propria vita a
Cristo mediante la preghiera, la lotta contro il peccato e la pratica delle
virtù, informate e coronate dalla carità.
Come
si vede chiaramente, non è certo la stessa cosa; tra le religioni false (perché
elaborate dagli uomini) e l’unica vera (perché rivelata da Dio) la differenza è
abissale, tanto che i rispettivi esiti sono diametralmente opposti. Se un
cristiano è violento, non lo è certo perché il Vangelo gli insegni questo, con
buona pace di chi sostiene che in ciò non si distingue da un musulmano: egli
commette un peccato che, se grave, lo esclude dalla vita di grazia. Se un
adepto di altre religioni, invece, è violento, iracondo, perverso, sleale,
ingiusto o impudico, lo è anche perché il suo culto idolatrico a questo lo
autorizza e incoraggia. Cambierà pur qualcosa, nella vita delle persone, tra
l’adorare il vero Dio e il render culto agli spiriti immondi… e non vengano a
ripeterci ancora la storia dei semi del
Verbo, che possono essere eventualmente rintracciati in quegli elementi
culturali che sono frutto della retta ragione, non in dottrine religiose ad
essa contrarie e zeppe di errori.
Se san Giustino, a metà del II secolo, ricorse ai miti
pagani per difendere e spiegare la fede cristiana, lo fece per
adattarsi all’uditorio andando incontro alla sua mentalità, mostrandone al
tempo stesso l’inadeguatezza e fornendo argomenti alla superiorità del nuovo
culto. A differenza dei protestanti, del resto, noi crediamo che il peccato
originale non ha tolto all’uomo il lume della ragione, pur offuscandone
l’intelletto; per questo la teologia cattolica ha assunto e valorizzato quanto
di vero era presente nella filosofia dell’antichità, senza la quale non avremmo
né la patristica né la scolastica. La cultura greco-romana, in ogni caso, è
stata preparata dalla Provvidenza a servire alla riflessione cristiana sulla
verità rivelata; le culture asiatiche ne sono invece generalmente lontanissime,
salvo per quegli elementi di saggezza naturale che sono eventualmente frutto,
appunto, di un retto uso del raziocinio (che nella condizione decaduta
dell’uomo non è certo la regola).
Questo
sano realismo ha permesso alla Chiesa, nei secoli passati, di liberare interi
popoli dalla cappa tenebrosa dell’errore e dall’opprimente schiavitù di sistemi
socio-religiosi disumani, finché nelle facoltà teologiche, sotto la spinta di
dichiarazioni conciliari prive di qualsiasi valore dottrinale, non si è
cominciato ad esaltare i “valori” dei culti non cristiani, svalutando l’opera
evangelizzatrice come indebita aggressione delle altre culture e propagazione
coloniale di una visione occidentale, quasi la verità cattolica fosse
appannaggio di una parte del mondo e non avesse invece prodotto, ovunque si
fosse diffusa, mirabili sintesi di fede e cultura. È comunque risaputo che quei
testi esiziali uscirono da teste non certo ortodosse e, in alcuni casi, nemmeno
cristiane.
Le
virtù dei pagani – si diceva nell’età patristica – sono splendidi vizi, cioè
vizi che risplendono con l’apparenza delle virtù. La compassione buddista, a torto ritenuta così vicina alla carità
cristiana, in realtà non ha nulla a che vedere con essa. L’uomo decaduto non
può realizzare realmente il bene se non nel nome di Cristo e sotto l’azione
della grazia, cioè solo in seguito alla giustificazione. Un non cristiano può
certo compiere azioni materialmente buone, ma non azioni meritevoli in vista
della sua salvezza. Perché un atto umano abbia valore davanti a Dio è
necessario che esso sia mosso dalla carità soprannaturale, che in via ordinaria
è presente soltanto nell’anima del battezzato in stato di grazia e di cui,
eccezionalmente, un rivolo può scorrere in chi, pur avendo una coscienza retta,
crede in una falsa dottrina filosofica o religiosa per errore invincibile (e
quindi senza sua colpa). Nella compassione
di un buddista, quindi, c’è normalmente solo uno sforzo umano di autoperfezionamento
nel quale, alle condizioni sopraddette, può rintracciarsi in via eccezionale un
germe di carità, che per svilupparsi pienamente ha però bisogno della
conversione alla vera fede.
Può viceversa capitare che un cattolico, ponendo ostacolo
alla grazia, smetta inconsapevolmente di esercitare la carità teologale e
finisca con l’imitare la compassione del buddista. Il risultato visibile
sembrerà ai più immutato, ma il movente interiore – e quindi la qualità morale
delle azioni – sarà inevitabilmente tutt’altro, come si può arguire (senza per
questo pretendere di giudicare la coscienza) dall’esterno, cioè da evidenti
omissioni o da scelte errate. Il così funesto ostacolo alla grazia può essere
posto dallo stato di peccato mortale o da erronee convinzioni in materia di
fede. Escluso il primo caso, bisogna indagare il secondo. Proprio su questo
punto, purtroppo, tanti cattolici odierni, anche additati come santi, risultano
coinvolti; senza una retta fede, però, non è possibile esercitare la carità e
nutrire una fondata speranza, salva l’eccezione sopra enunciata per i
non-cristiani. Ma l’errore invincibile è ammissibile in un cattolico, specie se
professo?
I trattati di teologia spirituale, sulla base
dell’esperienza di tanti mistici, concordano nel ritenere la notte dello spirito una fase transitoria,
che ha di solito termine in un arco di tempo ragionevole e sfocia nell’unione
trasformante. Una prova del genere che duri cinquant’anni è un fatto rarissimo,
che può eventualmente esser disposto da Dio come continuato martirio bianco di
un’anima chiamata allo stato di vittima. Con tutta la cautela e il rispetto necessario,
possiamo tuttavia domandarci: che succede se, dietro l’apparenza di una notte
spirituale, si celano tenebre provocate da un cedimento all’incredulità?
Condizioni di vita impossibili, cui si sommano una terribile prova interiore e
lo spettacolo quotidiano di una miseria rivoltante, potrebbero condurre
un’anima estremamente sensibile alla resa, specie se la coscienza è
attanagliata da un senso di impotenza riguardo al dovere di portare gli uomini
a Cristo. Un cattivo suggerimento accolto perché scambiato per ispirazione
dello Spirito Santo… ed è fatta: il nemico ha vinto senza darlo a vedere.
Ma perché il Signore permetterebbe tale tragica illusione
in qualcuno che lo ami sinceramente e lo serva in modo eroico? Egli può dunque
lasciare che questa persona, a un dato momento, sostituisca inavvertitamente il
Dio vivente con un’idea della sua mente? E può lasciare che milioni di fedeli
la considerino santa e la prendano a modello? Ci sono fatti che avvengono
nell’intimo della coscienza individuale e che Dio solo conosce; ma se un
cattolico, in quel santuario inaccessibile, acconsente a un’ipotesi che sa
contraria alla dottrina definita della Chiesa, le conseguenze saranno evidenti
e inevitabilmente disastrose. Torniamo tuttavia a domandarci: perché il Signore
lo permette? Forse il motivo è analogo a quello per cui ha lasciato che un Papa
baciasse il Corano o presiedesse liturgie sincretistiche, pur essendo per altri
versi un gigante. D’altra parte, questo è ciò che vogliono il mondo e la gente.
È un dolore immenso, ma necessario: Dio ci sta passando al vaglio.
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