LAICI E VITA DELLA CHIESA
In che misura è utile e opportuna la partecipazione dei laici alla vita della Chiesa? ci sono cose che i laici possono fare bene per la vita della Chiesa e ce ne sono altre che spettano al clero perché richiedono una speciale vocazione
di F.Lamendola
Ci sono una grande falsità, una grande ipocrisia, una grande demagogia che nessuno, fra i cattolici, sembra disposto nemmeno a sfiorare. Si dà per scontato, o si finge che sia cosa scontata, il fatto che il crescente coinvolgimento dei laici nella vita della Chiesa sia in se stesso, e manifestamente, positivo; che esso abbia fatto del bene alla Chiesa, che l'abbia rivitalizzata, e che corrisponda a un orientamento religioso più equilibrato e maturo, più saggio e consapevole della realtà del mondo moderno; senza contare che la crisi della vocazioni religiose pare fatta apposta per evidenziare quanto sia opportuno, giusto e necessario, che i laici partecipano in maniera sempre più attiva ed incisiva alla vita ecclesiale.
Ebbene, siamo sicuri che le cose stiano proprio in questi termini? E se, al contrario, la crisi delle vocazioni ed il coinvolgimento massiccio dei laici nella vita ecclesiale, non sempre meditato, non sempre adeguatamente preparato, non sempre così "maturo" come generalmente si dice, fossero le due facce di una stessa medaglia, ossia la sempre più radicale secolarizzazione della nostra società, divenuta ormai post-cristiana?
La partecipazione dei laici, si dice, è una risorsa. Rispondiamo: dipende. Dipende dal cosa, dal come, dal dove. Non è una risorsa "a prescindere"; non è un bene indiscriminatamente. Può, in certi casi, essere un male. E precisamente può essere un bene, laddove la società è ancora permeata da valori religiosi in misura sufficiente; ma può rivelarsi un male se la società è radicalmente laicizzata e secolarizzata, e non vi sono più i presupposti e le condizioni perché tale inserimento avvenga in maniera positiva e costruttiva. Per essere ancora più chiari: ci sono cose che i laici sanno fare, e possono farle bene e utilmente, per la vita della Chiesa; e ce ne sono altre che spettano al clero, perché richiedono una speciale preparazione e, soprattutto, una speciale vocazione. Fino a un paio di generazioni fa, ciò era ritenuto evidente e del tutto logico: si partiva dalla premessa che la vita consacrata è la vita più perfetta di quella non consacrata; e quindi, ferma restando la dignità del matrimonio cristiano, e, anzi, la sua santità, o la sua chiamata alla santità, nessuno si sognava di mettere in dubbio che la scelta di dedicarsi interamente a Dio e al prossimo fosse una scelta più perfetta di quella di dedicarsi solo alla propria famiglia. Il religioso e la religiosa godevano di un alto prestigio sociale, perché la società, nel suo complesso, riconosceva loro quella maggiore perfezione, e ammirava il coraggio e la coerenza di chi ha scelto di dedicarsi interamente alle cose sante. Mano a mano che quel prestigio sociale è venuto scemando, mano a mano che all'ammirazione e al rispetto si sono sostituite l'indifferenza o la sopportazione, i laici hanno ritenuto di potere e di dover svolgere un ruolo più incisivo nella vita della Chiesa, e la loro presenza si è moltiplicata, là dove prima essa era assente o trascurabile.
In un certo senso, è stato un frutto della democratizzazione della società di massa: e lo diciamo in senso oggettivo, senza dare a questo enunciato una connotazione di valore. Così come nell'ambito politico-sociale si è assistito a un risveglio e ad una richiesta di maggior partecipazione alla vita pubblica da parte dei cittadini - attraverso i sindacati, i partiti e altre forme di partecipazione diretta - un processo analogo si è verificato all'interno della Chiesa. Bisognerebbe chiedersi, però, se realmente vi sia stata una maggiore maturazione ed una più profonda consapevolezza nei cattolici laici, tali da giustificare questa loro maggiore presenza; perché, se così non fosse stato, è evidente che il fenomeno non può che produrre risultati completamente diversi da quelli sperati. La democrazia sarà anche una bella cosa, ma esistono delle competenze e perfino delle sensibilità, che non possono essere improvvisate: non qualsiasi marinaio potrebbe comandare la nave, e non qualunque operaio potrebbe dirigere la fabbrica, né qualunque muratore potrebbe progettare la casa. L'entusiasmo e la buona volontà non bastano; ci vuole molto di più: ci vuole una preparazione, e, a monte di essa, una vocazione, che siano all'altezza dei compiti da svolgere. Nel campo vastissimo di cui stiamo discutendo, ci limiteremo, per esigenze di brevità, a soffermare lo sguardo su tre questioni: l'insegnamento della religione cattolica nelle scuole; l'insegnamento del catechismo negli oratori parrocchiali; la presenza e il ruolo del diaconato femminile.
L'insegnamento della religione cattolica è diventato una nuova professione e ha dischiuso possibilità lavorative in tempi di crisi e di relativa saturazione del "mercato" scolastico. La figura del sacerdote che insegna alle scuole elementari, alle medie e alle superiori, si è fatta sempre più rara; ad essa è subentrata la figura del laico, di sesso maschile o, più spesso femminile, che ha fatto un corso di teologia (molto abborracciato, a nostro modesto parere) ed ha ricevuto il placet del vescovo locale, e che porta nel suo stile d'insegnamento degli elementi di rottura con la tradizione. Il suo punto di vista, inevitabilmente, è quello di un giovane, oppure di un padre o di una madre di famiglia, che vivono "in situazione" e che sviluppano delle linee di approfondimento compatibili con la loro prospettiva laica, con il loro senso di doppia appartenenza - alla Chiesa, ma anche allo Stato, che li retribuisce - e con la loro mentalità, generalmente più "giovane" e "aperta", generalmente più vicina al sentire medio degli studenti ai quali si rivolgono, e alle loro famiglie, du quanto non lo fosse quella del prete vecchio stile. In qualche modo, sono protesi a farsi accettare, sia dagli alunni, sia dai colleghi: sanno che la loro presenza è regolamentata da una pasticcio giuridico che nacque da un penoso compromesso politico-istituzionale, e si sentono in posizione d'inferiorità, non avendo né lo strumento del voto numerico da far valere in sede di giudizio, né l'autorevolezza di chi svolge un insegnamento ritenuto necessario, dalla scuola stessa, per tutti gli alunni, tanto è vero che questi ultimi lo possono rifiutare (di solito, in alternativa al niente), come qualcosa di puramente personale e facoltativo.
Per reagire a tale complesso d'inferiorità, non sarebbe il caso che essi eccedano nel tentativo di ingraziarsi la platea; ma, in ogni caso, bisogna riconoscere che la loro posizione è scomoda, difficile: qualunque cosa dicano o facciano, devo stare attenti a non irritare la sensibilità laicista di qualche alunno. Il caso dell'insegnante torinese che fu accusato d'intolleranza perché, su richiesta di uno studente, aveva espresso l'opinione che un omosessuale, qualora lo voglia, può anche intraprendere delle terapie per modificare il proprio atteggiamento nei confronti delle persone dell'altro sesso, è eloquente: se si vuole essere giusti, non è facole essere insegnanti di religione nella scuola statale di oggi. Si è dei tollerati, degli osservati speciali. Se l'insegnante di religione è un sacerdote, la cosa è diversa: nemmeno i laici più sfregatati possono aspettarsi, o pretendere da lui, che, nel fare lezione, prescinda dai capisaldi della morale cattolica. Certo che anche qui c'è stato un cambiamento: perché una cosa era il vecchio sacerdote che si presentava in classe con l'abito talare, senza ostentazione, ma anche senza complessi, e un'altra cosa sono certi giovani preti che paiono volersi far perdonare la loro condizione sacerdotale e che quasi la nascondono, indossando abiti borghesi e non portando neppure un piccolo crocifisso al collo. L'autorevolezza bisogna guadagnarsela, e, per prima cosa, bisogna credere fortemente in ciò che si è, e in ciò che si rappresenta. Gli insegnanti di religione dei nostri giorni, specialmente se laici, sanno chi sono, e sono fieri e consapevoli di ciò che rappresentano?
Per dare un quadro ancora più chiaro della situazione, ricorderemo la vicenda di quella insegnante che era stata assunta presso una scuola tenuta da religiosi, e che non si vide rinnovare il contratto di lavoro per l’anno successivo. Ritenendo di essere stata discriminata perché omosessuale, e convivente con un’altra donna, si rivolse al giudice del lavoro, che le diede ragione, e non solo obbligò la scuola a riassumerla, ma anche a pagare una multa, se non andiamo errati, di 10.000 euro. Se si tiene presente che molte scuole religiose sopravvivono a stento, con i magri bilanci tirati fino all’osso, si comprende che una sanzione pecuniaria di 10.000 euro o più, è in grado di decidere la chiusura di tali piccoli istituti. La morale che si ricava da tutto ciò è che nemmeno i dirigenti di una scuola confessionale sono liberi di far valere, presso il loro corpo docente, le convinzioni morali cui si ispirano: lo Stato laicista è in grado di imporre anche ad esse la propria idea della morale, e, nel caso specifico, di costringerle a servirsi di insegnanti omosessuali, anche se ciò contrasta con la morale cattolica che le scuole private si propongono di difendere. Pertanto, in nome della lotta alla discriminazione, si è imposta una nuova discriminazione alla rovescia, che conculca il diritto alla libertà del progetto educativo e fa passare la filosofia omosessualista anche nelle scuole private. Ma tutto questo, naturalmente, è ancora niente in confronto a quello che accadrà entro pochissimi anni, quando i progetti di “educazione alla salute” faranno entrare nei programmi scolastici l’a cosiddetta ideologia gender, voluta e sostenuta dai poteri forti, operanti all’ombra delle Nazioni Unite.
L'insegnamento del catechismo negli oratori parrocchiali è svolto anch'esso, in gran parte, da laici: e anche così moltissime parrocchie sono in affanno, perché non si trovano abbastanza persone disponibili ad assumersi un tale impegno. Guardando le cose dall'esterno, si potrebbe pensare che il catechista abbia un compito relativamente più facile dell'insegnante di religione: infatti gioca in casa, per così dire, cioè si rivolge a dei bambini e a dei ragazzi che provengono da famiglie cattoliche e che si recano al catechismo di loro spontanea volontà. In teoria, quindi, dovrebbero essere più motivati, più attenti, più partecipi e anche più rispettosi nei confronti dei loro insegnanti; in pratica, come ben sa chi abbia un minimo di esperienza in materia, anche solo indiretta, accade tutto il contrario. Fare catechismo ai bambini e ai ragazzi d'oggi è un'impresa quasi disperata; la disattenzione, l'indifferenza, l'indisciplina regnano sovrane: sappiamo di insegnanti, anche preti, e magari con decenni di vita religiosa alle spalle, che escono piangendo dalle aule di lezione, scoraggiati dall'atteggiamento indisponente degli alunni, e a volte di aperta sfida nei loro confronti. In teoria, essi avrebbero l'arma di poter rifiutare l'accesso alla Penitenza, all'Eucarestia e alla Cresima agli alunni più distratti o recalcitranti; in pratica, ciò è addirittura impensabile. Se mai qualcuno osasse anche solo accennare ad una tale eventualità, sarebbe letteralmente linciato dai genitori, e il caso finirebbe sui giornali, come un esempio lampante della sopravvivenza di atteggiamenti autoritari e anacronistici nel mondo cattolico.
Il punto dolente, infatti, in questo caso, sono proprio le famiglie: le quali mandano al catechismo i loro pargoletti, ma senza interessarsi minimamente a quel che faranno e a come si comporteranno, anzi, sempre pronte a balzare addosso all'incauto catechista che osi rimproverare i loro figli, che si permetta di far loro una osservazione di tipo disciplinare. E anche questo è un retaggio della società secolarizzata: nella quale le famiglie sono propense a lasciare che i loro figli ricevano, sì, un minimo d’istruzione religiosa, ma solo per rispetto delle forme e per amor della tradizione, nel senso meno bello del termine: dopo di che, la Prima Comunione e la Cresima si trasformeranno in occasioni di mondanità, di consumismo, di spreco, e i ragazzi, dopo di esse, non si faranno più vedere in Chiesa. Meglio non parlare nemmeno, pertanto, dei contenuti dell'istruzione religiosa impartita nelle lezioni di catechismo: sono penosamente inadeguati, quasi assenti. Molti catechisti ricorrono al gioco per intrattenere le loro scolaresche; ma il gioco, in oratorio, ha un senso se si accompagna alla fede e se si inscrive in una prospettiva religiosa: ad esempio, se è preceduto e seguito dalla preghiera. Altrimenti, si risolve in un puro e semplice "parcheggio" per ragazzi troppo vivaci. Ed è un tipo di attività che i giovani potrebbero fare benissimo, e anche meglio, fuori dal contesto religioso. Anche qui, si è persa di vista la pedagogia di uomini come san Giovanni Bosco, che, coi ragazzi, ci sapevano fare, eccome: e proprio con quelli più difficili, addirittura con quelli del riformatorio. Dunque, il problema non solo tanto i tempi difficili, ma il senso di rinuncia e di sconfitta che paralizza i cattolici e che li scoraggia e li trattiene dall’impegnarsi a fondo per ottenere dei risultati educativi adeguati. Per essere onesti, bisogna tuttavia aggiungere che un analogo senso di sconfitta e di rinuncia permea anche la psicologia di molti professori laici della scuola pubblica, e non solo quelli di religione.
Per quanto riguarda le donne diacono, il discorso sarebbe lungo e lo approfondiremo un’altra volta. Qui accenniamo soltanto che, di fatto, le diaconesse già esistono nella Chiesa cattolica; e, se pure non hanno ricevuto una investitura formale in quanto tali, come i maschi, in pratica esercitano già in moltissime parrocchie tutte le funzioni della diaconia, compresa quella di distribuire l’Eucarestia. Anche in questo caso, una riforma sostanziale è passata in punta di piedi, senza che vi sia stato un atto ufficiale del Magistero a sancirla, per cui i fedeli si sono trovati, a un certo punto, davanti al fatto compiuto. Ormai, di fatto, molte donne esercitano, nella Chiesa cattolica, una serie di attribuzioni, compreso l’annuncio della Parola, fino a pochi anni fa riservate solamente ai sacerdoti. E molti indizi fanno pensare che, se verrà dato il via libera ufficiale al diaconato femminile, esso supererà rapidamente, per quantità ed entusiasmo, quello maschile, che non ha mai veramente spiccato il volo. Una risorsa, in tempi di crisi delle vocazioni sacerdotali? Dipende dai punti di vista. Secondo noi, se passasse questa tendenza, e venisse ufficializzata, si assisterebbe, fra le altre cose, ad una ulteriore femminilizzazione della Chiesa cattolica, con un gran numero di donne anche in ambiti che, fino a ieri, si può dire, erano di esclusiva pertinenza maschile; proprio come, nella società profana, si è assistito ad una femminilizzazione di altre professioni, a cominciare dall’insegnamento scolastico. Con tutte le ricadute sociali, culturali e psicologiche del caso.
La presenza femminile è ormai fitta, anche là dove non ci si aspetterebbe che sia tale. Entrando nel seminario di una grande città del Nord, siamo rimasti colpiti dal fatto che, in portineria, vi fosse una ragazza, vestita in abbigliamento molto disinvolto (era estate) e che, peraltro, non sembrava molto a conoscenza delle sue mansioni. Ci domandiamo: sbagliava la Chiesa, una o due generazioni fa, quando faceva in modo che, nei seminari diocesani, non facesse la sua comparsa nemmeno una sottana femminile, tranne magari quella delle madri in vista ai loro figli; oppure sta sbagliando la Chiesa odierna, che non esita a porre una ragazza dall’aria disinibita, e non proprio castigatissima, nel luogo di formazione e di studio dei futuri sacerdoti cattolici? E se sta sbagliando, dove sta la radice dell’errore? Secondo noi, nella penetrazione delle idee femministe nella cultura cattolica; nel fatto che ormai molte donne cattoliche, e anche numerose suore, hanno fatto proprio il punto di vista femminista, secondo cui non esistono vere differenze fra l’uomo e la donna, se non quelle puramente fisiologiche e soprattutto quelle generate da una educazione retrograda, sessista e penalizzante del genere femminile. Pertanto, molte donne cattoliche, e anche molti cattolici di sesso maschile, si sono persuasi che più donne ci saranno in qualunqueambito ecclesiale, e tanto meglio sarà: così verrà posto riparo alle “ingiustizie” e alle “discriminazioni” del passato, e avremo finalmente una Chiesa moderna, progredita, al passo coi tempi e priva di anacronistici privilegi maschili. Da qui all’introduzione del sacerdozio femminile, il passo sarà relativamente breve. Una cosa è certa: non possono venirci a dire, i gesuiti progressisti e i teologi neomodernisti, che non è cambiato nulla e che la Chiesa, prima e dopo il Concilio, è rimasta sempre fedele e uguale a se stessa. Non è vero. È cambiata da cima a fondo, e continua a cambiare un poco ogni giorno, ma con un ritmo sempre più incalzante; e volerlo negare è indizio di mala fede. Che cosa si vuole nascondere? Tanto, anche se si nega l’evidenza, i fatti sono lì, sotto gli occhi tutti, e parlano da soli.
A Mestre, don Armando Trevisiol, 87 anni, sul periodico parrocchiale L’Incontro (stampato in 5.000 copie), ha detto sì all’idea dei preti spostati e delle donne prete. Ora, a parte il fatto che, a quell’età, costui poteva forse dedicarsi alla preghiera e alla riflessione, invece che alle esternazioni pubbliche, resta il fatto del cattivo esempio dato da un anziano sacerdote quasi novantenne, che stuzzica e aizza i suoi parrocchiani con proposte che contrastano frontalmente con il Magistero, e assumendo la comoda parte del contestatore irriducibile, del profeta dei tempi nuovi contro una Curia chiusa e bigotta, che sa solo dire “no” alle sfide del mondo moderno. Bravo don Armando: si è guadagnato, e sia pure in extremis, il suo quarto d’ora di celebrità. E pazienza se non ha mostrato né la dovuta obbedienza nei confronti dei superiori, né l’umano rispetto e la laica virtù della prudenza, di cui ogni essere umano, laico o religioso, dovrebbe esser dotato.
D’altra parte, è indubbio che queste sono le linee pastorali e dottrinali verso le quali sta muovendosi la Chiesa oggi, specialmente da quando è salito papa Bergoglio al soglio pontificio. Nondimeno, a tutti i don Trevisiol di questa Neochiesa modernista e progressista, vorremmo chiedere: Voi, per ragioni anagrafiche, avete pronunciato i voti assai prima del Concilio Vaticano II e, pertanto, avete operato nel clima spirituale del pontificato di Pio XII; ebbene, ci piacerebbe sapere: provate oggi almeno un po’ di vergogna per come facevate i preti 50 anni fa – autoritari, maschilisti, settari, antiecumenici - oppure dovreste vergognarvi per come lo state facendo oggi? Provate a rifletterci...
In che misura è utile e opportuna la partecipazione dei laici alla vita della Chiesa?
di Francesco Lamendola
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