SAPIENZA E' TIMORE DI DIO
«Tutta la sapienza è timore di Dio» (Sir. 19, 19). Un concetto che la cultura moderna ha dimenticato, seppellito, rifiutato: la cultura moderna nasce da una ribellione contro il timor di Dio ed è una lucida follia
di Francesco Lamendola
C’è un aureo passo dell’Antico Testamento in cui si riassume perfettamente il concetto della sapienza umana: è nel libro del Siracide, e recita così (19, 19-20): Tutta la sapienza è timore di Dio, e in ogni sapienza è la pratica della legge. Non c’è sapienza nella conoscenza del male; non è mai prudenza il consiglio dei peccatori. V’è un’abilità che è abominevole, c’è uno stolto cui manca solo la saggezza. Passo che si può e si deve integrare con l’insegnamento complessivo del Nuovo Testamento – altrimenti i cristiani non sarebbero tali, ma giudei – che si può riassumere con le parole di Gesù Cristo: Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente; ed amerai il prossimo tuo come te stesso (cfr. Matteo, 22, 38-39). E al quale si può e si deve aggiungere un’altra cosa ancora, che è fondamentale: l’Incarnazione del Verbo e la sua Passione, Morte e Resurrezione per la redenzione dell’umanità; infatti, come dice san Paolo (1 Corinti, 15, 14), se Cristo non fosse risorto, la nostra predicazione sarebbe senza fondamento, e vana la vostra fede.
Ora, è proprio questo concetto che la cultura moderna ha dimenticato, seppellito, rifiutato: la cultura moderna nasce da una ribellione contro il timor di Dio, dunque era inevitabile che imboccasse, fin dall’inizio, la discesa agli inferi della stoltezza, cioè dell’aver abbandonato la via della sapienza; era inevitabile, quindi, che giungesse, di gradino in gradino, sino alla follia. E che noi siamo immersi in una società impazzita, in una vera e propria contro-civiltà, nella quale il bene si è rovesciato nel male, e così il vero nel falso, il giusto nell’ingiusto, e il bello nel brutto, lo prova il fatto che non sono in molti, ormai, a rendersene conto: prova paradossale, prova a contrario; ma prova tanto più impressionante, perché è proprio della follia, di una lucida follia, progredita e tecnologica, non riconoscere più se stessa e non saper interpretare le palesi manifestazioni della sua dissociazione, del suo squilibrio, del suo feroce e masochistico nichilismo.
Se noi siamo contro noi stessi, chi ci salverà? Se l’uomo moderno ha costruito il regno dell’anti-umanità, come potrebbe più trovare l’uscita dal labirinto? Eppure, guardandoci attorno, vediamo ovunque moltiplicarsi i segnali di questa implacabile, delirante volontà di auto-annientamento, che non sa nemmeno riconoscersi come tale: li vediamo perfino nella medicina, nella psicologia e nella psichiatria, le quali dovrebbero, in teoria, fornire un qualche rimedio ai nostri mali, darci una qualche forma di sollievo, una speranza di guarigione. Del resto, è tutta la società moderna che tende a riprodurre la pazzia nei suoi stessi figli: fin da bambini, li sottopone a un pazzesco bombardamento a base di consumismo, volgarità, violenza, erotismo, egoismo eretto a sistema e indifferenza per il mondo intero, purché le ambizioni individuali arrivino a realizzarsi. Come meravigliarsi, in tali condizioni, che tutto il tono della nostra vita tenda a peggiorare a velocità impressionante; e che la sfiducia, l’isolamento, il pessimismo, si insinuino anche negli animi più saldi e nei cuori più intrepidi?
Nel giro di una o due generazioni, la nostra società ha “bruciato” certezze secolari, ha gettato nel cestino della spazzatura tesori di saggezza e di esperienza accumulati dai nostri avi, sostituito una pedagogia collaudata, una istruzione efficace, una scala di valori che avevano sorretto le relazioni sociali da tempo immemorabile, con uno sperimentalismo sgangherato e caotico, con un avventurismo incosciente, con una demolizione sistematica e consapevole di ogni punto di riferimento, con la scusa della “libertà” astrattamente intesa; del progresso, il grande idolo che tutto autorizza e tutto giustifica; e, naturalmente, dei “diritti”, vero e proprio culto narcisista con cui l’individuo glorifica se stesso, a scapito di ogni altra cosa. Se i nostri nonni tornassero qui, fra noi, non solo non riconoscerebbero più il volto esteriore del nostro mondo, ma non capirebbero nemmeno quel che siamo diventati: noi saremmo, per loro, dei perfetti marziani.
La stoltezza, dunque, è l’allontanamento dell’uomo da Dio; il rifiuto di conoscerlo, adorarlo e servirlo; il rifiuto, inoltre, della condizione di creatura e la pretesa di essere qualche cosa di più sul piano ontologico, di essere il padrone se stesso, pienamente autosufficiente e pienamente libero, proprio come vollero essere Adamo e d Eva allorché, dietro istigazione del serpente, disobbedirono a Dio, mossi dall’invidia e dalla gelosia nei suoi confronti. La stoltezza consiste nel non riconoscere i propri limiti; nel non riconoscerli in senso assoluto, ossia di non riconoscere il limite. Non questo o quel limite; ma pensare, parlare e agire come se l’uomo fosse quell’essere che sa andare sempre oltre se stesso, illimitatamente, fissando da sé la propria meta, e senza riconoscere alcun debito, alcun legame, alcun obbligo nei confronti di nessun altro.
Un individuo non può vivere bene, né avere un rapporto armonioso con se stesso o con gli altri, se vuol essere più di quel che è: si troverà sempre sospeso sul ponte sdrucciolevole della nevrosi; sarà sempre angosciato dal timore di non riuscire, di fallire, di venire smascherato – o di restare deluso di sé. E, se è così per l’individuo, a maggior ragione lo è per una famiglia, per un gruppo, o per l’intera società. La società moderna vive costantemente proiettata oltre se stessa, nella impossibile impresa di darsi da sé il proprio statuto ontologico: ma sarebbe la stessa cosa che pretendere, per un campo, di darsi da se stesso la pioggia di cui ha bisogno per vivificare la propria terra e la propria vegetazione, e per poter dare frutti. La pioggia non dipende dal campo; non dipende dal campo decidere che essa cada, e quando, e in quale misura. Allo stesso modo, la società non può darsi da sé la propria misura: perché è fatta di uomini, e gli uomini non possono darsi da sé la propria misura; al contrario: il senso della loro vita sta proprio nel delineare il limite che la distingue dalle altre vite, che la rende unica e irripetibile, che la rende se stessa e nient’altro. Ogni cosa finita, per essere se stessa, ha bisogno di limiti. Una famiglia, pur intrattenendo rapporti amichevoli con tutti gli altri, deve avere un limite: deve sapere chi ne fa parte stabilmente, e chi no; una squadra di calcio, una cordata di alpinisti, il personale di un ufficio, l’equipaggio di una nave, un reparto dell’esercito impegnato sul campo di battaglia: per tutti è essenziale sapere quali sono i propri limiti, fin dove si può arrivare, su chi si può contare; e dove si è da soli, non ci si può aspettare altro, non si può fare affidamento su chi che non fa parte del gruppo.
Uno stato, per esempio, ha bisogno di confini, e anche di qualcuno che li sorvegli: niente confini, niente stato, ma un luogo aperto e indifeso, dove chiunque può andare e venire, senza dover rendere conto di nulla. Oggi è di moda parlare male dei confini, affermare con disinvoltura che bisogna gettare ponti e non alzare muri: ma non è vero. I muri servono a proteggere e difendere ciò che si ama, purché, beninteso, non diventino una prigione; i ponti potrebbero far entrare degli estranei male intenzionati, per cui è necessario avere la possibilità di controllarli, e, se necessario, essere anche capaci di tagliarli di netto: perché solo così si sarà in grado di far fronte ad un pericolo molto grave e immediato. Dunque, le cose sono ciò che sono perché hanno dei limiti: se non ci fossero i limiti, tutto si confonderebbe, non vi sarebbero oggetti, né persone, né opere d’arte, né alcun ente riconoscibile; e ciascun individuo sarebbe una molteplicità di sotto-individui, imprevedibili e innumerevoli, perennemente fluttuanti senza alcun ordine riconoscibile, fino a scivolare nella schizofrenia, nel caos totale. Non si può essere tutto e tutti: bisogna avere l’umiltà di essere, semplicemente, se stessi. Ma non basta che ci siano i limiti; bisogna che ci sia anche la consapevolezza dei limiti – dei propri limiti. Senza di essa, si vivrebbe costantemente nell’azzardo, nell’insicurezza, nel pericolo. Guai se ciascuno di noi non avesse il senso del proprio limite: e, infatti, gli individui che ne sono privi entrano continuamente in conflitto con gli altri o con le cose, e mettono continuamente in pericolo se stessi.
Nella società moderna vi sono due elementi che favoriscono e incentivano più che mai il rifiuto del limite da pare dei singoli, e che alimentano l’idea sbagliata e irragionevole che l’uomo moderno ha di se stesso: lo strapotere della tecnica, che porta con sé una fiducia illimitata nelle sue risorse, la quale viene poi arbitrariamente estesa anche agli ambiti che non sono affatto di pertinenza della tecnica, perché non sono di natura materiale; e una aggressiva cultura (o piuttosto sottocultura) dei diritti, basata sulla rivendicazione di sempre nuove sfere di sovranità da parte dell’individuo, che la società si vede costretta a riconoscere all’individuo in none di principi astratti e, sovente, artificiali, o artificialmente estesi, senza alcuna adeguata contropartita in termini di doveri e di assunzione di responsabilità, cioè, in pratica sotto la pressione di un ricatto emotivo e ideologico al tempo stesso. Sia detto fra parentesi, questo secondo elemento è quello che, sfruttato a dovere, sta consentendo alle minoranze d’imporsi sulla maggioranza e di dettare legge, non in virtù della loro forza, ma, paradossalmente, della loro debolezza, che viene appositamente esibita e che, appunto mediante l’esibizione, diventa prodigiosamente uno strumento pressoché irresistibile di vittoria. E, sia detto sempre fra parentesi, è questo perverso meccanismo che sta letteralmente svuotando di senso la democrazia, pur lasciandola sussistere come principio formale e come apparato esteriore; mentre, in realtà, la svuota dall’interno del suo significato e delle sue possibilità pratiche: poiché, una volta che la maggioranza debba sottostare a tutti i diktat delle minoranze, evidentemente non si potrà più parlare di democrazia, ma di una vera e propria dittatura, anzi, di un totalitarismo del politicamente corretto.
Così, l’uomo moderno da un lato pensa di avere il controllo degli stessi meccanismi della vita (aborto, eutanasia, bioingegneria, fecondazione artificiale, cambio di sesso mediante la chirurgia plastica e le cure ormonali), dall’altro si sente forte e inattaccabile perché, non appena rivendica un diritto beninteso, fra quelli politicamente coretti e cioè riconosciuti dall’establishment politico-culturale, in quanto funzionali ai poteri occulti che manovrano, oggi, l’intero ambito della civiltà mondiale -, si trova ad affondare la lama come un coltello nel burro e ciò gli dà un senso illusorio di onnipotenza. Illusorio, perché ogni passo avanti nell’esercizio dissennato dei diritti a senso unico equivale a un passo avanti sulla via dell’autodistruzione della società, cosa che finirà per vanificare non solo la “riscossione” dei diritti ideologici irresponsabilmente pretesi, ma anche quelli realmente naturali e legittimi, primo fra tutti il diritto alla vita e alle sue libere scelte, per esempio nel campo della salute e delle terapie mediche in caso di malattia: ambito nel quale già si profila una minacciosa controtendenza, ossia una pretesa crescente da parte delle pubbliche autorità ad invadere la sfera decisionale dell’individuo, imponendo vaccini obbligatori o criminalizzando forme di medicina alternative e naturali, il che equivale ad imporre la medicina “ufficiale” e accademica come la sola legittima e praticabile.
Il fatto che l’uomo modero abbia costruito, intorno a sé e anche, in larga misura, dentro di sé, un mondo squilibrato, a causa della pretesa di poter diventare altro da sé, di farsi creatore di se stesso e di lasciarsi alle spalle, come il bozzolo della farfalla, la propria natura creaturale, oltre a produrre, a sua volta, un rapporto squilibrato e patologico con le cose, con la natura, con l’ambiente e con gli altri esseri viventi, ha prodotto una specie di ansia permanente da prestazione, come un artista o un uomo d’affari che debbano sempre far vedere di essere in crescita, di poter fare meglio della volta precedente, di poter stupire tutti con dei risultati sempre più appariscenti. E non si tratta solo di questo; la sua ansia deriva anche da un’altra sorgente: da un segreto senso di colpa, perché, in qualche zona profonda della sua anima, l’uomo moderno sa di non essere dio, e sa di essere un miserabile usurpatore allorché tenta di diventarlo; per cui vive nel terrore e nell’angoscia di essere scoperto e di rivelarsi, agli altri ed a se stesso, nel bel mezzo della sua grottesca commedia, simile a una scimmia che tentasse di contraffare le movenze dell’essere umano. Anche questa è una conseguenza della perdita dell’amicizia con Dio, verso la quale non esiste cura possibile, dal momento che l’uomo moderno non è disposto neppure ad ammettere Dio come ipotesi di Qualcosa o Qualcuno che stia ontologicamente e spiritualmente al di sopra di lui.
Come uscire da questo vicolo cieco, come superare questo corto circuito? Non ci sono molte maniere; ce n’è una, una sola, la più antica, la più naturale e la più semplice: deporre il proprio folle orgoglio ai piedi di Dio, riconoscere la propria condizione creaturale, con tutti i suoi limiti, anzi, con tutto il suo limite, limite ontologico, appunto; e poi impegnarsi per conoscere, adorare e servire Dio, nel quale ogni cosa ritrova un significato, perché ritrova la propria origine e la propria meta finale. E così anche l’uomo, rientrato nell’amicizia con Dio, potrà ritrovare quel che gli manca, ciò di cui va disperatamente alla ricerca, senza mai trovarlo: un po’ di pace, di serenità, di amore, di bellezza, di giustizia, di verità; un po’ di armonia con se stesso e col mondo, invece della guerra continua; e la promessa di un bene ancora più grande, quando infine sarà caduta l‘ultima cortina…
«Tutta la sapienza è timore di Dio» (Sir. 19, 19)
di Francesco Lamendola
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