SIAMO TUTTI CHIAMATI
Siamo tutti chiamati sta a noi rispondere: tutti siamo chiamati ad amare Dio e il prossimo rispondendo alla chiamata universale. L’immensa frattura che si è venuta a creare fra la civiltà moderna e il progetto originario di Dio
di Francesco Lamendola
La vocazione: un tempo – sembra che sia trascorso un millennio, invece si tratta di pochi decenni – quando si parlava della vocazione, si intendeva, nove volte su dieci, la vocazione religiosa; nelle famiglie, ancora relativamente numerose, di una o due generazioni fa, si intendeva dire che un certo ragazzo o una certa ragazza avevano scelto d’intraprendere, rispettivamente, la via del seminario o quella del convento, qualche volta per partire come missionari, più spesso per dedicarsi alla vita consacrata là dove i loro superiori avessero deciso.
In effetti, almeno teoricamente, allora veniva insegnato che anche la via del matrimonio e della procreazione è una vocazione, tanto quanto lo è quella alla vita religiosa: tanto è vero che anch’essa viene pienamente attuata mediante l’accesso a un Sacramento: il Matrimonio, così come la vocazione religiosa si realizza mediante l’Ordine sacro. Sposarsi, mettere su una famiglia, avere dei figli, allevarli, educarli e prepararli alla vita, il tutto sotto la protezione di Dio, nella prospettiva di un impegno incondizionato, senza limiti di tempo, nella buona e nella cattiva sorte, sino alla fine: tale era il progetto di vita che si prospettava alla quasi totalità dei giovani che non sentivano, o non seguivano, la vocazione religiosa.
In altre parole, le strade erano sostanzialmente due: la vita consacrata o il matrimonio, anch’esso consacrato. Una terza possibilità esisteva, certamente, ma era considerata come un ripiego: infatti nessun giovane si prefiggeva, normalmente, qualche cosa di diverso dalla vita religiosa o dal matrimonio cristiano. Se ciò avveniva, quasi sempre si trattava di situazioni particolari, come quella di una figlia, o di un figlio, che decidevano di assistere, fino all’ultimo, i genitori anziani e malati, invece di collocarli in una casa di riposo. Se non vi erano motivi particolari, la scelta di restare soli, o, come si dice oggi - come se la parola inglese nobilitasse, di per sé, il concetto, single -, in effetti non era quasi mai una scelta, bensì un destino, subito con una certa amarezza, e motivo di una certa vergogna nei confronti degli altri, specie per la donna, che al mancato ruolo di sposa aggiungeva lo smacco del mancato ruolo di madre. L’atteggiamento della società era un po’ più comprensivo nei confronti dell’uomo celibe, anche se non privo, il più delle volte, di una certa bonaria ironia: il pensiero che si leggeva nei volti di amici e parenti, la domanda inespressa, era più o meno questa: Ma con tutte le brave ragazze che ci sono al mondo, possibile che costui non ne abbia trovata una che gli piacesse, e con cui mettere su famiglia? Insomma, l’idea largamente diffusa era che chi non si sposa, né sceglie la vita religiosa, deve avere un fondo di egoismo, deve essere una persona fredda, calcolatrice, incapace di donarsi, un po’ arida, probabilmente anche bisbetica. E, cosa ancor più importante per la storia della sociologia e del costume, a pensarla così erano, quasi sempre, anche i diretto interessati: infatti, gli uomini e le donne che “mancavamo” l’occasione del matrimonio, come pure quella della professione dei voti religiosi, vedevano se stessi in termini fallimentari, e rimpiangevano le occasioni perdute, non colte al momento giusto.
Ovviamente, dirà qualcuno, con il senno del poi (cioè di adesso), questa auto-svalutazione aveva a che fare con il giudizio negativo che la società dava dei rapporti pre-matrimoniali, e del fatto che, fino a non moltissimo tempo fa, una semplice convivenza fra un ragazzo e una ragazza, more uxorio, ma senza il vincolo matrimoniale, sarebbe apparsa pressoché inconcepibile. In effetti, però, è probabile che non si trattasse solo di questo, ma anche del fatto che la famiglia, allora, per quanto talvolta criticata, era vista pur sempre quale in effetti è, ossia come la società fondamentale; e, pertanto, era considerata riuscita, una vita che si realizzava attraverso il matrimonio, non riuscita, invece, una vita che restava chiusa in se stessa, senza l’assunzione della doppia responsabilità di essere sposi e di essere genitori, così come tutte le generazioni precedenti avevano sempre fatto. Nella seconda metà del Novecento, però, è accaduto un fatto nuovo e rivoluzionario: l’Italia è diventata un Paese industrialmente avanzato, la quinta potenza economica a livello mondiale; la civiltà contadina è sparita nello spazio d’un mattino, senza commiati e senza lacrime; e gl’italiani si sono trovati, quasi da un momento all’altro, a passare da uno stile di vita improntato alla frugalità, a quello tipico del consumismo, cioè del superfluo e dello spreco: cosa che ha prodotto anche sconvolgimenti psicologici, spirituali e morali di portata mai vista, primo fra tutti l’ingresso dei giovani, in quanto categoria distinta, nel circuito dei consumi di massa.
Non è questa la sede adatta per spingere oltre l’analisi; ci basti aver tratteggiato le linee essenziali del quadro: in una simile cornice storico-culturale, non solo l’idea della chiamata alla vita religiosa e quella della chiamata alla vita matrimoniale, ma l’idea della chiamata in se stessa, è andata praticamente smarrita nel giro di pochissimi anni. In altre parole, mano a mano che il cosiddetto benessere avanzava, livellava e appiattiva ogni aspetto della società, andava perduta l’idea stessa che ciascun uomo è chiamato a fare qualcosa, che ciascun uomo è il destinatario di una particolare chiamata - altrimenti detta, se considerata dal punto di vista interno, ma per esprimere lo sesso concetto - vocazione. Vocazione viene dal latino “vocare”, che significa “chiamare qualcuno per farlo venire”, o anche “chiamare per nome”, ed esprime l’idea dell’essere chiamati in modo personale. Ora, se si è chiamati in un tal modo, vuol dire che c‘è qualcuno che chiama, a meno che si tratti di una banale espressione retorica; e che colui che chiama conosce molto bene, tanto da chiamarlo per nome, colui che è chiamato. Dunque, si tratta della manifestazione visibile di una relazione, una relazione fra due soggetti; meglio: fra due persone. Questo è il vero significato della chiamata: a un animale domestico, a uno schiavo, si dà un ordine: Vieni qui; a un figlio, a un caro amico, invece, si rivolge un invito: Ti prego di venire, di me puoi fidarti. La chiamata, allora, non è solo una chiamata a presentarsi: è anche una testimonianza d’affetto e, nello stesso tempo, una rassicurazione e un impegno: Ti chiamo perché ti voglio bene; ti chiamo perché mi stai a cuore; ti chiamo perché desidero il tuo bene.
Non si chiama colui che ci è indifferente; non così, almeno, ma lo si chiama solo per bisogno, o per interesse. Dunque, noi siamo dei “chiamati”, perché Qualcuno ci sta chiamando; Qualcuno che ci conosce molto bene; Qualcuno che ci conosce fin da prima che nascessimo, fin da prima che fossimo concepiti, anzi, fin da prima che il mondo incominciasse ad esistere. L’Autore di tutte le cose, il Sole che dà luce all’intero universo, l’Intelligenza che penetra fino all’intimo del mistero di ogni singola anima, ci chiama: ci chiama per nome, perché ci conosce, e, conoscendoci, ci chiama in maniera conforme e perfettamente proporzionata alle nostre capacità, alla nostra indole, alla nostra essenza più profonda. Ogni essere umano è destinatario della chiamata, nessuno escluso: dunque, la mentalità tradizionale, che identifica la chiamata con la vocazione religiosa, o, al massimo, con la vita matrimoniale, è sbagliata. Piuttosto, occorre distinguere fra la chiamata universale e la chiamata particolare degli enti, cioè dei singoli esseri umani. La chiamata universale, rivolta anch’essa a tutti e a ciascuno, chiama ogni individuo ad essere ciò che deve essere in quanto uomo: perché l’uomo non è, semplicemente, colui che nasce tale, ma colui che lo diventa, realizzando le potenzialità umane che gli sono state date. In altre parole: mentre la tigre è, senz’altro, una tigre, e il cavallo, un cavallo, e la farfalla, una farfalla, l’uomo è colui che deve diventare uomo, che deve compiere un percorso, che deve realizzare un’evoluzione. Non tutti gli esseri umani sono realmente tali: molti ne hanno solo le apparenze, le sembianze esteriori; ma, nell’intimo, sono delle creature mancate, irrisolte, fallimentari. Diventare uomini è uno scopo, un impegno, uno sforzo: e il risultato non è mai certo. Se si vuole, l’uomo è un laboratorio, un progetto più che un risultato, perché alla sua riuscita sono necessari due elementi: la partecipazione della creatura e la grazia che il Creatore le concede, nel suo disegno amorevole, ma per noi misterioso. Con il proprio personale impegno e con l’aiuto della grazia, l’uomo diventa realmente uomo; senza di quello o di questa, rimane inesorabilmente qualche cosa di meno: una contraffazione, una statua solamente sbozzata, un dipinto non terminato.
Ma che cosa significa diventare uomo? Significa diventare quel che un essere umano deve essere, per essere veramente tale: portare a perfezione, nei limiti del possibile, la propria natura intelligente e spirituale, che ne fa, una volta realizzata, poco meno di un angelo. L’elemento decisivo, in quest’opera, è la libertà, senza la quale l’uomo non potrebbe realizzarsi, ma solamente essere realizzato, subendo passivamente, e ricevendo dall’esterno, l’opera del suo Creatore. Ma il Creatore ha voluto che l’uomo fosse libero, appunto perché lo voleva collaboratore della propria opera, e quasi amico, più che servitore, secondo le parole adoperate da Gesù stesso verso i suoi discepoli (Gv., 15, 14-17): Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi. Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda. Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri. Eletti da Dio e innalzati da Lui al livello della sua amicizia, gli uomini diventano qualche cosa di più, anzi, molto di più, che delle creature bipedi e dotate di ragione: diventano i collaboratori liberi e volontari della sua creazione, attraverso il ministero dell’amore. Dignità altissima, incomparabile, che non ha l’eguale in nessun’altra delle sue creature. E questa, che abbiamo brevemente ora descritto, è la chiamata universale, che non va confusa con la chiamata particolare.
La chiamata particolare è quella che ciascun uomo riceve da Dio, non in quanto uomo, ma in quanto individuo particolare, unico e irripetibile, diverso da qualunque altro che sia mai vissuto, che viva o che vivrà mai: è, per così dire, una chiamata ulteriore. Tutti sono chiamati ad amare Dio e il prossimo, rispondendo alla chiamata universale; e si tratta, in effetti, della stessa chiamata, cioè di una chiamata indifferenziata. Giovani e vecchi, sani e malati, colti e ignoranti, tutti sono chiamati a diventare uomini, attraverso il libero esercizio dell’amore filiale verso Dio, e dell’amore fraterno verso il prossimo. Ma il modo in cui si risponde alla chiamata, il modo in cui la si realizza, è diverso e particolare per ciascun singolo individuo: non vi sono due individui identici nel mondo intero, né mai vi sono stati o vi saranno; e così, allo stesso modo, non vi sono due chiamate particolari che siano identiche, perché la chiamata particolare è commisurata alla natura particolare di ciascun singolo individuo. La chiamata particolare, fermo restando il fine ultimo, che è l’amore, domanda a ciascun individuo di mettere a frutto i doni naturali della volontà, della memoria e dell’intelletto (che santa Caterina da Siena chiamava le tre porte dell’anima). Dunque, la chiamata particolare non è solo la chiamata al sacerdozio o al matrimonio: è la chiamata ad essere, in quanto singolo individuo, unico e irripetibile, quello che ciascuno di noi è chiamato ad essere. Ciascuno di noi è chiamato a diventare se stesso in una maniera sua particolare, secondo lo “stampo”, o idea, che Dio stesso ha di noi, e l’ha avuta sin da prima di creare il mondo: perché ciascuno di noi, singolarmente preso, è sempre stato presente alla sua mente e al suo amore ineffabile, prima ancora che il mondo incominciasse ad esistere.
Arrivati a questo punto, possiamo contemplare, in tutta la sua portata, l’immensa frattura che si è venuta a creare fra la civiltà moderna e il progetto originario di Dio riguardo alla sua creatura prediletta: cioè all’uomo in quanto uomo, e ai singoli uomini in quanto creature uniche e irripetibili. Per udire la voce della chiamata, infatti, ossia la voce di Dio, è necessario che l’anima sia affinata e addestrata, per così dire, a fare silenzio in se stessa, e a rivolgere la sua attenzione principale non alle cose di quaggiù, per quanto legittime e necessarie, ma alla dimensione divina, cioè alla vita soprannaturale, che è parte integrale della natura umana. L’uomo, infatti, ha una doppia natura: per un lato è una creatura della terra, ma per l’altro è una creatura celeste. Ora, la civiltà moderna nasce appunto da un progetto intenzionale e deliberato di rivolta contro Dio, e la sua caratteristica più appariscente è proprio la cura che essa mette nel soffocare, con i suoi rumori incessanti, la voce della chiamata divina. Nei rumori della civiltà moderna, nel continuo bombardamento di cose, di stimoli, di tentazioni, alcune veramente diaboliche, ma tutte, comunque, rigorosamente immanenti e contingenti, staccate dall’infinito e isolate dalla Sorgente della vita, è divenuto difficile udire l’essenziale. Ciò non significa che sia impossibile: la grazia di Dio non smette di effondersi nell’anima nostra, se noi lo desideriamo con cuore sincero e se non ci stanchiamo di cercarlo, servirlo e amarlo, accordando la nostra volontà con la sua. Tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, Lui ve lo concederà. Queste parole di Gesù Cristo dovrebbero bastare a fugare ogni dubbio, ogni scoraggiamento e ogni tristezza, a dissipare ogni tetro pensiero. Coraggio, dunque! Nessuno è lasciato da solo, mai; ciascuno, assistito dal suo angelo custode, è sempre amato da Dio...
Siamo tutti chiamati, sta a noi rispondere
di Francesco Lamendola
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