LA PARABOLA "CAPOVOLTA"
Un punto fondamentale del Vangelo e della Rivelazione: chiedere scusa al fratello maggiore della parabola? Non si può fare del figlio prodigo un "eroe", Gesù non ha mai inteso dire che il peccatore è migliore di chi non pecca
di Francesco Lamendola
Il primo ad arrivarci, o, quanto meno, ad esplicitare la sua perplessità, è stato il padre domenicano Riccardo Barile, il quale, con un articolo apparso su La Nuova Bussola Quotidiana del 09/10/2017, ha svolto una riflessione intitolata Chiediamo scusa al fratello maggiore della parabola. Invitiamo tutti ad andare a leggerselo: è molto interessante e molto attuale. Egli nota, opportunamente, che il significato della parabola evangelica del padre misericordioso, di solito conosciuta come parabola del figlio prodigo, non può essere separato dal suo contesto; che essa è la terza, dopo quella della moneta perduta dalla massaia e della pecora smarrita dal pastore, sul medesimo argomento: la salvezza di quanti sono “perduti” per il Regno di Dio, ossia dei peccatori; e che Gesù, facendo questi tre esempi, rispondeva a una critica diretta dei farisei e degli scribi, i quali, avendo visto che pubblicani e peccatori si avvicinavano a Lui per ascoltarlo, si erano affrettati a mormorare: Costui accoglie i peccatori e mangia con loro, come riferito dal Vangelo di Luca (15, 2). Ora, se si omette questa circostanza particolarissima, e se si vuole assolutizzare l’elemento polemico che Gesù inserisce nella parabola, diciamo pure la sua deliberata forzatura di una situazione paradigmatica, allo scopo di replicare alle maligne e interessate insinuazioni dei suoi nemici, si finisce per stravolgere il senso della parabola stessa e per capovolgere l’insegnamento che Gesù, con essa, voleva dare ai suoi ascoltatori. Questa è la giusta osservazione di padre Barile: che non si può fare del figlio prodigo un eroe, né del padre misericordioso un padre ingiusto, il quale ignora la fedeltà e la bontà del figlio maggiore; né, soprattutto, fare di quest’ultimo il prototipo dell’invidioso, del subdolo, del meschino che non si rallegra per il ritorno di suo fratello.
Poiché riteniamo che qui sia in gioco un punto fondamentale del Vangelo e di tutta la Rivelazione divina, ci permettiamo di sviluppare ulteriormente la riflessione, ampliandone ancor più la portata di carattere generale. Padre Barile, assai giustamente, è preoccupato per la strumentalizzazione che esercitano quanti assolutizzano il significato letterale della parabola e non ne rispettano il senso, anzi, lo capovolgono addirittura. Egli precisa che il concetto centrale è il gaudio universale per la salvezza di un peccatore che si pente, e su questo non può esserci il minimo dubbio; dopo di che, è lecito nutrite molti e ragionevoli dubbi sull’onestà delle intenzioni di chi vuol far passare il fratello maggiore per quel che non è. Sul piano umano, infatti, è naturale che il fratello maggiore si rammarichi del fatto che suo padre, per lui, non avesse mai fatto alcuna festa, che non avesse mai allestito un pranzo con un solo capretto, mentre ora, per il fratello scioperato che è tornato a casa, dopo anni di assenza, durante la quale è stato lui, il maggiore, a mandare avanti la baracca, con fatica e sacrificio quotidiano, si prepara un banchetto col vitello più grasso; così come è naturale lo sconcerto di quegli operai che si vedono pagare un soldo per l’intera giornata di lavoro nei campi, mentre un soldo viene dato dal padrone anche a quegli operai che hanno lavorato poche ore soltanto, oltretutto quelle più fresche della sera. Ora, è vero che essi avevano concordato un soldo di paga, ma è altrettanto vero che le parole del padrone, davanti al loro mormorio, appaiono un po’ troppo severe, quasi sprezzanti: Forse che io non possa fare del mio denaro quello che voglio? Oppure siete invidiosi perché io sono buono? Prendete dunque la vostra paga e andatavene, perché io voglio dare anche agli ultimi quello che ho dato ai primi. Anche in quel caso, le parole di Gesù vanno contestualizzate: se non si tiene conto del fatto che Gesù era costantemente criticato dai farisei e dagli scribi per una sua presunta ed eccessiva familiarità coi peccati, che a quegli altri sembrava disprezzo della Legge, al punto che lo criticavano persino per aver guarito dei malati in giorno di sabato, si rischia di snaturare il senso delle sue parole. Egli non voleva dire che il Padre celeste è simile a un padrone capriccioso e imprevedibile, che dà molto a chi non merita, e dà poco, in proporzione, a chi ha ben meritato; al contrario, Egli vuol far capire che il metro di giustizia umano è troppo corto per penetrare il mistero della bontà divina, e che nessuno può presumere di giudicare, dall’esterno, ciò che è giusto agli occhi di Dio. Ed è talmente concentrato su questo concetto, che, quando un uomo lo apostrofa chiamandolo “maestro buono”, Egli reagisce, ribattendo:Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non il Padre che è nei Cieli. Come dire: la bontà appartiene a Dio solo; di quel che noi pensiamo, diciamo o facciamo riguardo ad essa, solamente il Padre celeste è giusto giudice, e noi dobbiamo rimetterci interamente al suo giudizio. Una cosa, però, è certa: Gesù non ha mai inteso dire che il peccatore è migliore di colui che non pecca; o che a Dio i giusti sono meno graditi, e meno cari al suo cuore, che non i peccatori. Si rilegga bene anche la parabola del figlio prodigo: viene detto che il padre, quando seppe che il figlio maggiore si rifiutava di entrare in casa, uscì lui per parlargli e, addirittura, per “supplicarlo”. E tanto dovrebbe bastare per chiarire che Gesù non intende presentare quel figlio come il prototipo dell’invidioso, e che si rende conto di come sia delicato, per un padre, far capire a due figli così diversi che li ama entrambi e che non fa preferenze, ma, semplicemente, che gioisce per la salvezza del figlio che credeva perduto. Chiunque sia genitore e abbia almeno due figli, o due figlie, di temperamento assai diverso fra loro, sa molto bene di che cosa stiamo parlando, e non sottovaluta la complessità delle dinamiche relazionali che si vengono a creare.
In ogni caso, oggi siamo in presenza di una situazione nuova e paradossale: il senso delle parole di Gesù viene forzato oltre ogni limite, per accreditare una interpretazione inedita e “rivoluzionaria” del Vangelo: cioè per colpire i sostenitori della vera dottrina cattolica, per screditare e biasimare quanti si tengono stretti fedelmente ad essa, dipingendoli come delle persone “rigide”, “chiuse”, “egoiste”, poco misericordiose, e per fare dei peccatori i veri detentori della Verità divina. Qui siamo in presenza diuna malizia veramente diabolica: l’affermazione di Gesù, che i pubblicani e le prostitute precederanno gli scribi e i farisei nel Regno dei Cieli, viene strumentalizzata per fargli dire che i peccatori andranno in Cielo, ma senza pentimento, come gli omosessuali e le prostitute del blasfemo, orribile affresco del duomo di Terni, voluto, commissionato e profumatamente pagato da monsignor Paglia, quand’era vescovo di quella città (e che, infatti, se n’è andato lasciando le casse diocesane in rosso), ed eseguiti da un pittore argentino, tale Ricardo Cinalli, dichiaratamente omosessuale, nonché militante LGBT. Lì si vede il Cristo medesimo (un Cristo rappresentato in maniera insopportabilmente oscena, con le pudenda in vista) che sta portando in alto i peccatori, verso la gloria celeste, entro una rete da pesca, mentre la scena viene osservata da angeli che paiono dei demoni, tanto è torvo e inquietante il loro aspetto: ma non vi è traccia di pentimento sui volti di quelle persone, al contrario, esse continuano a toccarsi e ad accarezzarsi in maniera lasciva (e il bello è che, fra quelle persone, c’è anche l’autoritratto del monsignore in persona: contento lui, contenti tutti…), e dunque il messaggio che “passa” è che i peccatori vanno in Cielo così come sono, senza pentirsi, senza cambiar vita, senza conversione, e ci vanno proprio in quanto peccatori, cioè legittimati e approvati nel loro peccato. Orribile stravolgimento della Verità rivelata: il Vangelo, secondo questa “versione”, diventa una specie di contro-rivelazione: non c’è bisogno di alcuna Redenzione, perché i peccatori sono già salvi, e sono salvi proprio perché Dio ama i peccatori. Ma allora Gesù Cristo, il Verbo Incarnato, che cosa è venuto a fare sulla terra? Poteva risparmiarsi la Passione, la Morte e la Resurrezione; poteva risparmiarsi tutto ciò, perché non vi era alcuna necessità che Egli soffrisse, morisse e risorgesse dal sepolcro. La Buona Novella, secondo la teologia di Vincenzo Paglia, è che i peccatori sono già salvi fin da ora; e i transessuali come Luxuria, nell’idea del cattolicesimo che hanno i vari don Andrea Gallo, sono le pecorelle predilette del Signore, meglio se si trasformano in attivisti dei movimenti LGBT, e vanno per gli asili e le scuole a insegnare ai bambini la bella ideologia gender, nel qual caso Iddio li ama ancora di più. E d’altronde, chi siamo noi per giudicare?
Il trucco da quattro soldi sotteso a questa incredibile deformazione del Vangelo, del vero Vangelo del nostro Signore Gesù Cristo, è sorvolare il “piccolo” dettaglio che Gesù, sì, amava i peccatori, come il padre misericordioso amava il figlio traviato: ma perché soffrivano entrambi al pensiero della loro rovina, e perché non cessavano di sperare e di pregare affinché si ravvedessero. Se si toglie il fatto che Gesù chiama tutti alla conversione e al pentimento, a cominciare da quanti sono più immediatamente in pericolo, come la pecorella che si è smarrita lontano dal gregge; se si sorvola su questo fatto, e si tace sull’ammonizione che Gesù rivolge alla donna adultera, dopo averla sottratta alle grinfie di quanti volevano lapidarla: Vai, e d’ora in avanti non peccare più; se si tace o si sorvola su quel e non peccare più, si capovolge completamente il significato del Vangelo, cioè della divina Redenzione. Eppure, è proprio quel che un clero modernista e una neochiesa progressista stanno cercando fare: e stanno cercando di farlo da parecchio tempo, particolarmente a partire dal Concilio Vaticano II. Tutto ha inizio con la dichiarazione Nostra aetate del 28 ottobre 1965, dedicata ai rapporti fra la Chiesa cattolica e le religioni non cristiane. È possibile che le intenzioni, almeno di una parte dei Padri conciliari, fossero buone: ma quel che ne è risultato è stato l’approvazione di un falso principio, cioè che la Rivelazione di Gesù Cristo non è il passaggio necessario e indispensabile verso la Verità e, quindi, anche verso la salvezza. In particolare, incomincia allora quel ribaltamento dei rapporti con il giudaismo che culminerà, ai nostri giorni, nell’esplicita dichiarazione che gli ebrei non hanno necessità di convertirsi, riconoscendo la divinità di Cristo, perché l’Antica Alleanza è ancora valida: ma se se le cose stanno così, ripetiamo, Gesù Cristo che cosa è venuto a fare? Egli è venuto nel mondo per la salvezza di tutti gli uomini: segno che tutti gi uomini sono bisognosi della sua Redenzione, nessuno escluso. Tanto meno sono esclusi quanti, o perché peccatori, o perché seguaci di altre religioni, rifiutano il Vangelo e ne sono lontani, negano la divinità di Gesù, negano la morale insegnata da Lui. Come! Dopo duemila anni di Magistero, il quale incrollabilmente, sul solidissimo, duplice fondamento della Tradizione e della Scrittura, ha sempre asserito che nulla salus extra ecclesiam, non vi sono altre strade per la Verità e la salvezza, adesso un certo clero viene a dirci che le strade sono tante, compresa l’adorazione del dio Ganesha, con la testa di elefante, trionfalmente invitato ad “entrare” in una chiesa dal parroco in persona, per la gioia, si fa per dire, non solo dei suoi adoratori induisti, ma anche dei cattolici?
Chiedere scusa al fratello maggiore della parabola?
di Francesco Lamendola Dell'11 Ottobre 2017
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A CIASCUNO IL SUO DIO
A ciascuno il suo dio (e i suoi diavoli). La matematica è dio? Un dio abbastanza democratico da offrirsi a tutti ma anche abbastanza aristocratico da concedersi a pochi? L’offensiva del diavolo contro la Verità e contro Cristo
di Francesco Lamendola
L’altro giorno passavo accanto a un gruppo di persone, tutti insegnanti di matematica; stavano parlando fra di loro, raccolti in cerchio, e si vedeva che non erano le solite chiacchiere indifferenti, ma che stavano facendo un discorso serio. In un momento di silenzio, proprio mentre sfioravo il gruppo, uno di loro se ne uscì, con aria estatica, con queste parole: Ah, per me la matematica è dio! La frase mi ha colpito e non ho smesso di ripensarci.
Che bello, penserà qualcuno: ecco finalmente qualcuno che crede nella propria professione, che la prende con estrema serietà; magari tutti quanti facessero la stessa cosa, ciascuno nel proprio ambito lavorativo. Mi sembra, al contrario, che vedere le cose sotto questa luce sia del tutto sbagliato e fuorviante; il concetto espresso in quella frase racchiude ben altro: la divinizzazione di una scienza umana, la matematica; peraltro, la più prestigiosa di tutte le scienze – che formano, a loro volta, la più prestigiosa di tutte le forme di sapere - della quale, guarda caso, colui che la divinizza, è anche l’esperto, il tecnico, e quindi, se la matematica è “dio”, egli è il suo sacerdote e anche, perché no, il suo profeta. Immagino che sia bello sentirsi il profeta di una nuova religione di salvezza: è una cosa che gratifica, che fa sentire importanti, o meglio, insostituibili. Meno male che ci sono i professori di matematica, allora, che c’introducono alla verità della nuova religione e che ci spiegano, almeno fino a un certo punto, i misteri di “dio”. Ma in effetti non si tratta di misteri, bensì, semplicemente, di problemi: i problemi della matematica, appunto. E mentre i misteri sono destinati a rimanere tali, perché quella è la loro natura, i problemi, prima o poi, si risolvono. Anche questo, per un certo tipo di persone, deve essere simpatico e gratificante: sentire di avere in sé stessi l’intelligenza necessaria e sufficiente per sciogliere i problemi della nuova “teologia”, per penetrare nelle sue pieghe, per divenire simili a dio, di stare alla pari con lui. Un dio del quale si risolvono i problemi, è un dio alla nostra portata, un dio democratico, che piace molto alla gente; e un dio che si lascia “risolvere” dagli intelligenti, mediante l’intelligenza, è un dio che piace appunto agli intelligenti, perché essi sanno che non tutti sono capaci di innalzarsi a quel livello. È un dio abbastanza democratico da offrirsi a tutti, ma anche abbastanza aristocratico da concedersi a pochi: ai professori di matematica, per esempio.
Immagino che i professori di scienze naturali abbiano altrettanto diritto di pensare che dio sia la natura; e i professori di storia, di pensare che dio sia la storia; i professori di filosofia, che dio sia il pensiero; i professori di educazione musicale, che dio sia la musica; e così via. Ciascuno assolutizza e divinizza quel che conosce, quel che gli è familiare, quello di cui apprezza la bellezza e le altre qualità. Per un grande chef, dio sarà, probabilmente, l‘arte della cucina; per un apicoltore, dio sarà l’ape (o magari il miele); e per un calzolaio, dio sarà la scarpa, oh, ma non una scarpa qualsiasi, bensì la Scarpa ideale ed eterna. E così, un poco alla volta (anzi, piuttosto in fretta), l’uomo contemporaneo, così fiero della sua civiltà moderna, sta ritornando da dove erano partiti i popoli primitivi: all’adorazione dei feticci, magari teriomorfi. Come per un antico egiziano era giusto adorare un dio dalla testa di sciacallo, o un altro dalla testa di coccodrillo, e come per un aborigeno era giusto e naturale adorare il cielo, le nubi, la pioggia, le sorgenti: a ciascuno il suo dio, e a ciascuno i suoi diavoli. Jean-Marie Vianney, il santo curato d’Ars, ebbe a dire, una volta, una grandissima verità, ma una verità estremamente inquietante: Lasciate una parrocchia senza prete per vent’anni, e quegli uomini finiranno per adorare le bestie. Come ne Il signore delle mosche di William Golding, dove una tribù di ragazzini rinselvatichiti finisce per adorare una testa di maiale putrefatta, che attira nugoli di mosche, e che esige un culto brutale e sanguinario, fatto di sacrifici umani. Proviamo a riflettere: c’è davvero tanta differenza fra un professore di matematica che adora la matematica come il suo dio, un gruppo di ragazzi selvaggi che adorano una testa di maiale, e una parrocchia abbandonata dal prete, che si riduce ad adorare le bestie?
Il fatto è che la relazione dell’uomo con Dio è parte integrante dello statuto ontologico della creatura umana; se viene mutilata da una cultura irreligiosa e atea, tale relazione, cacciata dalla porta, rientra dalla finestra, perché il bisogno di Dio è insopprimibile: però rientra male, sotto spoglie mostruose, irriconoscibili; rientra non per innalzare l’uomo verso il Cielo, cioè verso la Verità e la pace, ma per frastornarlo ulteriormente, per confonderlo, per accelerare il processo di alienazione, di autentica follia che lo sta possedendo, appunto a causa della impostazione materialistica della civiltà moderna. La civiltà moderna è nata da una deliberata ribellione contro Dio e dal progetto consapevole di porre al suo posto qualcos’altro, un principio puramente umano; essa è nata come un disegno per distruggere il cristianesimo e per estromettere per sempre il Vangelo dalla coscienza e dalla memoria degli uomini. Il tentativo più rozzo, in questo senso, è stato quello del comunismo, che non ha dato buoni risultati, visto che, non appena caduti i regimi comunisti, i cristiani sono usciti dalle catacombe e hanno riempito nuovamente le chiese, o le hanno ricostruite; il tentativo più abile e subdolo è quello, tuttora in atto, di avvelenare il cristianesimo dall’interno, di svuotare il Vangelo, di capovolgere il suo insegnamento morale: è la strategia perseguita, finora con notevole successo, dai poteri occulti massonici, radicali e gnostici. Mai l’offensiva contro la Verità e contro Gesù Cristo era giunta così lontano, mai era arrivata a minacciare dall’interno, e in maniera così grave, l’opera della divina Redenzione. È il diavolo che vuol prendersi la rivincita, dopo la sconfitta patita sulla Croce: perché la Passione, Morte e Resurrezione di Cristo sono state la sua più grande sconfitta. Ora egli cerca la rivincita, e, da quel maestro di menzogna che è sempre stato, si serve di una subdola penetrazione entro la cittadella, per insidiare, senza averne l’aria, la Sposa di Cristo e vanificare i frutti della Redenzione.
La sete di Dio fa parte dell’anima umana; un’anima umana che non la sente, che non la prova, è stata anestetizzata e vivisezionata da una serie d’interventi maligni sapientemente diretti; sarebbe quasi come estrarre un cuore umano, lasciando tuttavia quella persona apparentemente in vita. Diciamo apparentemente, perché l’anima, privata di Dio, è ancora viva solo in apparenza. Si rileggano questi versi (2-8) del bellissimo Salmo 62:
O Dio, tu sei il mio Dio, all’aurora ti cerco,
di te ha sete l’anima mia,
e anela la mia carne,
come terra deserta, arida, senza acqua..
Così nel santuario ti ho cercato,
per contemplare la tua potenza e la tua gloria.
Poiché la tua grazia vale più della vita,
le mie labbra diranno la tua lode.
Così ti benedirò finché io viva,
nel tuo nome alzerò le mie mani.
Mi sazierò come a lauto convito,
e con voci di gioia ti loderà la mia bocca.
Nel mio giaciglio di te mi ricordo
Penso a te nelle veglie notturne,
tu sei stato il mio aiuto;
esulto di gioia all’ombra delle tue ali.
A te si stringe l’anima mia.
La forza della tua destra mi sostiene.
Ora, il punto è proprio questo: se la forza della destra di Dio sostiene l’uomo, colui o coloro i quali fanno in modo di togliere Dio dallo sguardo e dalla vita dell’uomo, secolarizzando la società o svuotando, dall’interno, la Parola di Dio, sino a trasformarla in un chiacchiericcio meramente terreno, da chi sarà sostenuto l’uomo, nelle battaglie della sua vita? Chi lo aiuterà a tenere lo sguardo rivolto verso le altezze, a far emergere la sua parte migliore? Chi lo salverà dal destino di sprofondare nel fango, nelle passioni disordinate, nei vizi più turpi, nella violenza e nell’autodistruzione? Perché questo è il destino dell’uomo che rimane senza Dio: scivolare nel fango, soccombere sotto il peso del male, che si trasmette di generazione in generazione in seguito al peccato di Eva e Adamo. Senza la Redenzione di Cristo, senza la presenza di Cristo, senza la santa Messa e il Sacrificio dell’Eucarestia, l’uomo è perduto. Bisogna dunque pensare che chi è interessato a togliere Dio dalla vita umana deve essere molto malvagio, deve perseguire una strategia veramente diabolica. Certo, la manovalanza di questa grandiosa operazione planetaria può anche essere formata da una schiera di volonterosi imbecilli, piccoli uomini e piccole donne bramosi di successo, potere, denaro e accecati dal frutto proibito della lussuria: perché, come diceva Ivan Karamazov, se Dio non esiste, allora tutto è permesso. E chi predica la liceità e la naturalezza del divorzio, dell’aborto, dell’eutanasia, delle libere unioni, della libera droga, dei matrimoni contro natura, della fecondazione eterologa e dell’utero in affitto, costui vuole trasformare il mondo nel cupo teatro delle sue dissolutezze e delle sue aberrazioni, per torre il biasmoche potrebbe colpirlo, se l’umanità conservasse un minio di senso morale. Si faccia un semplice ragionamento e ci si chieda a chi giovi un mondo senza Dio, un mondo dal quale il Vangelo sia stato sradicato, e nel quale la speranza cristiana sia stata soppressa, sostituendola con un edonismo radicale e con un luciferino orgoglio dell’uomo che vuol celebrare se stesso.
A ciascuno il suo dio (e i suoi diavoli)
di Francesco Lamendola
Dell'11 ottobre 2017
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