L'attacco frontale alla teologia di Joseph Ratzinger/Benedetto XVI da parte di Enrico Maria Radaelli e Antonio Livi, di cui ha dato notizia a inizio d'anno Settimo Cielo, ha originato un dibattito molto vivace.
Radaelli e Livi accusano Ratzinger di aver reinterpretato la fede cristiana "con gli schemi concettuali propri del soggettivismo moderno, dal trascendentale di Kant all’idealismo dialettico di Hegel", con il risultato di invalidare proprio "la nozione base del cristianesimo, quella di fede nella rivelazione dei misteri soprannaturali da parte di Dio". A loro giudizio, infatti, nella teologia di Ratzinger "questa nozione risulta irrimediabilmente deformata dall’adozione dello schema kantiano dell’impossibilità di una conoscenza metafisica di Dio, il che comporta la negazione delle premesse razionali della fede".
A questa imputazione di sostanziale eresia, Settimo Cielo ha già ospitato una prima replica, a firma di Antonio Caragliu.
E ora eccone una seconda, scritta da un magistrato di Roma che è anche apprezzato autore di saggi di filosofia e teologia.
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NÉ KANT, NÉ HEGEL. MEGLIO PAOLO AD ATENE
di Francesco Arzillo
Penso che la parte finale dell’indimenticabile discorso di Benedetto XVI al Collège des Bernardins di Parigi del 12 settembre 2008 possa offrire una chiave decisiva per comprendere sinteticamente – ma anche retrospettivamente – il nucleo vero del pensiero del “papa teologo”.
Ecco che cosa disse testualmente:
"Lo schema fondamentale dell’annuncio cristiano 'verso l’esterno' – agli uomini che, con le loro domande, sono in ricerca – si trova nel discorso di san Paolo all’Areopago. Teniamo presente, in questo contesto, che l’Areopago non era una specie di accademia, dove gli ingegni più illustri s’incontravano per la discussione sulle cose sublimi, ma un tribunale che aveva la competenza in materia di religione e doveva opporsi all’importazione di religioni straniere. È proprio questa l’accusa contro Paolo: 'Sembra essere un annunziatore di divinità straniere' (At 17, 18). A ciò Paolo replica: 'Ho trovato presso di voi un'ara con l'iscrizione: Al Dio ignoto. Quello che voi adorate senza conoscere, io ve lo annunzio' (cfr 17, 23). Paolo non annuncia dei ignoti. Egli annuncia Colui che gli uomini ignorano, eppure conoscono: l’Ignoto-Conosciuto; Colui che cercano, di cui, in fondo, hanno conoscenza e che, tuttavia, è l’Ignoto e l’Inconoscibile. Il più profondo del pensiero e del sentimento umani sa in qualche modo che Egli deve esistere. Che all’origine di tutte le cose deve esserci non l’irrazionalità, ma la Ragione creativa; non il cieco caso, ma la libertà.
"Tuttavia, malgrado che tutti gli uomini in qualche modo sappiano questo – come Paolo sottolinea nella Lettera ai Romani (1, 21) – questo sapere rimane irreale: un Dio soltanto pensato e inventato non è un Dio. Se Egli non si mostra, noi comunque non giungiamo fino a Lui. La cosa nuova dell’annuncio cristiano è la possibilità di dire ora a tutti i popoli: Egli si è mostrato. Egli personalmente. E adesso è aperta la via verso di Lui. La novità dell’annuncio cristiano non consiste in un pensiero ma in un fatto: Egli si è mostrato. Ma questo non è un fatto cieco, ma un fatto che, esso stesso, è 'Logos' – presenza della Ragione eterna nella nostra carne. 'Verbum caro factum est' (Gv 1,14): proprio così nel fatto ora c’è il 'Logos', il 'Logos' presente in mezzo a noi. Il fatto è ragionevole. Certamente occorre sempre l’umiltà della ragione per poter accoglierlo; occorre l’umiltà dell’uomo che risponde all’umiltà di Dio.
"La nostra situazione di oggi, sotto molti aspetti, è diversa da quella che Paolo incontrò ad Atene, ma, pur nella differenza, tuttavia, in molte cose anche assai analoga. Le nostre città non sono più piene di are ed immagini di molteplici divinità. Per molti, Dio è diventato veramente il grande Sconosciuto. Ma come allora dietro le numerose immagini degli dèi era nascosta e presente la domanda circa il Dio ignoto, così anche l’attuale assenza di Dio è tacitamente assillata dalla domanda che riguarda Lui. 'Quaerere Deum', cercare Dio e lasciarsi trovare da Lui: questo oggi non è meno necessario che in tempi passati. Una cultura meramente positivista che rimuovesse nel campo soggettivo come non scientifica la domanda circa Dio, sarebbe la capitolazione della ragione, la rinuncia alle sue possibilità più alte e quindi un tracollo dell’umanesimo, le cui conseguenze non potrebbero essere che gravi. Ciò che ha fondato la cultura dell’Europa, la ricerca di Dio e la disponibilità ad ascoltarLo, rimane anche oggi il fondamento di ogni vera cultura".
In questi densi passi di quel discorso di Benedetto XVI, i cultori di filosofia e teologia possono ritrovare i mille complessi fili della questione della Rivelazione, quale si pone oggi nella mente di coloro che vogliano essere fedeli alla ricchezza del dato rivelato e della comprensione elaborata dal magistero della Chiesa, soprattutto nei due concili vaticani.
Questi concili vanno letti, come insegnava Leo Scheffczyk, secondo un criterio di stretta continuità – direi di reciprocità –, dal quale si può evincere che:
- da un lato, anche nel Vaticano I si trova il concetto dell’autorivelazione di Dio (DH 3004), che non è una novità del Vaticano II e che – preso in sé stesso – è più antico della ripresa che ne ha poi fatto l'idealismo filosofico in un diverso contesto di pensiero: se ne trova un riferimento, infatti, già in San Bonaventura;
- dall’altro lato, il Vaticano II va inteso nel senso che “le parole e le azioni operate da Dio comunicano anch’esse la verità e possono essere accettate con ragionevolezza nel loro senso solo come verità” (cfr. L. Scheffczyck, "Fondamenti del dogma. Introduzione alla dogmatica", Roma, Lateran University Press, 2010, pp. 82-83).
Nel discorso parigino di Benedetto XVI, assai fine ma anche molto concreto, si ritrova quindi "in nuce" veramente tutto. Vi è una comprensione realistica dei "preambula fidei". Vi è la domanda di salvezza. Vi è la ragione umana nelle sue varie forme e vi è il Logos/Avvenimento. Vi è la storia umana intrecciata con quella della salvezza.
Non vi si ritrova invece alcuna preliminare barriera di tipo kantiano o comunque di matrice irrazionalistica, pragmatistica o antimetafisica.
A quest’ultimo riguardo è opportuno rilevare che nel discorso “La fede e la teologia dei nostri giorni” tenuto in Messico, a Guadalajara, nel maggio 1996, l’allora prefetto della congregazione per la dottrina della fede Joseph Ratzinger non si limitava a criticare alcune forme di razionalismo neoscolastico, citando come “più fondata storicamente e obiettivamente la posizione di J. Pieper” (che era comunque un pensatore di matrice tomista), ma soprattutto, nel criticare le teorie relativiste di Hick, Knitter e di altri teologi, metteva in evidenza proprio il fatto che esse si fondano in ultima analisi “su un razionalismo che, alla maniera di Kant, ritiene che la ragione non possa conoscere ciò che è metafisico”; mentre invece “l'uomo possiede una dimensione più ampia di quanto Kant e le varie filosofie postkantiane gli abbiano attribuito”.
Inoltre, coerentemente con queste premesse, nel discorso al congresso internazionale sulla legge naturale promosso dalla Pontificia Università Lateranense il 12 febbraio 2007, papa Benedetto richiamò “un altro pericolo meno visibile, ma non meno inquietante: il metodo che ci permette di conoscere sempre più a fondo le strutture razionali della materia ci rende sempre meno capaci di vedere la fonte di questa razionalità, la Ragione creatrice. La capacità di vedere le leggi dell’essere materiale ci rende incapaci di vedere il messaggio etico contenuto nell’essere, messaggio chiamato dalla tradizione 'lex naturalis', legge morale naturale. Una parola, questa, per molti oggi quasi incomprensibile a causa di un concetto di natura non più metafisico, ma solamente empirico”.
Non a caso, del resto, il pensiero di Ratzinger è stato oggetto piuttosto – e direi prevalentemente – di una critica di segno “progressista”. Klaus Müller, in una pacata e densa lettura dell’opera del papa teologo, nel ripercorrere la questione del “platonismo” e della “ellenizzazione del cristianesimo”, sottolineò infatti come “Ratzinger non abbia mai sviluppato una relazione positiva e creatrice con il pensiero moderno” e in primo luogo con la grande stagione dell’idealismo tedesco (K. Müller, "Il teologo papa", in Supplemento a "Il Regno - Documenti" n. 3, 1 febbraio 2013).
Mi sembra che questi pochi cenni possano contribuire a riportare la "questione Ratzinger" sul giusto binario.
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