Cambiare la morale cattolica: è l’ora del ricatto. Hanno scoperto il segreto: "chiunque si metta a far la vittima di professione può ottenere qualunque cosa chieda" non è una tecnica particolarmente originale ma funziona sempre
di Francesco Lamendola
Non è una tecnica particolarmente originale, ma è una tecnica che funziona praticamente sempre: quella che fa leva sul ricatto morale e che pone l’interlocutore in una situazione di pressione psicologica, facendolo sentire responsabile di eventuali disastri, crimini, disperazioni e suicidi, se non si decide ad approvare, almeno in via di possibilità pratica, ossia come deroga al principio normativo, a ciò che, in perfetta coscienza, non si sente assolutamente di approvare; a ciò che, nel caso del clero cattolico, non è in suo potere approvare.
La morale cattolica non appartiene al clero, né ai vescovi o ai cardinali, e neppure al papa; non appartiene, mettiamolo bene in chiaro una volta per tutte, neppure ai teologi, e tanto meno ai teologi progressisti, buonisti, misericordiosi e bergogliani, anche se i teologi, di fatto, a partire dal Vaticano II e proprio con l‘evento del Vaticano II, si sono ritagliati un ruolo sproporzionato e illegittimo, da protagonisti assoluti, nella definizione della dottrina cattolica, e quindi anche della morale, ruolo che non spetterebbe a loro in alcun modo, che non è mai spettato a loro e che non rientra assolutamente nella normale prassi della Chiesa cattolica, in duemila anni di storia. La dottrina cattolica è il frutto diretto dell’insegnamento di Gesù Cristo ed è stata definita, una volta per tutte, dalle due fonti della Tradizione e della Scrittura, legittimamente interpretate alla luce del Magistero; e ciò vale, ovviamente, anche per la dottrina morale. A nessuno, neanche al papa, spetta la licenza di modificare anche un solo dettaglio, di togliere anche un solo mattone, di spostare anche una sola virgola della dottrina morale cattolica. Se qualcuno si permettesse di farlo, compierebbe un abuso gravissimo, nonché un atto eretico: e poco importa se le folle lo dovessero applaudire, lo dovessero salutare come un santo, come un benefico rinnovatore del messaggio evangelico. Non sono le folle a dettare la morale cattolica: essa viene da Dio e da Dio solo; e il cattolico è colui che si sforza di piacere a Dio, non agli uomini, né desidera compiacere se stesso. Inoltre, nel messaggio evangelico non c’è alcunché da rinnovare. Sono i protestanti che pretendono di leggere e interpretare liberamente le Scritture, ciascuno a modo suo; quanto alla Tradizione, non la considerano affatto, anzi, la rifiutano esplicitamente. È per questo che non ammettono il culto degli Angeli, dei Santi e di Maria Vergine: perché tale culto poggia sulla Tradizione, e, per loro, la Tradizione non conta, è una sovrastruttura ideologica creata in un secondo momento, una specie di abuso istituzionalizzato. Ed è per questo che certi settori della neochiesa modernista vorrebbero giungere a una stretta intesa con i protestanti, fino al punto di rivalutare sfacciatamente il ruolo “benefico” svolto dalla cosiddetta riforma, mentendo e sapendo di mentire: per spostare la dottrina sulle posizioni di Lutero e per giungere alla libera interpretazione della Bibbia, dopo aver eliminato, o messo fra parentesi, la sacra Tradizione. A quel punto, ogni abuso diventa possibile, e chiunque può venirci a dir di aver “rinnovato” il messaggio evangelico, magari con la motivazione - che è già presente nel nefasto Concilio Vaticano II – di esser giunto, meditando e riflettendo, a una migliore comprensione della Rivelazione e ad una più approfondita scoperta del Vangelo, nonché a una maniera più efficace, e più adeguata ai tempi, di annunciarlo al mondo moderno.
Ma come si fa a cambiare la morale della Chiesa, cioè la sua dottrina in materia di morale, senza dare apertamente scandalo? Con quale tecnica, con quali motivazioni? Come stavamo dicendo, una tecnica quasi infallibile è il ricatto morale: si tratta, per esempio, di dire a qualcuno: Se tu non accetti questa cosa, io mi suicido. E chi prenderebbe a cuor leggero la prospettiva di caricarsi un simile peso sulla coscienza? Chi non si sentirebbe terribilmente in colpa, se quel tale si ammazzasse per davvero? Naturalmente, con un ragionamento lucido e razionale, si potrebbe arrivare a dimostrare che quel suicidio non è avvenuto affatto per colpa nostra, ma perché costui cercava un pretesto plausibile e voleva scaricare su qualcun altro la responsabilità del suo gesto estremo; ma nessun ragionamento razionale, in simili casi, è sufficiente a placare il senso di colpa. Il senso di colpa non è il rimorso: il rimorso è ciò che si prova quando ci si rende conto di aver commesso un’azione cattiva; ma nel caso di cui stiamo parlando, noi sappiamo bene di non aver commesso alcuna azione cattiva: al massimo, potremmo rimproverarci di non essere stati disposti a venire a patti con la nostra coscienza pur di scongiurare una tragedia annunciata. Questo ci farebbe sentire in colpa, ma sarebbe una cosa diversa dal rimorso: diversa e, per molti aspetti, peggiore. Dal rimorso, infatti, prima o poi si può uscire, se ci si assume la responsabilità della propria azione e ci si rende disponibili ad espiare e a pagarne, fin dove possibile, le conseguenze. Ma al senso di colpa non c’è rimedio: si sa che nulla e nessuno potranno far sì che il suo morso si allenti, e che si resterà perennemente suoi prigionieri: è una gabbia della quale il custode ha gettato via la chiave, lasciandoci rinchiusi dentro, come le bestie feroci, a tormentarci con scrupoli di coscienza che non hanno soluzione, e per i quali non c’è via d’uscita.
Ora, come si fa a sdoganare il peccato della sodomia – peccato gravissimo, uno dei quattro peccati che gridano vendetta davanti a Dio, secondo l’insegnamento della Chiesa cattolica – e ad indurre il clero a rivedere, se non la dottrina, quanto meno la pastorale, in modo da mettere anche la dottrina davanti al fatto compiuto, così come ammettere qualche eccezione alla condanna dell’aborto volontario – nel caso di stupro, per esempio – apre fatalmente una breccia che poi sarà allargata da altri casi, sempre più frequenti, finché la proibizione verrà a cadere da sé, come un soffitto marcio, privato delle travi di sostegno? Padre Sosa Abascal, generale dei gesuiti, il cardinale Schönborn, arcivescovo di Vienna, e il vescovo Galantino, segretario della C.E.I., ci hanno provato, ciascuno con una sua strategia: il primo, mettendo in dubbio che noi sappiamo quale sia stato il giudizio di Gesù sugli omosessuali, dei quali non avrebbe mai parlato (il che è falso: cfr. Mt., 10,15); il secondo, sostenendo che la Chiesa non può lasciar sole numerose persone e numerose coppie omosessuali, le quali, comunque, esistono, dunque facendo leva sul principio di realtà; il terzo adottando la strategia più meschina e risibile, quella di negare la distruzione divina di Sodoma e Gomorra e così dare a intendere che, dopotutto, quel peccato non era particolarmente grave. Ma si tratta di strategie deboli, dal punto di vista della loro intenzione illecita – cambiare, anzi stravolgere, la dottrina morale della Chiesa riguardo alla questione dell’omosessualità – perché si rivolgono, in un modo o nell’altro, alla sfera razionale: cercano, cioè, di giustificare un eventuale cambiamento in base a delle motivazioni di ordine logico. La strategia vincente, che poi è quella tante volte adottata dal falso papa Bergoglio, consiste, invece, nel rivolgersi direttamente alla pancia, ai visceri delle persone, alla dimensione emotiva; e a incaricarsi di sviluppare una tale strategia è stato un altro gesuita, James Martin, molto seguito negli Stati Uniti – anche per via dei suoi interventi, fra un libro e l’altro, a spettacoli televisivi ed eventi mediatici tutt’altro che devoti o spirituali - e che, all’interno di quella chiesa (con la minuscola) è riuscito a spostare sensibilmente l’orientamento complessivo dei vescovi in senso filo omosessuale. Che cosa ha fatto, esattamente, padre Martin? Ha fatto varie cose, preparando il terreno con una lunga e sistematica campagna gay-friendly, che si è spinta sino a affermare che molti Santi del calendario, senza dubbio, erano gay; ma il colpo di genio, si fa per dire, è consistita nel buttarla sul patetico e sul ricattatorio; ha detto, in buona sostanza: il catechismo della Chiesa cattolica, così com’è, risulta insensibile e crudele, perché spinge le persone omosessuali al suicidio. Ohibò: come resistere, come difendersi sotto il fuoco micidiale di una simile bordata? Citiamo da Corrispondenza Romana del 08/01/2018:
Incredibile, ormai non v’è proprio più ritegno: nel corso di una recente intervista, Padre James Martin, nei mesi scorsi nominato dal papa Francesco consultore del Segretariato per le Comunicazioni della santa Sede, ha accusato il Catechismo della Chiesa Cattolica di contribuire al suicidio dei giovani Lgbt per il fatto di ritenere peccaminosi e intrinsecamente disordinati gli atti omosessuali. Certamente non si può chiedere al Catechismo di cambiare la Dottrina cattolica, che consiste nel definire le “relazioni omosessuali come gravi depravazioni”, “contrari alla legge naturale” ed “in nessun caso da approvarsi” (n. 2.357). Tuttavia, padre Martin “dimentica”, per così dire, di precisare come nel testo si leggano anche, pur nella chiarezza morale, parole di “rispetto, compassione, delicatezza” verso le persone con “tendenze omosessuali”, invitando ad evitare nei loro confronti “ogni marchio di ingiusta discriminazione” (n. 2.358), ma anche esortandole “alla castità” (n. 2.359).
Il che rende evidente la strumentalizzazione e l’impianto ideologico contenuto nelle affermazioni di padre Martin, peraltro coerente con i propri presupposti: la sua nomina da parte di papa Bergoglio fece infatti discutere, essendo il sacerdote un punto di riferimento della comunità Lgbt.
Cambiare la morale cattolica: è l’ora del ricatto
di Francesco Lamendola
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