Un brano preso dall’ultimo libro scritto da George Weigel, biografo e amico del Papa San Giovanni Paolo II, e che spiega bene i contrasti attualmente visibili all’interno della Chiesa. Riprendo questi brani dal Catholic Herald, proponendoli ai lettori di questo blog nella mia traduzione.
Sebbene il dramma del cattolicesimo e della modernità sia spesso descritto in termini di lotta tra tradizionalisti e modernizzatori, è più corretto pensare che si tratti di una gara a tre tra coloro che si impegnano a resistere alla modernità in tutte le sue forme, coloro che cercano un accordo con la modernità perché ritengono che essa abbia reso improbabili, se non false, le affermazioni e le pratiche della verità cristiana classica, e coloro che cercano di convertire la modernità ponendo le sue più nobili aspirazioni su un fondamento più solido e centrato su Cristo.
Le linee di frattura tra queste posizioni sono state evidenti in tutto il Vaticano II e hanno portato a una delle rotture più significative degli anni postconciliari. Quella spaccatura, che non era priva di spigoli retorici, non fu tra i teologi conciliari favorevoli alle riforme e il campo di coloro che le respingevano dell’arcivescovo Marcel Lefebvre e dei suoi seguaci tradizionalisti, ma avvenne all’interno del gruppo di teologi che avevano preparato il tavolo intellettuale per il Concilio e che ebbero la maggiore influenza sui lavori del Vaticano II. Non si trattava, in altre parole, di una guerra tra campi teologici diametralmente opposti, come quella che aveva portato alla Humani Generis. Fu una guerra civile all’interno del campo riformista.
L’occasione perché la differenza diventasse divisione, e poi baratro, avvenne a causa della creazione di una nuova rivista teologica. Il suo stesso nome, Concilium, comunicò il suo intento: doveva essere una rivista dei e fatta dai teologi conciliari riformisti che erano passati sotto l’esame del Sant’Uffizio negli anni Cinquanta, ma che venivano giustificati come periti (consiglieri teologici) al Vaticano II.
I primi co-editori della nuova rivista furono due dei più importanti riformisti teologici dell’epoca: il gesuita tedesco Karl Rahner e il domenicano fiammingo Edward Schillebeeckx. Rahner e Schillebeeckx erano ansiosi di coinvolgere i loro compagni riformisti periti nel progetto Concilium, e tra coloro che reclutarono c’era il gesuita francese Henri de Lubac, il più venerabile dei riformatori e un uomo che aveva sofferto notevolmente durante il freddo teologico degli ultimi anni di Pio XII. Così nel novembre 1963, verso la fine del secondo periodo conciliare, de Lubac accettò l’invito di Rahner a partecipare a Concilium. Meno di un anno dopo, nell’ottobre 1964, de Lubac scrisse a Rahner esprimendo la sua preoccupazione per la direzione che la nuova rivista avrebbe potuto prendere.
Come altri incontri ecclesiastici, il Vaticano II ebbe un’importante dimensione “esterna”. Conferenze, seminari e discussioni tra vescovi, teologi e altre parti interessate si tennero fuori dall’aula conciliare della Basilica di San Pietro, e ciò che avvenne all’esterno poteva avere un impatto significativo all’interno dei dibattiti conciliari stessi. Uno dei luoghi più importanti per queste discussioni extramurali è stato il Centro di Documentazione Olandese, dove padre Schillebeeckx tenne una conferenza in cui fece aleggiare l’idea che il mondo fosse sempre stato in un certo senso “cristiano” e che la rivelazione divina avesse reso esplicito quel cristianesimo tacito.
Come scrisse nel suo giornale del Concilio, de Lubac pensava che tale nozione fosse “un tradimento del Vangelo” e disse a Rahner che, se questa fosse stata la linea di Concilium, non poteva essere identificato con la nuova rivista. Rahner (che più tardi avrebbe scritto un influente e controverso saggio sui “Cristiani anonimi”) assicurò al suo confratello gesuita che Schillebeeckx stava parlando solo per se stesso, e che il suo era solo uno dei tanti punti di vista che Concilium avrebbe intrattenuto.
De Lubac fu temporaneamente rassicurato. Ma sette mesi dopo, il 24 maggio 1965 (cioè nel periodo compreso tra la terza e la quarta sessione del Vaticano II), scrive nuovamente a Rahner, affermando che i primi cinque numeri del nuovo giornale non avevano alleviato le sue preoccupazioni, che riteneva che Concilium fosse diventato uno “strumento di propaganda al servizio di una scuola estremista” fingendo che fosse “in linea con il Concilio”, e che, quindi, si stava dimettendo tranquillamente dal comitato editoriale della rivista. Fu la prima scaramuccia in quella che sarebbe diventata una “Guerra di successione conciliare” teologica negli anni successivi al Vaticano II.
De Lubac non era l’unico teologo conciliare che credeva che altri teologi, durante e dopo il Vaticano II, si fossero spinti così lontano nell’abbraccio della modernità intellettuale da svuotare il cattolicesimo del suo contenuto dottrinale, tradendo l’intenzione evangelica di Giovanni XXIII per il Concilio. I loro oppositori, naturalmente, negarono questa accusa e sostenevano di essere i veri eredi dello “spirito” del Vaticano II, che spesso definivano facendo riferimento a una serie selettiva di citazioni di Gaudet Mater Ecclesia [la dichiarazione di apertura del Concilio].
Nel 1969, de Lubac, l’oratore francese Louis Bouyer, il cileno Jorge Medina Estévez e il tedesco Joseph Ratzinger concordano di riunirsi durante la prima sessione a Roma della Commissione teologica internazionale, organo consultivo della Congregazione per la dottrina della fede, come Paolo VI aveva ribattezzato il vecchio Sant’Uffizio. Nel corso di un incontro organizzato e guidato dal teologo svizzero Hans Urs von Balthasar, essi discussero della possibilità di una nuova rivista teologica che mettesse in discussione l’egemonia intellettuale di cui godeva Concilium e i teologi ad essa associati. Scelsero il nome Communio, ricorda Ratzinger più tardi, perché la parola latina “communion” connotava una “coesistenza armoniosa di unità e differenza” che contrastava con la prospettiva ideologicamente ristretta di Concilium.
Il nome Communio avrebbe sfidato anche l’appropriazione del termine “communion” da parte dei progressisti cattolici che lo usavano per togliere importanza alla dimensione verticale o trascendente della Chiesa a favore di una Chiesa orizzontale e populista che funzionava più come un partito politico che come una comunità di discepoli in missione.
La “communion” della Chiesa, insistevano questi nuovi dissidenti teologici, doveva essere intesa in riferimento alla Santissima Trinità, una comunione dinamica di amore che si auto-dona e accoglienza. In assenza di tale vincolo, la comunione della Chiesa sarebbe stata intesa in termini meramente mondani o sociologici, e la Chiesa sarebbe diventata un’organizzazione di volontariato con interessi religiosi.
Quella comunione trinitaria – la vita stessa di Dio – è stata fatta conoscere all’umanità attraverso Gesù Cristo, per cui l’autentico rinnovamento della teologia nella e per la Chiesa e per la conversione del mondo, deve essere cristocentrico oltre che trinitario. Questo significava, a sua volta, che la Bibbia aveva un posto privilegiato nella riflessione teologica cattolica e nel rinnovamento della pratica pastorale cattolica. Perché nella Parola di Dio della scrittura la Chiesa continuava a riflettere sul mistero pieno del Verbo del Dio incarnato, Gesù Cristo. E per essere “immerso nella parola di Dio”, notò Ratzinger più tardi, doveva essere missionaria: raggiungere un mondo sviluppato sempre più pagano che tuttavia manifestava una sete del divino, anche se cercava di placare quella sete bevendo dai pozzi di molti falsi dei.
Forse, soprattutto, i teologi di Communio avrebbero “letto” il Vaticano II attraverso il prisma di tutta la tradizione cattolica – compreso il Vaticano I – e avrebbero così messo in discussione la nozione, a volte tacita e a volte esplicita tra i teologi di Concilium, che il Vaticano II abbia segnato una rottura con il passato. Intraprendere quel tipo di lettura del Vaticano II significava impegnarsi in una conversazione aperta, non basata su certi biglietti d’ingresso ideologici.
Il colloquio doveva essere internazionale, in modo che le culture si arricchissero a vicenda. E la conversazione doveva essere un’impresa creativa, non un’impresa che si limitasse a ripetere formule del passato come se la tradizione cattolica fosse stata congelata per tutto il tempo in un syllabus di proposizioni.
Negli anni postconciliari, la polemica tra i teologi di Concilium e di Communio a volte mostrò il grave odio teologico che in passato aveva rovinato i dibattiti intra-teologici almeno dal primo Concilio di Nicea del 325 (durante il quale San Nicola di Myra, che sarebbe poi diventato “il vecchio San Nicola”, o Babbo Natale, avrebbe dato un pugno al teologo Ario, che egli considerava eretico). Questa ferocia non era del tutto sorprendente: i pensatori orientati al Concilium avevano raggiunto un grande potere sulla vita intellettuale cattolica, si divertivano ad esercitarla e si erano risentiti della sfida di coloro che un tempo erano stati alleati, mentre i teologi di Communio sfregiavano l’egemonia dei loro ex compatrioti.
Nel XXI secolo, tuttavia, Communio veniva pubblicato in 15 lingue, e forse anche alcuni teologi di Concilium riconobbero quanto la rivista di cui si erano risentiti aveva contribuito alla diversificazione dei metodi e delle prospettive all’interno della teologia cattolica – proprio quello che tutti i teologi riformisti avevano chiesto quando erano sotto il controllo Romano (dell’ex Sant’Ufficio, ndr) negli anni Cinquanta.
Inoltre, e soprattutto per questo dramma, la sfida di Communio contribuì a realizzare i due atti successivi nel dramma del cattolicesimo e della modernità, incarnando la possibilità di una terza opzione per il terzo millennio della Chiesa: né una resa cattolica alla modernità né un rifiuto totale della modernità, ma la conversione della modernità, a partire da una critica dall’interno delle moderne premesse intellettuali.
Di Sabino Paciolla
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