«Piuttosto che essere assolto per un aiuto giudicato irrilevante, mentre è stato determinante, preferirei essere condannato. Altro sarebbe essere assolto per incostituzionalità del reato. Perché altrimenti si accetterebbe che solo chi è in grado di raggiungere la Svizzera può essere libero di scegliere». È quanto dichiarò Marco Cappato il 17 gennaio 2018 nell’udienza conclusiva davanti alla Corte d’Assise di Milano. Quella che all’epoca pareva una confessione spontanea, oggi assume i contorni di una lucida profezia. Dalle parti della associazione Luca Coscioni, di cui Cappato è il tesoriere, la chiamano «coraggiosa azione di disobbedienza civile».
ALLA CORTE DELLA MORTE SU APPUNTAMENTO I fatti sono noti. Un Dj, Fabiano Antoniani all’anagrafe, nome d’arte Dj Fabo, rimasto paraplegico e cieco dopo un incidente d’auto avvenuto nel 2014, nel gennaio 2017 chiede sostegno a Marco Cappato per andare in Svizzera a incontrare la morte e lo ottiene. L’8 novembre 2017 si apre così il processo contro Cappato incriminato per istigazione e aiuto al suicidio. Il 14 febbraio 2018 l’imputato viene assolto dall’accusa di istigazione, mentre per il secondo capo di imputazione, quello di aiuto al suicidio, la Corte d’Assise sospende il giudizio innanzi a sé per sollevare questione di costituzionalità sull’art. 580 del codice penale. Come dire: non è tanto importante che uno possa evitare le patrie galere per essersi adoperato a far suicidare un altro, quanto che d’ora in avanti tutti coloro che si accolleranno tale pietoso servizio restino impuniti per forza di legge.
La Corte Costituzionale in un primo momento, con inedito slancio creativo, invece di decidere sulla costituzionalità della norma, pensa bene di sospendere a sua volta il giudizio innanzi a sé, intimando al legislatore ordinario di modificare il codice penale entro il termine assegnato e secondo le direttive prestabilite. Poi, visto che il Parlamento lascia scadere l’ultimatum senza legiferare sul punto, provvede direttamente a mettere mano al sistema e, con sentenza, fa saltare uno dei baluardi posti dall’ordinamento a presidio del bene giuridico della vita, anticaglia fascista soppiantata da valori più attuali, tipo quello assorbente dell’autodeterminazione (che, applicato alla vita, significa il sacro arbitrio dell’individuo di fare di essa ciò che gli pare).
La Consulta accoglie dunque la questione sollevata dal giudice di merito e dichiara la (parziale) incostituzionalità dell’art. 580 c.p. (per la parte in cui non esclude la punibilità a determinate condizioni, guarda caso proprio quelle verificatesi nel caso Fabo/Cappato). Pubblica il dispositivo della sentenza il 24 settembre 2019, si accorge che c’è un refuso e il giorno seguente pubblica un’eccezionale errata corrige: «alla riga otto compare, invece della disgiuntiva “o”, la congiuzione “e”. Quindi l’espressione corretta […] è la seguente: “…fonte di sofferenze fisiche o psicologiche”». Che male c’è, tutti possono sbagliare, anche un supremo collegio giudicante, in fondo sono bazzecole: una vocale che potrebbe valere solo qualche milionata di casi in più.
Infine, la Corte d’Assise di Milano – ed eccoci al recente epilogo – prende atto della pronuncia della Corte Costituzionale e finalmente assolve Cappato con la formula “perché il fatto non sussiste”.
IL CERCHIO (FUNEBRE) È CHIUSO A FORZA Dunque, siamo partiti da una confessione dell’imputato di aver commesso il fatto, siamo arrivati alla sua assoluzione perché il fatto non sussiste. Passando per straordinarie acrobazie istituzionali e per altrettanto straordinarie capriole giuridiche eseguite ad altezze siderali.
Alla fine ce l’hanno fatta, nel tripudio di alcuni e nell’acquiescenza di tutti gli altri dettata dall’ignoranza mediaticamente indotta, madre del non-pensiero obbligatorio. In un mirabile “gioco di squadra”, come si usa dire negli ambienti democratici, è stato confezionato su misura un nuovo assetto penale sostanzialmente eversivo di principi fondamentali dell’ordinamento (divisione dei poteri, riserva di legge penale, certezza del diritto, e le altre solite bazzecole). Insomma, una manovra ad ampio raggio, ritagliata su un caso concreto che fa da volano universale a “beneficio” di volenti e di nolenti: la ricaduta sarà devastante e non risparmierà nessuno. L’importante era portare a casa il risultato, ad ogni costo. C’è chi può. E intanto la massa, privata ad arte dell’uso della ragione, plaude felice al proprio autoannientamento.
Dunque il suicidio è la nuova conquista di libertà. Ne discende che chi lo favorisce non deve essere punito, anzi, deve essere ringraziato, più in generale glorificato come campione di impegno umanitario. Ed ecco l’omaggio tributato a Cappato su Repubblica, l’emittente pubblica della premiata ditta Scalfari&Bergoglio. Francesco Merlo vi scrive: «Di nuovo un radicale ha cambiato l’Italia. Aiutare a morire non è più un reato per merito di questo radicale che, senza incarichi politici né vantaggi elettorali, a 48 anni si è messo fisicamente a rischio. Dunque nel nostro paese di vecchi, il suicidio assistito è finalmente un diritto, come il divorzio e come l’aborto». Non c’è nulla da aggiungere a questa sintesi perfetta sia della vicenda particolare sia della sua cornice ideale: una sintesi perfettamente integrata nel riformato catechismo trasversale oggi vigente, con i suoi nuovi dogmi, i suoi nuovi riti, i suoi nuovi santi.
LACRIME, APPLAUSI, PSICOPOMPI Nell’aula di giustizia, infatti, alla lettura della sentenza di assoluzione sono seguiti gli applausi. Come a teatro, come allo stadio. Come, oggi, in chiesa. Mica solo la madre o la fidanzata del suicida assistito – «Oggi mi chiederebbe di festeggiare» dichiara quest’ultima alle telecamere – o gli accoliti dell’assistente al suicidio, ma la gente tutta del Partito Radicale di Massa, gerarchia cattolica inclusa, volevano Cappato libero, acclamato eroe del nuovo diritto di scelta e dell’estremo saluto programmato. “Psicopompo” – accompagnatore di anime nell’aldilà – era l’epiteto di Ermete presso gli antichi, quando l’anima esisteva ancora, e pure l’aldilà.
Non dimentichiamo che in questo processo tutto speciale, un processo rompighiaccio con intervento ad personam della Corte Costituzionale, l’accusa stessa (il procuratore aggiunto Tiziana Siciliano e il pm Sara Arduini) chiedeva l’assoluzione dell’imputato. Ma le cronache di questo surreale processo ci hanno offerto un altro, estremo, colpo di scena: la morte, in bizzarra sincronia, della madre di Cappato, che ne è stato informato proprio durante l’udienza conclusa con la lettura della sentenza. Si è manifestata all’improvviso una sorta di Passione al contrario: il giudicato, assolto, esce dal tribunale senza croce e sopravvive a sua madre. Intanto flash, applausi, abbracci diffusi, clima di festa, pianti di commozione.
I radicali, del resto, hanno sempre offerto alla platea emozioni forti. Digiuni, litigi, arresti, distribuzione di droga in pubblico, bicchierate di orina, pornostar in Parlamento. Sanno bene qual è – e la cavalcano – la cifra ultima e unica della modernità, la sua sola vera matrice filosofica: l’utilitarismo. Ossia, come teorizzato da Bentham e da altri figli dell’Albione imperialista, il più ampio godimento possibile per il maggior numero di persone possibili, pazienza se a scapito dei più deboli e indifesi – i disabili, i feti, i bambini, gli anziani, i malati – titolari di una vita priva di apparenti qualità e perciò esposti senza rete all’arbitrio del più forte, alla prevaricazione del despota di turno.
L’UTILE E IL DILETTEVOLE È l’utilitarismo ciò che ha ucciso Dj Fabo. Nel circo mediatico, è stata scelta la figura più adatta alla bisogna, quella del Dj, icona dell’edonismo contemporaneo che si nutre di dischi, cocktail, luoghi esotici, abbronzature perenni, sesso con le groupie. Per chi intende la vita come festa permanente l’impedimento a parteciparvi diventa intollerabile; diventerà al contempo inconcepibile per chi gli sta vicino, e magari appetibile per chi avrà il compito di indirizzarlo verso la Svizzera terminatrice.
L’UTILE E IL DILETTEVOLE È l’utilitarismo ciò che ha ucciso Dj Fabo. Nel circo mediatico, è stata scelta la figura più adatta alla bisogna, quella del Dj, icona dell’edonismo contemporaneo che si nutre di dischi, cocktail, luoghi esotici, abbronzature perenni, sesso con le groupie. Per chi intende la vita come festa permanente l’impedimento a parteciparvi diventa intollerabile; diventerà al contempo inconcepibile per chi gli sta vicino, e magari appetibile per chi avrà il compito di indirizzarlo verso la Svizzera terminatrice.
Il paradigma utilitarista soggiace alla nostra società: Cappato e i suoi stanno solo facendo da levatrici definitive del nuovo corso. Overtonianamente, i radicali hanno fatto percorrere a ogni fenomeno moltiplicatore di morte, con la dedizione e lo stakanovismo dei missionari, tutti i gradini del cursus honorum: stavolta hanno preso il suicidio e lo hanno trasportato pian pianino dalla sfera dell’impensabile a quella del radicale (per l’appunto), per poi traghettarlo verso l’accettabile, il sensibile, il popolare, fino al passaggio risolutivo della legalizzazione, sfidando con spavalderia l’impianto consolidato delle leggi e perfino della Costituzione, grazie alla collaborazione decisiva dei suoi sedicenti custodi dagli stipendi a sei zeri. Hanno vinto.
Non possiamo nemmeno più parlare, oggi, di pendìo scivoloso. Quella che si apre è l’era del suicidio incluso nel diritto, e quindi del suicidio come diritto, e basta, non ci sarebbe nient’altro da dire. Se non che la macchina della morte mica si ferma qua, perché dietro l’aiuto al suicidio si affaccia lo spettro della soppressione – sempre pietosa, per carità – pure del dissenziente. Se la vita umana cessa di essere un valore in sé, la crepa che si apre nella sua tutela non può che evolvere verso scenari sempre più foschi e dal suicidio libero si scivola senza ostacoli all’omicidio legalizzato. E così, oltre che con l’aborto, la fecondazione in vitro, la droga libera, ci ritroviamo a dissanguarci di tasse per alimentare uno Stato-Moloch che “aiuterà” sempre più a uccidere i suoi figli. La trasformazione dello Stato – o meglio, del potere inafferrabile e smisurato che lo muove dall’alto – in sistema di autosterminio del proprio popolo è praticamente completa. E la chiesa invertita, nella sua maschera deforme e grottesca, copre gli inganni del potere di cui ha sposato il disegno, si prodiga a servirlo e venerarlo.
CAPPATO ASSOLTO, L’HANDICAPPATO TREMA Ma ora che Cappato è libero, l’handicappato dovrebbe tremare. Nel documento pubblicato in Usa dal National Council on Disability (NCD) si può leggere una lucida analisi dell’effetto del suicidio assistito legalizzato sulle persone con disabilità. Lo studio rivela che le garanzie sono inefficaci e che è carente il controllo su abusi ed errori. Cioè: le leggi sul suicidio assistito rappresentano un pericolo concreto per i disabili. Le associazioni a tutela degli handicappati lo ammettono: cominciano ad avere paura. Esaminando il caso dell’Oregon, dove la pratica è legale da 20 anni, si nota ad esempio come l’elenco delle condizioni che rendono ammissibile il suicidio assistito si sia allungato considerevolmente arrivando ad includere molte infermità che, se adeguatamente trattate, non provocano affatto la morte, come artrite, diabete o insufficienza renale.
In Europa sappiamo che le cose vanno persino peggio: in Olanda dal 2016 è in cantiere una legge che consenta di chiedere l’assistenza a morire perché ci si sente di aver completato la propria vita, a proporla fu nientemeno che il ministro della salute. La depressione, cioè, è un motivo sufficiente e valido per chiedere il Pentobarbital, e ottenerlo a spese del contribuente. E mica solo parliamo di vecchi: l’84% dei pediatri olandesi è favorevole all’eutanasia per i bambini tra 1 e 12 anni. La proposta è da poco sul tavolo del Parlamento dei Paesi Bassi. Al momento l’eutanasia attiva non volontaria è riservata ai neonati fino a 12 mesi, mentre i ragazzi tra i 12 e i 16 anni possono scegliere di farsi ammazzare con il consenso dei genitori. Intanto sempre più medici prescrivono farmaci con l’obiettivo esplicito di abbreviare la vita del paziente senza la sua esplicita richiesta. Lo ripetiamo, semmai fosse sfuggito: si diffonde il trattamento terminale non richiesto. È lì che si vuole andare a parare.
HITLER UNO DI NOI Ciò significa che il dottore ti ammazza, anche e soprattutto se non glielo chiedi, investito del potere dello Stato e della neo-medicina uniti nella simbiosi nazi-utilitarista per cui il malato, il difettoso, l’infelice, il debole, deve morire. Vale la pena di tenerlo sempre a mente: Hitler può aver perso la guerra militare, ma quella bioetica l’ha stravinta, anche perché altro non faceva che continuare quel pensiero eugenetico partorito e dilagato negli USA, nel Regno Unito, in Scandinavia. La società della morte è qui. Grazie a Cappato e al povero Dj Fabo la guardiamo direttamente in faccia sottoforma di spettacolo che, come una enorme pubblicità progresso prodotta con la partecipazione speciale dalla giustizia italiana sino ai suoi scranni più alti, macina audience, applausi, lacrime.
«Siamo tutti più liberi» commenta il protagonista (quello rimasto vivo). «È stata dura, ma ora anche i preti scrivono per ringraziarmi». Quanto ai preti, non avevamo dubbi. Hanno cambiato datore di lavoro e ce la stanno mettendo tutta per guadagnarsi stipendio, tredicesima e straordinari. Per il trattamento di fine rapporto si vedrà.
Non ci resta che pregare di stare sempre bene; di non avere a che fare con medici, che oggi alla faccia di Ippocrate hanno il potere di avvelenare e di uccidere, e di stare alla larga dagli ospedali, sempre più templi della morte, dall’inizio della vita (i feti frullati a pochi passi dal reparto maternità) alla sua fine preferibilmente prematura.
Lo Stato sterminatore è qui, venerato dalla neochiesa postribolare, e la sua nascita ufficiale è salutata con lanci di coriandoli nelle aule di tribunale, e squilli di trombette suonate da ogni istituzione.
Lo Stato sterminatore è qui, venerato dalla neochiesa postribolare, e la sua nascita ufficiale è salutata con lanci di coriandoli nelle aule di tribunale, e squilli di trombette suonate da ogni istituzione.
Un film di qualche anno fa, che dipingeva hollywodianamente l’instaurarsi di una tirannide, aveva azzeccato una battuta: «È così che muore la libertà: sotto scroscianti applausi». Ecco, solo che qui a morire non è solo un concetto, un sistema politico, un ideale. A morire ammazzati sotto scroscianti applausi saremo noi e i nostri figli.
Elisabetta Frezza e Roberto Dal Bosco 2 Gennaio, 2020
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