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lunedì 20 aprile 2020

Global CEI

IL DOCUMENTO
Cei, un primo maggio che fa a pugni con la realtà

Reso noto il tradizionale documento dei vescovi italiani per la festa del lavoro del primo maggio, si leggono tutte le tesi che vanno di moda nella Chiesa odierna, come la sostenibilità, il riscaldamento globale, l'immigrazione e la redistribuzione di ricchezza. Proprio quando il coronavirus ha dimostrato la loro inconsistenza.


                            L'ex Ilva di Taranto


E' stato reso noto il tradizionale documento dei vescovi italiani (per la precisione della Commissione episcopale per i problemi sociali e il lavoro) per la festa del lavoro del primo maggio. Si intitola “Il lavoro in un’economia sostenibile”. Il testo, dopo aver descritto perché si possa sostenere che dopo il coronavirus “nulla sarà come prima”, conduce una analisi del lavoro oggi alla luce della Laudato sì di papa Francesco, e infine chiede un impegno di tutti per un’economia sostenibile.

I termini e le espressioni adoperate dal documento sono quelle di moda nella Chiesa in questo momento e che, purtroppo, proprio per questo corrono il rischio di venire usate per riflessi condizionati come avviene per gli slogan: “scarto”, “sostenibilità”, economia “generativa”, “cittadinanza attiva”. Anche la visione di insieme è quella corrente e ricorrente oggi, con un legame posto come molto stretto tra economia e ambiente, specialmente con riferimento ai cambiamenti climatici e al riscaldamento globale. Si può dire che nel recente magistero non esista un documento che, qualsiasi sia il tema affrontato, non parli di clima e ambiente. Una volta si diceva che tutte le questioni passano attraverso la famiglia, oppure che vanno tutte ordinate al bene comune, oggi si tende a dire che il crocevia di tutte le questioni è il clima. Questo documento sul lavoro non fa eccezione e si adegua pienamente a questa compiacente tendenza. L’uso dei termini e delle espressioni è talmente allineato ai nuovi codici linguistici al punto che è possibile riconoscere dietro parole come l’aggettivo “generativo” o l’espressione “cittadinanza attiva” espressa negli acquisti, precise correnti di pensiero sociologiche ed economiche in voga oggi e perfino nomi e cognomi di singoli sociologi ed economisti.

Questo è l’impianto generale del testo… poi però c’è la questione Covid-19 e non risulta chiaro che rapporto ci sia tra questa emergenza che, come dicono giustamente i vescovi, tocca in profondità il mondo del lavoro, e l’epidemia da coronavirus. Tanto più che la pandemia viene qui considerata solo come una “vicenda dell’esistenza” (così nella prima riga del documento). Cosa c’entrano le cosiddette emergenze climatiche con la crisi del lavoro a seguito dell’epidemia? Tra l’altro, come esempio di questa connessione, il documento parla della crisi dell’Illva di Taranto che non sembra essere collegata ai cambiamenti climatici. Ripetutamente il documento prende spunto dall’emergenza pandemica attuale, per chiedere un'economia sostenibile capace di coniugare sviluppo economico, dignità del lavoro e rispetto dell’ambiente, ma non si comprende il nesso tra la situazione creata dal coronavirus e il rispetto dell’ambiente. L’epidemia, tra l’altro, mostra il lato pericoloso dell’ambiente naturale e chiede una sua realistica valutazione ben lontana dalle utopie ecologiste: l’uomo qui deve essere dominus e non solo custos.

Possiamo allora dire che il tema ambientale e, più in generale, dei cambiamenti climatici, sia stato inserito nel documento per “dovere d’ufficio”, ma che con il coronavirus c’entri poco o nulla. Per lo stesso motivo, però, non poteva mancare il tema dei migranti, argomento, questo, che addirittura si pone in contrasto con la situazione del lavoro in epoca di pandemia. Se l’intero Paese viene chiuso – e su questo i vescovi sono concordi, dato che hanno anche chiuso le chiese – perché si dovrebbe continuare ad accogliere migranti? Oltre al pericolo di nuovi contagi, c’è anche la prospettiva di una prossima diffusa disoccupazione dei lavoratori italiani che non è giusto sottoporre alla concorrenza di nuovi arrivati. Senza contare, poi, che si sta andando verso una fase di recessione generale dell’economia e le risorse da dedicare all’accoglienza fatalmente diminuiranno. Eppure i vescovi ritengono di fondamentale importanza l’accoglienza dei migranti anche in questo momento in modo da trasformare “le reti di protezione contro la povertà in strumenti che non tolgano dignità e desiderio di contribuire con il proprio sforzo al benessere del Paese”.

Tutti gli osservatori, anche se a proprio modo, mettono in evidenza la crisi della globalizzazione così come finora è stata attuata. La crisi da coronavirus è sì globale ma le risposte sono nazionali e locali (Unione Europea docet). Inoltre ci sono forze che contano proprio sull’epidemia per attuare i loro progetti di globalismo accentuato. Ma il documento dei vescovi torna a dire che siamo “fortemente interdipendenti ciascuno dall’altro, in un pianeta che è sempre di più comunità globale”: una valutazione che va in tutt’altra direzione rispetto alla realtà. L’epidemia in corso infatti dimostra esattamente il contrario, insieme ai pericoli (globalisti) insiti nel considerarsi “comunità globale”.

Per quanto riguarda la redistribuzione della ricchezza per una maggiore giustizia sociale, il documento punta sulle tasse, elogiando le “politiche fiscali progressive” e, implicitamente, condannando l’evasione. Ma le esigenze della realtà sono ben diverse: le tasse spesso finanziano le inefficienze statali, nelle epoche di crisi è piuttosto il sommerso a permettere la sopravvivenza, molte aziende chiuderanno o licenzieranno proprio perché non riusciranno a pagare tasse e contributi.

Leggendo il documento si ha l’impressione che sia stato abbozzato prima del coronavirus e che per questo contenga espressioni e valutazioni di moda nella Chiesa di scarso significato per la realtà. Poi si è tentato l’innesto dell’emergenza coronavirus. Ma l’innesto non è avvenuto e la pianta si è ammalata.


Stefano Fontana
https://lanuovabq.it/it/cei-un-primo-maggio-che-fa-a-pugni-con-la-realta

IL DOMINIO PLANETARIO DELLA FINANZA, DELLE FANDONIE E DELLA TECNOSCIENZA CON LE CHIESE SENZA POPOLO. LA PROFEZIA DI PEGUY, LA VOCE DI FINKIELKRAUT E LE SORPRESE DELLA GRAZIA… - Lo Straniero


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“Fino a ieri eravamo inebriati dall’eliminazione delle distanze. La fluidità, la mobilità, l’ubiquità, avevano sostituito i vecchi modi di abitare e pensare la Terra”, ha detto il filosofo Alain Finkielkraut a “Le Figaro”, riflettendo sul Covid-19.

“Lo sradicamento” ha aggiunto “sarebbe diventato la legge universale del mondo umano”. Poi è arrivato un virus e tutto sembra ribaltato, prevale la distanza: “il gesto fraterno ora è il gesto barriera… Riscopriamo la virtù delle frontiere”.

A un certo punto il pensatore francese fa una citazione di Charles Péguy, così torna alla memoria il primo incontro (mio e di tanti lettori italiani) con Finkielkraut.

Era il 1991 quando pubblicò da Gallimard un bellissimo libro su Charles Péguy, il grande convertito francese d’inizio ‘900 che in Italia aveva tanti lettori appassionati, fra noi giovani cattolici. Il volume s’intitolava “Le mécontemporain”, per la strana e provocante “contemporaneità” del poeta morto nel 1914.

Ma l’affascinante anticonformismo di Péguy poi ha contaminato proprio il pensiero del filosofo ex sessantottino che è diventato una delle poche voci da ascoltare, fuori dall’ottusità dell’ideologia e del conformismo “politically correct”.

In questi anni egli ha fatto risuonare parole care a Péguy, come identità, patria o radici spirituali. E lo ha fatto nell’orizzonte di quel pensiero ebraico che anche Péguy amava.
Già nel libro del ’91 su Péguy, Finkielkraut metteva in guardia da una “modernità” che – seguendo Péguy – riteneva un’“impostura”, all’insegna della “panmuflerie”, un neologismo coniato da Péguy che designa – più che la stupidità – un’intelligenza soltanto tecnica del mondo “con la sua infinita brutalità”.
Una rozzezza magari travestita da eleganza intellettuale, da accademica raffinatezza, ma che è solo “un dispositivo di calcolabilità totale”.
È quel nichilismo, quella desertificazione, per cui l’antico “homo viator”, espressione che nella tradizione biblica e medievale alludeva al mistero e alla fragilità dell’esistenza umana sulla terra, è stato sostituito da “un turista che ispeziona il mondo e che deambula nel supermercato dell’umanità”.
Un noioso “supermercato dei valori” dove la merce che riempie tutti gli scaffali è la retorica di quell’“umanesimo demiurgico” che poi è diventato la dittatura del relativismo e del “politically correct”. Nel 1991 si era all’inizio di quella globalizzazione che oggi, con il covid-19, sembra subire un colpo pesantissimo.


Finkielkraut doveva quell’intuizione a una pagina profetica di Péguy: “In questo tempo attuale un’umanità è venuta, un mondo di barbari, bruti e cafoni; più che la stupidità universale… una ‘panmuflerie’ senza limiti; un regno di barbari, bruti, di volgari; una materia schiava; senza personalità, senza dignità; senza profilo; un mondo non soltanto pieno di fandonie, ma che non produce che fandonie, e che inventa tutte le fandonie possibili, che trasforma tutto in una balla. E che infine ancora non si chiede ansiosamente se ciò sia degno, ma inquieto, vuoto, si domanda se è abbastanza divertente”.
Finkielkraut osservava che questa “collera di Péguy” non aveva previsto che un giorno perfino l’etica si sarebbe pensata e si sarebbe detta nei termini stessi della “panmuflerie”. Accade oggi e si spaccia questa “panmuflerie” per “lo stadio supremo della civiltà”.

Un’altra intuizione “profetica” di Péguy riguarda “l’argent”. Scriveva: “Noi siamo sotto il regno del denaro, esso è l’anticristo, il padrone onnipresente del mondo moderno”.
Idea che non va letta come pauperistica demonizzazione della ricchezza, ma come poetica intuizione di un tempo – ed è proprio il nostro, quello degli ultimi 30 anni di globalizzazione – in cui il “mercato” sarebbe diventato la divinità assoluta, che avrebbe sottomesso e stritolato gli esseri umani, i popoli e gli stati. Annettendosi pure la Chiesa. Dio è stato sostituito da altri dèi. Le sue chiese da altri templi pagani.

Come in una visione biblica, Péguy “vede” un panorama desolato che sembra corrispondere proprio ai nostri giorni senza più chiese apertee – per la prima volta in 2000 anni – senza messe e sacramenti“per la prima volta dopo Gesù, noi abbiamo visto, sotto i nostri occhi… un mondo, una società costituirsi, dopo Gesù, senza Gesù… quello che dà alla nostra generazione un’importanza capitale… è il governo del partito intellettuale nel mondo moderno”.
Péguy intuisce che “una singolare collusione si è realizzata, si realizza, tra la Chiesa e il partito intellettuale”. Che porta alla liquefazione del cristianesimo: “è attraverso questo modernismo del cuore e della carità che la Chiesa nel mondo moderno… non è più un popolo”.
Ma in questa terra desolata la vera malattia mortale non è il Covid-19. Questa “infermità”, dice Péguy, “non è debolezza soltanto, un’imbecillità diciamo ordinaria, ma un’angoscia, un’infermità profonda, essenziale, un’infermità intima, giusto al centro del meccanismo organico. Questa, figliolo, non è nient’altro che la sorte della creatura, nient’altro che la natura dell’uomo”.
Tuttavia – con un sorprendente rovesciamento – a questo punto Péguy afferma che proprio questa originaria ferita è la feritoia da cui può rientrare la Grazia, l’imprevedibile presenza del Salvatore: “da lì sempre la cristianità rientra e il gusto profondo della cristianità”.

Un cristianesimo carnale e popolare, concreto come la Cattedrale di Chartres dove Péguy prega:
“Ce ne han dette tante, o Regina degli apostoli
Abbiamo perso il gusto per i discorsi
Non abbiamo più altari se non i vostri
Non sappiamo nient’altro che una preghiera semplice”
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Antonio Socci
Da “Libero”, 19 aprile 2020

antoniosocci.com
Francesco I

https://gloria.tv/post/UBby2vqTAHQy4iMLdkkNdkoUs

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