Cei, un primo maggio che fa a pugni con la realtà
Reso noto il tradizionale documento dei vescovi italiani per la festa del lavoro del primo maggio, si leggono tutte le tesi che vanno di moda nella Chiesa odierna, come la sostenibilità, il riscaldamento globale, l'immigrazione e la redistribuzione di ricchezza. Proprio quando il coronavirus ha dimostrato la loro inconsistenza.
L'ex Ilva di Taranto
E' stato reso noto il tradizionale documento dei vescovi italiani (per la precisione della Commissione episcopale per i problemi sociali e il lavoro) per la festa del lavoro del primo maggio. Si intitola “Il lavoro in un’economia sostenibile”. Il testo, dopo aver descritto perché si possa sostenere che dopo il coronavirus “nulla sarà come prima”, conduce una analisi del lavoro oggi alla luce della Laudato sì di papa Francesco, e infine chiede un impegno di tutti per un’economia sostenibile.
I termini e le espressioni adoperate dal documento sono quelle di moda nella Chiesa in questo momento e che, purtroppo, proprio per questo corrono il rischio di venire usate per riflessi condizionati come avviene per gli slogan: “scarto”, “sostenibilità”, economia “generativa”, “cittadinanza attiva”. Anche la visione di insieme è quella corrente e ricorrente oggi, con un legame posto come molto stretto tra economia e ambiente, specialmente con riferimento ai cambiamenti climatici e al riscaldamento globale. Si può dire che nel recente magistero non esista un documento che, qualsiasi sia il tema affrontato, non parli di clima e ambiente. Una volta si diceva che tutte le questioni passano attraverso la famiglia, oppure che vanno tutte ordinate al bene comune, oggi si tende a dire che il crocevia di tutte le questioni è il clima. Questo documento sul lavoro non fa eccezione e si adegua pienamente a questa compiacente tendenza. L’uso dei termini e delle espressioni è talmente allineato ai nuovi codici linguistici al punto che è possibile riconoscere dietro parole come l’aggettivo “generativo” o l’espressione “cittadinanza attiva” espressa negli acquisti, precise correnti di pensiero sociologiche ed economiche in voga oggi e perfino nomi e cognomi di singoli sociologi ed economisti.
Questo è l’impianto generale del testo… poi però c’è la questione Covid-19 e non risulta chiaro che rapporto ci sia tra questa emergenza che, come dicono giustamente i vescovi, tocca in profondità il mondo del lavoro, e l’epidemia da coronavirus. Tanto più che la pandemia viene qui considerata solo come una “vicenda dell’esistenza” (così nella prima riga del documento). Cosa c’entrano le cosiddette emergenze climatiche con la crisi del lavoro a seguito dell’epidemia? Tra l’altro, come esempio di questa connessione, il documento parla della crisi dell’Illva di Taranto che non sembra essere collegata ai cambiamenti climatici. Ripetutamente il documento prende spunto dall’emergenza pandemica attuale, per chiedere un'economia sostenibile capace di coniugare sviluppo economico, dignità del lavoro e rispetto dell’ambiente, ma non si comprende il nesso tra la situazione creata dal coronavirus e il rispetto dell’ambiente. L’epidemia, tra l’altro, mostra il lato pericoloso dell’ambiente naturale e chiede una sua realistica valutazione ben lontana dalle utopie ecologiste: l’uomo qui deve essere dominus e non solo custos.
Possiamo allora dire che il tema ambientale e, più in generale, dei cambiamenti climatici, sia stato inserito nel documento per “dovere d’ufficio”, ma che con il coronavirus c’entri poco o nulla. Per lo stesso motivo, però, non poteva mancare il tema dei migranti, argomento, questo, che addirittura si pone in contrasto con la situazione del lavoro in epoca di pandemia. Se l’intero Paese viene chiuso – e su questo i vescovi sono concordi, dato che hanno anche chiuso le chiese – perché si dovrebbe continuare ad accogliere migranti? Oltre al pericolo di nuovi contagi, c’è anche la prospettiva di una prossima diffusa disoccupazione dei lavoratori italiani che non è giusto sottoporre alla concorrenza di nuovi arrivati. Senza contare, poi, che si sta andando verso una fase di recessione generale dell’economia e le risorse da dedicare all’accoglienza fatalmente diminuiranno. Eppure i vescovi ritengono di fondamentale importanza l’accoglienza dei migranti anche in questo momento in modo da trasformare “le reti di protezione contro la povertà in strumenti che non tolgano dignità e desiderio di contribuire con il proprio sforzo al benessere del Paese”.
Tutti gli osservatori, anche se a proprio modo, mettono in evidenza la crisi della globalizzazione così come finora è stata attuata. La crisi da coronavirus è sì globale ma le risposte sono nazionali e locali (Unione Europea docet). Inoltre ci sono forze che contano proprio sull’epidemia per attuare i loro progetti di globalismo accentuato. Ma il documento dei vescovi torna a dire che siamo “fortemente interdipendenti ciascuno dall’altro, in un pianeta che è sempre di più comunità globale”: una valutazione che va in tutt’altra direzione rispetto alla realtà. L’epidemia in corso infatti dimostra esattamente il contrario, insieme ai pericoli (globalisti) insiti nel considerarsi “comunità globale”.
Per quanto riguarda la redistribuzione della ricchezza per una maggiore giustizia sociale, il documento punta sulle tasse, elogiando le “politiche fiscali progressive” e, implicitamente, condannando l’evasione. Ma le esigenze della realtà sono ben diverse: le tasse spesso finanziano le inefficienze statali, nelle epoche di crisi è piuttosto il sommerso a permettere la sopravvivenza, molte aziende chiuderanno o licenzieranno proprio perché non riusciranno a pagare tasse e contributi.
Leggendo il documento si ha l’impressione che sia stato abbozzato prima del coronavirus e che per questo contenga espressioni e valutazioni di moda nella Chiesa di scarso significato per la realtà. Poi si è tentato l’innesto dell’emergenza coronavirus. Ma l’innesto non è avvenuto e la pianta si è ammalata.
Stefano Fontana
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