ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

mercoledì 6 maggio 2020

La Chiesa del silenzio

Il silenzio dei vescovi in tempo di pandemia



(Cristiana de Magistris) Il silenzio complice dei Vescovi italiani o, per meglio dire, di una indistinta e nebulosa Conferenza Episcopale Italiana, sul tema delle Chiese chiuse e i Sacramenti vietati ha suscitato – e continua a suscitare – lo scandalo dei fedeli, anche dei più sprovveduti e dei meno ferventi.


Giova allora rispolverare gl’infelici principi della collegialità, che – a partire dal Vaticano II – ha subito un’escalation di cui tutti ora constatiamo i tragici risultati. Il teologo domenicano, P. Roger Thomas Calmel, all’indomani dell’ultima assemblea conciliare, aveva previsto la sciagura che si sarebbe abbattuta sulla Chiesa in nome della collegialità. Nella sua Breve apologia della Chiesa di sempre scrive: «Il Signore ha voluto nella sua Chiesa l’autorità personale e l’ha istituita personale. Invece, dopo il Concilio (Vaticano II, ndr), assistiamo ad un gigantesco tentativo di spersonalizzazione dell’autorità: da personale quale essa è per diritto divino, la vediamo parlamentarizzarsi, collegializzarsi, si potrebbe dire sovietizzarsi». Le Conferenze Episcopali in ogni Paese non sono che la conseguenza di questo processo di sovietizzazione, che sovverte fin dalle fondamenta la struttura della Chiesa voluta dal Signore. «Egli – continua P. Calmel – ha munito questa Chiesa di poteri particolari in vista della santità. Questi poteri sono gerarchici, assistiti, personali; […], questi poteri sono detenuti da una determinata persona (volgare o nobile, santa o mediocre); in ogni caso una persona personalmente responsabile; questi poteri non possono essere trasferiti a nessuna di quelle molteplici varietà di organizzazioni del genere rousseauiano e massonico». E ciò perché il regime assembleare democratico «è estraneo al Regno di Dio». Con tale regime «quelli che di fatto esercitano l’autorità, hanno normalmente il mezzo per eclissarsi. I detentori ufficiali del potere, infatti, sono ipocritamente spogliati del potere effettivo; il potere reale è trasferito ad autorità parallele, irresponsabili e sfuggenti. È per ciò che la democrazia alla Rousseau è un regime di menzogna ed è intollerabile nella Santa Chiesa, nel Regno di ogni verità, ancor più che nei regni di questo mondo».
Infatti, che cosa accade quando agisce un’assemblea? Ma, anzitutto “chi è” l’assemblea? «L’assemblea. Il che significa tutti e nessuno», risponde P. Calmel. «Ad ogni assemblea plenaria collegiale, la demolizione della dottrina, della morale, della liturgia ha fatto progressi considerevoli. Ma chi è il demolitore? Tutti i vescovi o quasi tutti, se si considera il meccanismo della maggioranza dei suffragi, ma un piccolo numero difficile da identificarsi, se si considera la determinazione personale, ponderatamente deliberata, riflettuta e calcolata. Ed è appunto in questo che il sistema collegiale è ipocrita e contro natura: esso esenta ciascuno dal peso delle proprie responsabilità e dagli intollerabili bruciori del rimorso, ma, al tempo stesso e in forza dello stesso meccanismo, fa cooperare tutti ai peggiori misfatti, all’installazione d’una falsa religione cristiana sotto una maschera cristiana». Ciononostante, ogni vescovo deve essere ben consapevole che «è lui che è scelto, onorato a tal segno, investito di questa divina missione: lui, e non un gruppo anonimo».
Dunque, il vescovo – lo voglia o no, ne sia consapevole o no – è e rimane l’unico Pastore della sua diocesi, sotto il Papa, evidentemente, da cui deriva la sua autorità. Nella seconda domenica dopo Pasqua, il Vangelo ci ha presentato la figura nobile e forte del Buon Pastore «che dà la vita per le sue pecore» (Gv 10,11), contrapposta a quella del mercenario, il quale «vede venire il lupo e fugge» (Gv 10,12). Questo passo del quarto Vangelo è stato commentato con mano impietosa dal grande Vescovo di Ippona, il quale si chiede: «Chi è il mercenario, che vede venire il lupo e fugge? Chi cerca i propri interessi, non quelli di Gesù Cristo, e non ha il coraggio di riprendere liberamente chi ha peccato (cf. 1 Tim 5, 20). Ad esempio, uno ha peccato, ha peccato gravemente; merita di essere rimproverato, e magari scomunicato; ma scomunicato, diventerà un nemico, procurerà delle noie e, se potrà, farà del male. Ora, chi cerca i propri interessi e non quelli di Gesù Cristo, per non perdere ciò che gli sta a cuore, per non perdere i vantaggi dell’amicizia degli uomini e per non incorrere nella molestia della loro inimicizia, tace, non interviene» (Commento al Vangelo di san Giovanni, Omelia 46, 8). Ecco dunque descritto il volto del mercenario: è il pastore che bada ai propri interessi e pro bono pacis tace. Vediamolo all’azione: «Ecco – scrive S. Agostino –, il lupo ha afferrato la pecora alla gola, il diavolo ha spinto il fedele all’adulterio (o a qualunque altro grave peccato, ndr); tu taci, non alzi la voce. Mercenario che sei: hai visto venire il lupo e sei fuggito. Forse egli dirà: eccomi qui, non sono fuggito. No, sei fuggito, perché hai taciuto; e hai taciuto perché hai avuto paura. La paura è la fuga dell’anima. Col corpo sei rimasto, ma con lo spirito sei fuggito». Tacere per paura, secondo sant’Agostino, equivale a fuggire, e chi fugge (anche se solo con l’anima e non con il corpo) è mercenario, perché «non gli importa delle pecore» (Gv 10,13).
In questa pandemia, un silenzio mendace pare essere la caratteristica più dirompente dei nostri vescovi, salvo poche eccezioni, troppo timide e troppo tardive. Ma questo silenzio non è che una “fuga dell’anima”, che trasmuta i pastori in mercenari.
Una tale constatazione spaventava il cardinal Biffi, il quale da parroco – dunque ben prima di ricevere la berretta episcopale e poi cardinalizia – descrisse la figura del vescovo con la sua penna arguta e tagliente in questi termini, ironici ma terribilmente veri: «La guida del vescovo raramente ha il marchio della genialità in evidenza: più spesso appare senza logica interiore, senza slanci, senza illuminazioni. […] Talvolta bisogna seguire un vescovo che non sta andando da nessuna parte e più che camminare si limita a stare in piedi. Senza dire che se il vescovo, come più spesso capita, non sa che pesci pigliare, me lo sento simpatico e veramente fratello, ma non vedo perché debba dirigermi piuttosto che essere diretto» (Quando ridono i cherubini, Bologna 2006, p. 87). Il ritratto non potrebbe essere più realista per quanto inclemente. A chi si lamentava di avere come vescovo nulla più che un asino, il parroco Biffi – divenuto ora egli stesso vescovo e cardinale – invitava con la sua inconfondibile ironia a non soffermarsi sull’asineria dei vescovi, ma a sollevare lo sguardo al disegno sapiente di Dio, che nella Sua onnipotenza riesce a fare vescovi anche degli asini!
E ciò per una ragione molto elementare: abbiamo bisogno dei vescovi. La Chiesa è la Sposa immacolata dell’Agnello, ma sulla terra è visibile ed ha una struttura organizzata. «Non ci è fatto obbligo di amare le strutture – diceva –. È come il sistema osseo del nostro corpo: nessuno si innamora dello scheletro di una donna, ma nessuno si innamorerebbe di una donna se lo scheletro non ci fosse» (p. 88). Abbiamo bisogno dei vescovi, poiché abbiamo bisogno della visibilità della Chiesa. Certo, lo scenario che abbiamo davanti è ben poco consolante: conferenze episcopali supinamente inchinate ai potenti della terra; singoli vescovi più simili a mercenari che a pastori, o divenuti essi stessi i lupi del loro gregge… Dunque, siamo davanti a una Chiesa in crisi? Ancora il cardinal Biffi rispondeva: «La Chiesa si fonda sull’avvenimento di Cristo, incarnazione morte e resurrezione. Un fatto non va in crisi».
Ecco, la nostra fede teologale si fonda su un fatto, avvenuto, incancellabile e destinato a perpetuarsi fino alla fine del mondo. Nessun vescovo, e neanche un’intera conferenza episcopale, per quanto abbia apostatato dalla vera fede, può scalfire seppure lievemente questo supremo avvenimento. Allora, se ci imbattiamo in vescovi asini, col cardinal Biffi contempleremo il disegno misterioso e onnicomprensivo del Padre, che si degna di elevare all’episcopato anche queste simpatiche bestiole. Se sono mercenari, non li seguiremo, ma li avvolgeremo della nostra fraterna e misericordiosa preghiera, memori che pende su di essi, severissimo, il giudizio di Dio. Se sono divenuti sciaguratamente lupi, li ringrazieremo benedicendo il Signore, come i martiri rendevano grazie ai propri carnefici, poiché nessuno come loro ha il potere di fare di noi dei nuovi martiri. Pur costretti ad allontanarci da loro, ad essi va la nostra riconoscenza più profonda, essendo strumenti inconsapevoli ma efficacissimi della nostra gloria sempiterna.
Infine, la nostra fede deve oltrepassare il mondo visibile e, come scriveva ancora P. Calmel, vivere nella certezza che «il Signore non permetterà mai alla collegialità e alla democratizzazione di prevalere. Non lo permetterà perché concederà sempre alla sua Chiesa, per restare santa, cioè per fare i Sacramenti e santificare le anime, la quantità indispensabile di potere gerarchico e di potere sacerdotale ordinario (per quanto minimo, ndr). La Vergine innalzata ai cieli, e che non cessa di intercedere per la Chiesa del suo Figlio, è sempre sicura di essere esaudita. Ci è concesso di dirLe: Regina pastorum, omnium ora pro nobis, Regina di tutti i pastori, prega per noi». 
L’insignificanza e la liturgia del nulla

(Gregorio De Bonifaci) C’era, un tempo, la Chiesa del silenzio. Era la Chiesa che, sotto i regimi comunisti, doveva nascondersi, ordinare sacerdoti che si presentavano in pubblico come operai metalmeccanici, consacrare vescovi non nella luce di una cattedrale ma nel buio di qualche cantina. C’era la Chiesa, tanti secoli fa, dei “cacciatori di preti”, i “priests hunters”, ed era la Chiesa inglese del Cinquecento. Allora la Chiesa doveva parlare nel modo più prudente possibile, per poter continuare a portare la sua voce ed evitare che quella fiammella, sempre in pericolo di essere spenta, potesse estinguersi del tutto.
La Chiesa degli ultimi decenni ha scelto un altro tipo di silenzio: ha aderito, lentamente ma progressivamente, al “politically correct” che, fasciando tutto il mondo della cultura e comunicazione in una morsa senza scampo che si presenta come sorridente e untuosa carezza, blocca la coscienza umana e la condanna all’autocensura. La Chiesa di un tempo non ignorava il mondo: la Chiesa ascoltava il grido del mondo, e proponeva risposte diverse da quelle del mondo. Era antipatica, ruvida, minacciosa quando serviva; e lo faceva perché sapeva che l’unico modo per districare il groviglio delle coscienze, per far respirare l’umana civitas “sazia e disperata” di cui parlava il cardinal Biffi, è dire che le risposte ci sono, ma non sono solo umane. Ci sono, le risposte: risposte che sanno che il male del mondo non si elimina spostando qua e là qualche pezzo di mondo, che l’angoscia dell’uomo non si solleva con un po’ di tecniche psicanalitiche o respiratorie. Sanno che il destino dell’uomo non è solo umano, che la vita ha un senso perché è il risultato di un’intelligenza buona e somma, che il mio essere-qui oggi non è solo un essere sbattuto da qualche parte, un casuale movimento di molecole che poi ad un certo punto si arrestano, e poi si ricompongono e un altro pezzo di materia riparte in un moto senza senso. Sanno che la società umana si gestisce bene se c’è una direzione verso il bene. Sanno che riconoscere il male che si è fatto non è un confrontarsi con forze interiori che giustificano qualunque colpa come un momento di crescita che poi va superato e quindi mai vinto, secondo quell’ottica del togliere–conservare che, da Hegel in poi, ha distrutto la coscienza perché il male è diventato bene, in un processo di presunta autoconsapevolezza e autoriconoscimento. Sanno che l’etica ha diritto di esistere se è radicata nel senso della vita, cioè il senso dell’universo, e che fondare la norma sull’ultima moda culturale è un suicidio della civiltà e del singolo essere umano, perché da lì nascono tutti i moralismi precettistici e bacchettoni, e lì si spegne la vita morale robusta e coraggiosa. Sanno che pregare non è una perdita di tempo, ma che orienta la nostra vita, le assicura il respiro necessario per alzarsi tutte le mattine e addormentarsi la sera con un po’ di serenità; sanno che la liturgia non è uno stare insieme per contemplare il nostro essere-qui-e-basta, ma è l’alzare la nostra vita verso la dimensione cosmica, nella quale tutta la Chiesa è presente, noi qui e ora, ma con noi quelli che sono stati, al tempo della loro vita, capaci di accogliere il senso pieno del loro esistere.
La Chiesa ha pensato che tutto questo fosse ferro vecchio, che un Nuovo Inizio dovesse avvenire: accogliere le domande, certo, come sempre si era fatto, ma accogliere ora anche le risposte (molte delle quali in realtà generano le stesse domande), in un generico rispetto per l’altro che vuol dire rinuncia al mandato della conversione. Una Chiesa non più capace di condannare, una Chiesa “sim–patica”, che condivide il páthos del mondo; una Chiesa che nel riconoscere come salvifiche le visioni non solo del marxismo, ma in generale delle filosofie post-hegeliane, dice al mondo: eccoci, siamo come voi! Oggi, in questo momento di tragedia mondiale, possiamo con nettezza vedere, intorno a noi, l’edificio crollato, la Chiesa dal tetto distrutto che non riesce a ripararci dalla pioggia e dal gelo perché quel tetto è stato lasciato rovinare a terra. Non è il dibattito sulle chiese chiuse o aperte, che ha la sua ragione d’essere, ma è altra cosa, che semmai fonda le questioni di cui oggi molto si parla. È il silenzio della Chiesa di fronte all’urlo del mondo, è il rifugiarsi nel panteismo del pianeta malato, è l’indicare generiche malattie, nel trionfo dell’insignificanza di parole che non indicano la realtà ma rimandano solo a se stesse in un mortale giuoco di specchi. È il silenzio del non sapere dire nulla, questo silenzio scelto dalla Chiesa: la Chiesa che in passato aveva conosciuto il silenzio imposto, accettato e vissuto come prova per rendere la propria voce più forte e credibile. «Non tutti hanno dato ascolto al Buon Annuncio: Isaia infatti dice: Signore, chi ha prestato fede alla nostra predicazione?» (Rm 10, 16-17). E questo annuncio è segno di pazzia perché va contro il politicamente corretto, è bestemmia perché osa dire che tutto non finisce qui, che l’urlo dell’uomo che domanda il perché del male e del dolore non è il sottoprodotto di qualche spinta ormonale, ma è l’apertura, dentro di noi, al destino vero dell’universo. Ma se non c’è nessun annuncio, non c’è nulla né da ascoltare né da rifiutare.
Quando Benedetto Croce, nel periodo più buio della seconda guerra mondiale, quando sembrava davvero che la violenza neopagana e satanica del Nazismo potesse soffocare il mondo, scriveva il suo famoso saggio Perché non possiamo non dirci “cristiani”, metteva tra virgolette “cristiani”, perché lui cristiano non era; aveva di fronte una Chiesa comprensiva e amorevole nel privato, ma dura e ammonitrice nel suo confronto con il mondo; e questa Chiesa il filosofo rispettava, come forza incomparabile di civiltà. Oggi, la Chiesa dice Perché non possiamo non dirci mondani, e senza le virgolette. Una Chiesa che ha scelto l’irrilevanza: ha scelto non di cantare cum Angelis et Archangelis, ma di accodarsi, ultima di una fila di servi incatenati che camminano tenendo gli occhi bassi, alla voce del coro che ripete il mantra gnostico mondialista dell’uomo che salvando il pianeta dove abita salva se stesso. Di questa Chiesa il mondo fa benissimo a meno; e non deve più preoccuparsi di tacitarla, perché si è zittita nel momento in cui ha scelto una predicazione non folle, non blasfema rispetto al mondo, ma balbettante eco del Coro del Nulla, ove il panteismo si fa nichilismo e il nichilismo affoga in un rozzo naturalismo biologicistico. 

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