Sul caso serio dell’arcivescovo Carlo Maria Viganò la Santa Sede tace. Tace la congregazione titolata a vigilare sulla “dottrina della fede”. Tace papa Francesco il cui mandato originario, come successore di Pietro, è di confermare nella fede.
Il calcolo che sottostà a questo silenzio è verosimilmente quello di lasciare andare alla deriva Viganò, in solitudine o quasi.
In effetti, da quando s’è scagliato contro il Concilio Vaticano II come focolaio di eresie, sostenendo che si debba “lasciarlo cadere ‘in toto’ e dimenticarlo”, l’area di consenso attorno all’ex nunzio apostolico negli Stati Uniti è entrata in fase calante.
L’apogeo del suo successo mediatico Viganò l’ha raggiunto il 6 giugno con la sua lettera aperta a Donald Trump “figlio della luce” contro il potere delle tenebre, e con la risposta entusiasta del presidente americano in un tweet divenuto virale.
Ma allora i temi erano altri, più di politica che di dottrina. Erano quelli esposti nel precedente appello lanciato da Viganò l’8 maggio contro – a suo dire – il “Nuovo Ordine Mondiale” d’impronta massonica perseguito da quei poteri “senza nome e senza volto” che piegano ai propri interessi anche la pandemia del coronavirus.
A quell’appello apposero le proprie firme, dopo quella di Viganò, tre cardinali e altri otto vescovi. Ma se oggi egli lanciasse un altro appello per mettere al bando l’intero Concilio Vaticano II, forse nemmeno tra quegli undici se ne troverebbe qualcuno disposto a sottoscriverlo.
Tra i membri della gerarchia della Chiesa il più vicino alle posizioni di Viganò risulta essere Athanasius Schneider, vescovo ausiliare di Astana, la capitale del Kazakistan.
Anzi, è stato proprio uno scritto di Schneider, pubblicato il 6 giugno, a fornire a Viganò lo spunto per scagliarsi da lì in avanti contro il Concilio Vaticano II.
Con la differenza che, mentre Schneider chiedeva che fossero “corretti” i singoli errori di dottrina contenuti nei documenti conciliari, in particolare nelle dichiarazioni “Dignitatis humanae” sulla libertà religiosa e “Nostra aetate” sul rapporto con le religioni non cristiane, Viganò, in un testo pubblicato il 9 giugno e poi in tutti i suoi testi successivi, va sostenendo che sia l’intero Vaticano II a dover essere cestinato.
Per l’esattezza, è questa la formulazione che Viganò ha dato alla sua tesi, in uno degli ultimi suoi interventi, datato 4 luglio, in risposta ad alcune domande del direttore di “LifeSite News” John H. Westen:
“Una persona di buon senso vede già un’assurdità nel voler interpretare un Concilio, dal momento che esso è e deve essere norma chiara ed inequivocabile di fede e di morale. In secondo luogo, se un atto magisteriale pone dei seri e motivati argomenti di coerenza dottrinale con quelli che lo hanno preceduto, è evidente che la condanna del singolo punto eterodosso scredita in ogni caso l’intero documento. Se a ciò aggiungiamo che gli errori formulati o lasciati obliquamente intendere tra le righe non si limitano ad uno o due casi, e che agli errori affermati corrisponde una mole enorme di verità non ribadite, ci possiamo chiedere se sia doveroso espungere l’ultima assise dal catalogo dei Concili canonici. La sentenza sarà emessa dalla Storia e dal ‘sensus fidei’ del popolo cristiano ancor prima che da un documento ufficiale”.
Se questo rigetto di Viganò dell’intero Concilio Vaticano II non è un atto scismatico, ne è indubitabilmente sull’orlo. Ma chi tra i vescovi e i cardinali lo vorrà seguire? Probabilmente nessuno.
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Tornando al vescovo Schneider, va detto che anche i suoi argomenti appaiono fragili a chi ha un minimo di competenza nella dottrina e nella storia dei dogmi.
La sua tesi è che già altre volte, nella storia, la Chiesa ha corretto errori dottrinali anche gravi, commessi in precedenti concili ecumenici, senza con ciò “minare le fondamenta della fede cattolica”. E quindi dovrebbe oggi fare lo stesso con le affermazioni eterodosse del Vaticano II.
In un suo intervento del 24 giugno Schneider ha portato due esempi di errori di dottrina successivamente corretti:
Il primo attribuito al Concilio di Costanza:
“Con una Bolla del 1425 Martino V ha approvato i decreti del Concilio di Costanza e persino il decreto ‘Frequens’ della 39a sessione (del 1417), un decreto che afferma l’errore del conciliarismo, cioè della superiorità del Concilio sul Papa. Però, il suo successore Papa Eugenio IV ha dichiarato nel 1446 di accettare i decreti del Concilio Ecumenico di Costanza eccetto quelli (delle sessioni 3-5 e 39) che ‘pregiudicano i diritti e il primato della Sede Apostolica’ (absque tamen praeiudicio iuris, dignitatis et praeeminentiae Sedis Apostolicae). Il dogma sul primato del Papa del Concilio Vaticano I ha poi definitivamente rigettato l’errore conciliarista del Concilio Ecumenico di Costanza”.
Il secondo attribuito al Concilio di Firenze:
“Una opinione diversa da ciò che ha insegnato il Concilio di Firenze sulla materia del sacramento dell’Ordine, cioè della ‘raditio instrumentorum’, è stata permessa nei secoli successivi a questo Concilio e ha portato al pronunciamento di Papa Pio XII nel 1947 nella Costituzione Apostolica ‘Sacramentum Ordinis’, con il quale egli ha corretto l’insegnamento non-infallibile del Concilio di Firenze, stabilendo, che l’unica materia strettamente necessaria per la validità del sacramento dell’Ordine è l’imposizione delle mani del vescovo. Pio XII ha fatto con questo suo atto non un’ermeneutica della continuità, ma una correzione, appunto, perché questa dottrina del Concilio di Firenze non rifletteva la costante dottrina e prassi liturgica della Chiesa universale. Già nell’anno 1914 il Cardinale G.M. van Rossum scriveva riguardo all’affermazione del Concilio di Firenze sulla materia del sacramento dell’Ordine, che quella dottrina del Concilio è riformabile e che si deve persino abbandonarla (cfr. ‘De essentia sacramenti ordinis’, Freiburg 1914, p. 186). Quindi non c’era spazio per un’ermeneutica della continuità in questo caso concreto”.
Non sorprende che al leggere queste righe un insigne storico della Chiesa come il cardinale Walter Brandmüller, presidente dal 1998 al 2009 del Pontificio comitato di scienze storiche, sia sobbalzato, per gli errori ivi contenuti e a lui evidenti.
Ha quindi inviato a Schneider un rapido sommario delle inesattezze. Che ha poi messo per iscritto in questo suo appunto pervenuto a Settimo Cielo:
“Il concilio di Costanza (1415-1418) pose fine allo scisma che aveva diviso la Chiesa per quarant'anni. In quel contesto, si è spesso affermato – e ripetuto di recente – che quel concilio, con i decreti ‘Haec sancta’ e ‘Frequens’, avrebbe definito il conciliarismo, la superiorità del concilio sul papa.
“Ciò però non è per niente vero. L'assise che emanò quei decreti non era per nulla un concilio ecumenico autorizzato a definire la dottrina della fede. Si trattò, invece, di un'assemblea dei soli seguaci di Giovanni XXIII (Baldassarre Cossa), uno dei tre ‘papi’ che si contendevano in quel tempo la guida della Chiesa. Quell’assise non aveva nessuna autorità.
“Lo scisma durò fino al momento in cui si unirono all'assemblea di Costanza anche le due altre parti, cioè i seguaci di Gregorio XII (Angelo Correr) e la ‘natio hispanica’ di Benedetto XIII (Pedro Martinez de Luna), fatto avvenuto nell'autunno del 1417. Soltanto da quel momento il ‘concilio’ di Costanza diventò un vero concilio ecumenico, sia pure ancora senza il papa che alla fine è stato poi eletto.
“Quindi tutti gli atti di quella prima fase ‘incompleta’ di concilio e i suoi documenti non avevano il minimo valore canonico, pur essendo efficaci, a livello politico, in quelle circostanze. Dopo la fine del concilio il nuovo e unico papa legittimo Martino V confermò i documenti emanati dall'assise ‘incompleta’ preconciliare, tranne ‘Haec sancta’, ‘Frequens’ e ‘Quilibet tyrannus’.
“‘Frequens’, valido perché emanato dalle tre ex-obbedienze riunite, non aveva bisogno di conferma. Ma non insegna affatto il conciliarismo e neppure è un documento dottrinale, ma semplicemente regola la frequenza di convocazione dei concili.
“Quanto al concilio di Firenze (1439-1445), è vero che nel decreto ‘Pro Armenis’ dichiarò necessaria per la validità dell'ordinazione sacerdotale la ‘porrectio instrumentorum’, cioè la consegna all’ordinato degli strumenti del suo ufficio. Ed è vero che Pio XII nella costituzione apostolica ‘Sacramentum Ordinis’ stabilì che per il futuro quella consegna non sarebbe stata più necessaria e dichiarò quale materia del sacramento la ‘manus impositio’ e quale forma i ‘verba applicationem huius materiae determinantia’.
“Ma il Concilio di Firenze, a proposito dell’ordinazione sacerdotale, non trattò affatto la dottrina. Solo regolò il rito liturgico. E si deve ricordare che è sempre la Chiesa a ordinare la forma rituale dei sacramenti”.
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Fin qui l’appunto del cardinale Brandmüller sulle “fake news” di cui si alimenta quella contestazione del Concilio Vaticano II che ha in Schneider ma ancor più in Viganò i suoi esponenti di punta.
Colpisce il fatto che, a 91 anni, Brandmüller sia l’unico cardinale che levi una voce criticamente argomentata contro l’operazione di rigetto del Concilio esplosa in queste ultime settimane.
Così come colpisce il silenzio sul caso Viganò di un altro cardinale abitualmente molto combattivo e loquace, Gerhard L. Müller, che è stato il penultimo prefetto della congregazione per la dottrina della fede e quindi si presume sia sensibilissimo a tali questioni.
Sfortunatamente, però, Müller è anche uno dei tre cardinali che hanno sottoscritto il manifesto politico di Viganò dell’8 maggio contro il “Nuovo Ordine Mondiale”. È forse per questo suo incauto precedente che ora si sente obbligato al silenzio?
Settimo Cielo
di Sandro Magister 13 lug
l'opinione di padre Lanzetta:
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