Cari amici di Duc in altum, vi propongo il mio più recente contributo per la rubrica La trave e la pagliuzza in Radio Roma Libera.
***
La risposta che monsignor Carlo Maria Viganò ha dato di recente al giornalista Stephen Kokx va letta con estrema attenzione e meditata.
Kokx, nell’articolo intitolato Domande per Viganò: sua eccellenza ha ragione sul Vaticano II, ma cosa pensa che dovrebbero fare i cattolici ora?, apparso su Catholic Family News il 22 agosto, pone una questione decisiva. E l’arcivescovo Viganò risponde in modo altrettanto decisivo.
A Kokx, il quale chiede “Cosa significa ‘separarsi’ dalla Chiesa conciliare secondo l’arcivescovo Viganò?”, il monsignore risponde a sua volta con una domanda: “Cosa significa separarsi dalla Chiesa cattolica secondo i fautori del Concilio?”.
Questa, secondo Viganò, è la giusta prospettiva. “Pur essendo evidente che non è possibile alcuna commistione con coloro che propongono dottrine adulterate del manifesto ideologico conciliare, occorre precisare che il semplice fatto di essere battezzati e membra vive della Chiesa di Cristo non implica l’adesione alla compagine conciliare; questo vale anzitutto per i semplici fedeli e per i chierici secolari e regolari che, per varie ragioni, si considerano sinceramente cattolici e riconoscono la Gerarchia”.
Quella che “andrebbe invece chiarita”, osserva monsignor Viganò, è “la posizione di quanti, dichiarandosi cattolici, abbracciano le dottrine eterodosse che si sono diffuse in questi decenni, con la consapevolezza che esse rappresentano una rottura con il magistero precedente. In questo caso è lecito mettere in dubbio la loro reale appartenenza alla Chiesa cattolica, nella quale tuttavia essi ricoprono ruoli ufficiali che conferiscono loro autorità. Un’autorità esercitata illecitamente, se lo scopo che si prefigge è di obbligare i fedeli ad accettare la rivoluzione imposta da dopo il Concilio”.
Il punto è di fondamentale importanza. Ed è su questa base che l’arcivescovo innesta la successiva riflessione. “Non sono i fedeli tradizionalisti – ossia i cattolici veri, secondo le parole di san Pio X – che devono abbandonare la Chiesa nella quale hanno pieno diritto di rimanere e dalla quale sarebbe sciagurato separarsi; ma i modernisti, i quali usurpano il nome cattolico proprio perché esso è l’unico burocratico elemento che consente loro di non essere considerati al pari di qualsiasi setta eretica. Questa loro pretesa serve infatti a evitare di finire tra le centinaia di movimenti ereticali che nel corso dei secoli hanno creduto di poter riformare la Chiesa a proprio piacimento, anteponendo il proprio orgoglio all’umile custodia dell’insegnamento di Nostro Signore. Ma come non è possibile rivendicare la cittadinanza di una patria di cui non si condivide la lingua, il diritto, la fede e la tradizione, così è impossibile che chi non condivide la fede, la morale, la liturgia e la disciplina della Chiesa cattolica possa arrogarsi il diritto di rimanere al suo interno e addirittura di ascendere i gradi della Gerarchia”.
Di qui un invito che l’arcivescovo rivolge a tutti, chierici e laici: “Non cediamo quindi alla tentazione di abbandonare – pur con giustificato sdegno – la Chiesa cattolica, col pretesto che essa è invasa da eretici e fornicatori: sono costoro che vanno cacciati dal sacro recinto, in un’opera di purificazione e di penitenza che deve partire da ciascuno di noi”.
Mettendosi nei panni del semplice fedele, monsignor Viganò osserva poi: “È altresì evidente che vi sono casi molto diffusi in cui il fedele incontra gravi problemi nel frequentare la parrocchia, così come sono ancora poco numerose le chiese in cui si celebra la Santa Messa nel rito cattolico. Gli orrori che dilagano da decenni in molte nostre parrocchie e santuari rendono impossibile anche solo assistere ad una ‘eucarestia’ senza essere turbati e mettere a rischio la propria fede. Così come è molto difficile assicurare a sé e ai propri figli un’istruzione cattolica, sacramenti celebrati degnamente e una guida spirituale solida. In questi casi i fedeli laici hanno il diritto e il dovere di cercare sacerdoti, comunità e istituti che siano fedeli al magistero di sempre. E che alla lodevole celebrazione della liturgia in rito antico sappiano accompagnare la fedele adesione alla dottrina e alla morale, senza alcun cedimento sul fronte del Concilio”.
Diverso, e più complesso, è il caso dei chierici, che dipendono dal vescovo o dal superiore religioso. Anche loro, tuttavia, hanno il diritto sacrosanto di restare cattolici e di poter celebrare secondo il rito cattolico. “Il motu proprio Summorum Pontificum ha ribadito che i fedeli e i sacerdoti hanno il diritto inalienabile – che non può essere loro negato – di avvalersi della liturgia che più perfettamente esprime la nostra fede. Ma questo diritto va oggi usato non solo e non tanto per conservare la forma straordinaria del rito, ma per testimoniare l’adesione a quel depositum fidei che solo nel rito antico trova perfetta corrispondenza”.
La Chiesa ha già affrontato simili scossoni. Nel quarto secolo dopo Cristo l’arianesimo “era talmente diffuso tra i vescovi, da lasciar quasi credere che l’ortodossia cattolica fosse completamente scomparsa”. Eppure, “grazie alla fedeltà e all’eroica testimonianza dei pochi vescovi rimasti fedeli la Chiesa seppe risollevarsi”. Allo stesso modo, “senza la nostra testimonianza odierna, non verrà sconfitto il modernismo e l’apostasia globalista di questo pontificato”.
“Non è quindi questione – prosegue Viganò – di lavorare dall’interno o dall’esterno: i vignaioli sono chiamati a lavorare nella vigna del Signore, ed è lì che devono rimanere anche a costo della vita; i pastori sono chiamati a pascere il gregge del Signore, a tenere lontani i lupi rapaci e a scacciare i mercenari che non si preoccupano per la salvezza delle pecore e degli agnelli”.
A giudizio di monsignor Viganò va riconosciuto alla Fraternità San Pio X “il merito di non aver lasciato spegnere la fiamma della Tradizione, in un momento in cui celebrare la Messa antica era considerato sovversivo e motivo di scomunica”. Si dice: ma i lefebvriani hanno disubbidito al papa. Ebbene, risponde Viganò, “se la fedeltà ha reso inevitabile la disobbedienza al papa con le consacrazioni episcopali, grazie a esse la Fraternità ha potuto proteggersi dall’attacco furioso dei novatori e ha permesso, con la sua stessa esistenza, di rendere possibile la liberalizzazione del rito antico, fino ad allora proibito. Così come ha consentito di far emergere le contraddizioni e gli errori della setta conciliare, sempre ammiccante nei confronti degli eretici e degli idolatri, ma implacabilmente rigida e intollerante nei confronti della Verità cattolica”.
Esplicite a questo proposito le parole dell’arcivescovo: “Considero monsignor Lefebvre un esemplare confessore della fede e penso sia ormai evidente quanto la sua denuncia del Concilio e dell’apostasia modernista sia fondata e quanto mai attuale. Non va dimenticato che la persecuzione di cui monsignor Lefebvre è stato oggetto da parte della Santa Sede e dell’episcopato mondiale è servita anzitutto come deterrente per i cattolici refrattari alla rivoluzione conciliare”.
In accordo con monsignor Bernard Tissier de Mallerais (vescovo della Fraternità San Pio X), Viganò osserva che “la Chiesa di Cristo è occupata ed eclissata dalla compagine modernista conciliare, la quale si è imposta nella stessa gerarchia ed usa l’autorità dei suoi ministri per prevalere sulla Sposa di Cristo e Madre nostra”.
La Chiesa di Cristo, secondo la visione della beata Anna Katharina Emmerick, è oscurata da una chiesa “stravagante” che si è insediata a Roma, e le due chiese al momento convivono, come il grano e la zizzania. “Non possiamo giudicare i nostri pastori – scrive Viganò – per le loro intenzioni, né supporre che tutti siano corrotti nella fede e nella morale; al contrario, possiamo sperare che molti di loro, finora rimasti intimiditi e silenti, comprendano, col dilagare della confusione e dell’apostasia, l’inganno di cui sono stati oggetto e si scuotano finalmente dal loro torpore. Numerosi sono i laici che stanno alzando la loro voce; altri seguiranno necessariamente, assieme a buoni sacerdoti, certamente presenti in ogni diocesi. Questo risveglio della Chiesa militante – oserei chiamarla quasi una resurrezione – è necessario, improrogabile e inevitabile: nessun figlio tollera che la propria madre sia oltraggiata dai servitori, né che il padre sia tiranneggiato dagli amministratori dei suoi beni. Il Signore ci offre, in questi dolorosi frangenti, la possibilità di essere suoi alleati e di combattere questa santa battaglia sotto il suo vessillo: il Re vincitore dell’errore e della morte ci permette di condividere l’onore della vittoria trionfale e il premio eterno che ne deriva, dopo avere con lui sopportato e sofferto”.
Occorre che ogni battezzato si renda di nuovo consapevole del fatto che la vita cristiana è militia. Con il sacramento della Confermazione diventiamo soldati di Cristo: significa che siamo chiamati a combattere. E “nel corso della storia abbiamo visto quanto spesso, dinanzi alla violazione dei diritti sovrani di Dio e delle libertà della Chiesa, sia stato necessario anche prendere le armi: ce lo insegna la strenua resistenza per respingere le invasioni islamiche a Lepanto e alle porte di Vienna, la persecuzione dei Cristeros in Messico, dei cattolici in Spagna, e ancor oggi la guerra crudele ai cristiani di tutto il mondo. Mai come oggi possiamo comprendere l’odio teologico dei nemici di Dio, ispirati da Satana: l’attacco a tutto ciò che ricorda la Croce di Cristo – la Virtù, il Bene e il Bello, la purezza – ci deve spronare ad alzarci, in un sussulto di fierezza, per rivendicare il nostro diritto non solo a non esser perseguitati dai nemici esterni, ma anche e soprattutto ad avere dei pastori forti e coraggiosi, santi e timorati di Dio, che facciano esattamente quello che i loro predecessori hanno fatto per secoli: predicare il Vangelo di Cristo, convertire i singoli e le nazioni, espandere in tutto il mondo il Regno del Dio vivo e vero”.
Da recuperare, osserva l’arcivescovo, è la dimenticata virtù della Fortezza, virtù cardinale che in greco richiama la forza virile, l’ἀνδρεία.
A questo punto monsignor Viganò chiede: “Se celebrate solo la Messa tridentina e predicate la sana dottrina senza menzionare il Concilio, cosa potranno mai farvi? Cacciarvi dalle vostre chiese, forse, e poi? Nessuno potrà mai impedirvi di rinnovare il Santo Sacrificio anche su un altare di fortuna in una cantina o in una soffitta, come i preti refrattari durante la Rivoluzione francese, o come ancor oggi avviene in Cina. E se proveranno ad allontanarvi, resistete: la legge canonica serve per garantire il governo della Chiesa nel perseguimento delle sue finalità principali, non per demolirla. Smettiamola di temere che la colpa dello scisma sia di chi lo denuncia, e non di chi lo compie: sono scismatici ed eretici coloro che feriscono e crocifiggono il Corpo mistico di Cristo, non coloro che lo difendono denunciando i carnefici!”.
Ricordiamo che “i laici possono pretendere dai loro ministri di comportarsi come tali, preferendo quanti danno prova di non esser contaminati dagli errori presenti. Se una Messa diventa un’occasione di tortura per il fedele, se egli è costretto ad assistere a sacrilegi o a sopportare eresie e farneticamente indegni della Casa del Signore, è mille volte preferibile recarsi in una chiesa in cui il sacerdote celebri degnamente il Santo Sacrificio, nel rito che la Tradizione ci ha consegnato, e predichi conformemente alla sana dottrina. Quando i parroci e i vescovi si accorgeranno che il popolo cristiano pretende il pane della fede e non le pietre o gli scorpioni della neo-chiesa, metteranno da parte le proprie paure e asseconderanno le legittime richieste dei fedeli; gli altri, veri mercenari, si mostreranno per quello che sono e sapranno raccogliere intorno a sé solo quanti condividono i loro errori e perversioni. Si estingueranno da soli: il Signore secca la palude e rende arida la terra su cui crescono i rovi; spegne le vocazioni nei seminari corrotti e nei conventi ribelli alla regola”.
“I fedeli laici hanno oggi un compito sacro: confortare i buoni sacerdoti e i buoni vescovi, stringendosi attorno a loro come le pecore al loro pastore. Ospitarli, aiutarli, consolarli nelle tribolazioni. Creare comunità in cui non domini la mormorazione e la divisione, ma la carità fraterna nel vincolo della fede. E poiché nell’ordine stabilito da Dio – κόσμος – i sudditi devono obbedienza all’autorità e non possono far altro che resisterle quando abusa del proprio potere, nessuna colpa sarà a essi imputata per l’infedeltà dei suoi capi, sui quali invece pesa la responsabilità gravissima del modo in cui esercitano il potere vicario che è stato loro dato. Non dobbiamo ribellarci, ma opporci; non dobbiamo compiacerci degli errori dei nostri pastori, ma pregare per loro e ammonirli con rispetto; non dobbiamo mettere in discussione la loro autorità, ma il modo in cui essi la usano”.
Conclude l’arcivescovo: “Sono certo, di una certezza che mi viene dalla fede, che il Signore non mancherà di ricompensare la nostra fedeltà, dopo averci punito per le colpe degli uomini di Chiesa, concedendoci santi sacerdoti, santi vescovi, santi cardinali e soprattutto un santo papa”. “L’obbedienza non può pervertirsi in servilismo stolido; il rispetto dell’autorità non può pervertirsi in cortigianeria. E non dimentichiamo che se è dovere dei laici obbedire ai loro pastori, è ancor più grave dovere dei pastori obbedire a Dio, usque ad effusionem sanguinis”.
La conversione di Nicodemo smentisce la teologia di modaL'episodio del dialogo di Nicodemo con Gesù riportato nel vangelo di Giovanni dimostra come la conversione consiste nel trasformare la "scienza e conoscenza" dell'uomo in sapienza. Lezione decisiva per oggi quando invece sembra che si voglia far fare ai cattolici il percorso inverso.
La storia della conversione di Nicodemo che troviamo nel Vangelo di S. Giovanni, è un esempio straordinario che illustra in modo esemplare il problema chiave della conversione, proprio in questi tempi in cui siamo ricchi di “scienza e conoscenza“, ma poveri di “sapienza “, pertanto immaturi per affrontare le grandi sfde di questa civiltà tecnologica (come scrisse San Giovanni Paolo II in Sollecitudo Rei Socialis).
La storia evangelica di Nicodemo illustra proprio la conversione da “scienza e conoscenza a sapienza“ quando, al contrario, in questi ultimi tempi sembrerebbe esser invece proposto al cattolico di convertire la propria “sapienza” in scienza e conoscenza.
È importante evidenziare questo rischio per due ragioni. La prima è che è la sapienza a dare senso alla conoscenza e alla scienza, permettendo di comprendere il creato, il ruolo della creatura nel creato, l’ordine naturale e le sue leggi, con gli occhi di Dio (ovviamente secondo il nostro stato di creature) e di partecipare alla Sua saggezza. Pertanto capire il vero necessario rapporto uomo-ambiente, tema oggi piuttosto imponente.
La seconda ragione sta nella Genesi, a rischio di revisione al fine di rispiegare il progetto divino della Creazione. Cosa è significato per Dio aver creato uomo e donna (maschio e femmina), averli invitati a “moltiplicarsi“, e (soprattutto) ad asservire la terra. I neoteologi sono molto preoccupati della interpretazione “asservire la terra”, perché secondo loro invita a sfruttarla selvaggiamente ed avidamente. Pertanto, in attesa di avere una rilettura biblica, è bene ricordare che nella Genesi la famosa promessa del serpente ai nostri progenitori fu di poter avere conoscenza, ma senza sapienza.
Questa distinzione chiave è scritta fra le righe nel Vangelo di Giovanni dove si narra la conversione di Nicodemo (Giovanni, 3.1-36) .Nicodemo era un intellettuale, membro del Sinedrio, probabilmente un dottore della legge. Gesù infatti lo chiama “maestro in Israele“. Ma ostentando Nicodemo la sua conoscenza, mette in condizione Gesù di provocarlo, facendogli intendere quanto fosse lontana la sua conoscenza dalla vera sapienza, perché nonostante i suoi studi Nicodemo era manifestamente ignorante “delle cose di Dio”.
Gli dice Gesù infatti: “Tu sei maestro in Israele e non sai queste cose?”. Nel magistrale colloquio riportato da Giovanni, Gesù spiega a Nicodemo, che lo aveva interrogato, che se non si rinasce dall’alto non si può vedere il regno di Dio ( “sapienza”). Nicodemo non intende il significato di rinascere. Gesù glielo spiega e lo convince con quel meraviglioso passo evangelico: “Dio ha tanto amato il mondo da...” (Giov. 3.12-21)
San Tommaso d’Aquino in proposito osserva che Gesù rimproverò così Nicodemo perché continuava a riporre fiducia nel suo sapere, nella sua scienza e conoscenza. Gesù volle perciò mortificarlo e umiliarlo, per trasformarlo in dimora dello Spirito Santo. Così Gesù innalza la scienza e conoscenza di Nicodemo in “sapienza”, rendendolo consapevole che la realtà divina supera sempre la limitata intelligenza umana.
La conversione di Nicodemo è esemplare nel mondo di oggi impregnato di cultura nichilista, grazie alla quale gli uomini di questi tempi non sanno più distinguere tra cause ed effetti, tra fini e mezzi e non sanno più dare un senso all’uso degli strumenti sofisticati che hanno creato, lasciando loro prendere autonomia morale (come spiega Benedetto XVI in Caritas in Veritate).
Nicodemo converte la sua conoscenza in sapienza e trova la luce vera. Oggi la neo dottrina teologica, forse timorosa di non apparire sufficientemente realistica, sembra voler proporre di convertire la sapienza in conoscenza. Con effetti intuibili.
Ettore Gotti Tedeschi
https://lanuovabq.it/it/la-conversione-di-nicodemo-smentisce-la-teologia-di-moda
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.