VIA ALLA QUADRIENNALE
Chiusi in casa, ma potremo uscire per mostre gay friendly
Mentre il Governo ci chiude in casa con un lockdown mascherato e Franceschini spranga con finto dolore cinema e teatri, apre i battenti la Quadriennale di Arte contemporanea di Roma finanziata con soldi pubblici. Ispirata al FUORI, il blasfemo Fronte rivoluzionario omosessualista degli anni '70, sarà una delle poche attrattive concesse nell'autunno romano. Dai Beni Culturali un milione di euro per una rassegna che i curatori legano al concetto di essere fuori per non essere eterosessuali. E dove l'arte è sempre uno strumento in mano alla Sinistra per imporre con i soldi pubblici una visione del mondo e dell'uomo ormai neutra all'insegna della gay culture e del queer.
Un frame del video di presentazione
Non potremo uscire né andare a mangiare la pizza. Vietate le feste dopo le cerimonie come matrimoni e cresime, però, se proprio volete uscire per cercare qualcosa di aperto, potete andare a Roma a visitare la Quadriennale d’arte contemporanea che aprirà i battenti il 30 ottobre. Sarà un po’ difficile spiegare a chi vi fermerà che siete in viaggio per motivi “strettamente necessari” come recita il testo del nuovo Dpcm licenziato ieri, però, una volta arrivati al Palazzo delle esposizioni di Via Nazionale troverete un ambiente esplicitamente ispirato al movimento omosessualista rivoluzionario.
Certe mostre che inaugurano durante il lockdown italico hanno il privilegio di rimanere aperte mentre tutto chiude. Potrebbero andarci anche i ristoratori di Trastevere che alle 18 dovranno chiudere i battenti: la mostra è aperta infatti fino alle 20.
Si chiama Fuori ed è la prossima edizione della Quadriennale d’arte, a cura di Sarah Cosulich e Stefano Collicelli Cagol e organizzata dalla Fondazione La Quadriennale di Roma.
Inciso: la Fondazione è partecipata da Ministero dei Beni Culturali, Regione Lazio e Comune di Roma. Quindi stiamo parlando di una iniziativa praticamente tutta pubblica e sovvenzionata dal Pubblico. E voluta dal ministro Dario Franceschini che da un lato paga questi "capolavori" e dall'altro condanna a morte cinema e teatri e con lacrime di coccodrillo se ne dispiace pure.
Il tema omosessuale è il lietmotiv portante che giustifica la mostra stessa a cominciare dal video promozionale dove l'elemento arcobaleno è costantemente richiamato. Richiamo che compare però già dal titolo, un esplicito omaggio al F.U.O.R.I, il Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano. È la stessa curatrice a spiegarlo nella cartella stampa: «FUORI è un riconoscimento degli approcci femminili, oltre che femministi, delle ricerche nell’ambito queer e degli immaginari gender fluid nella storia dell’arte contemporanea, con un esplicito omaggio all’esperienza del FUORI!, la prima associazione per i diritti degli omosessuali, formatasi agli inizi degli anni Settanta».
Deve esserci una sorta di monomainacalità: la Bussola ha visionato le schede dei 43 artisti che partecipano alla mostra le cui opere sono state incluse con questa motivazione: «FUORI è una liberazione da qualsiasi costrizione o categoria abbia imbrigliato nel passato l’arte come gli individui: FUORI di testa, FUORI moda, FUORI tempo, FUORI scala, FUORI gioco, FUORI tutto, FUORI luogo».
In tutto questo FUORI c’è anche il caso che qualche cosa sia fuori contesto. Però non è fuori contesto l’istanza del movimento omosessualista che riesce a far parlare di sé come ispiratore di tutta la mostra. O meglio: diventa il faro per ogni tipo di operazione culturale, la musa ispiratrice di tutto ciò che è arte. O che almeno pretende di esserlo.
C’è un pensiero che sta diventando “gaycentrico”, una “gay weltanschauung” in cui tutto deve essere ricondotto allo scontro sessuale e alla risoluzione verso l’indefinito gender, il queer, l’omosessualismo. La vita, l’arte, il mondo visti con l’approccio di rottura dell’omosessualismo. Poi i sessuofobici sarebbero gli altri, i cattolici di una volta, ad esempio.
Intervistati dal Giornale dell’Arte infatti, i curatori ci spiegano che «essere fuori richiede una costante attenzione a non ricadere nel dentro di uno schema». Al che, l’intervistatore chiede saggiamente: «Ma se tutti assumono posizioni eccentriche, il centro dov’è?». Risposta: «Il centro è sempre lì, nel pensiero eterosessuale ben descritto da Monique Wittig (fondatirce del movimento femminista ndr.) e nella posizione fallologocentrica della cultura occidentale: dritta, eretta, centrata».
Però, per poter fare arte “Fuori”, cioè in maniera anticonformista, non c’è niente di più conformista che far finta di essere anticonformisti. Ma anche per mostrarsi completamente autofobici verso se stessi dove scaricare «l’odio verso tutti gli aspetti fondanti della civiltà, della storia e dei costumi a cui si appartiene» (E. Capozzi, Politicamente corretto, storia di un’ideologia, Marsilio 2018).
Il FUORI a cui i curatori della mostra si ispirano è stato un movimento rivoluzionario fortemente anticlericale. Alcune sue copertine hanno fatto storia. Celebre quella in cui Giovanni Paolo II inchiodava alla croce un Gesù che al posto della scritta INRI recava invece OMOSESSUALE. Anticaglie, diremmo oggi. Col senso di colpa che la Chiesa ultimamente sta mostrando verso la causa gay e le recenti aperture, diciamo che anche le sacre gerarchie stanno recuperando tutto il terreno perduto e oggi – specie dopo lo scandalo del Docufilm “Francesco” – nessuno si sognerebbe nemmeno di mettere la Chiesa nella parte del centurione romano con in mano chiodi e pinze.
Ma tutto è funzionale a un modo di cambiare la mentalità dell’uomo e se dai alla Sinistra le chiavi per gestire questo cambiamento, stai pur tranquillo che te lo restituisce in forma di ideologia. L’arte espressa nelle opere è ispirata all’ideologia queer sposata dai curatori di via Nazionale.
Nel corso della conferenza stampa di presetazione quest'estate, la cuaratrice ha detto: «Le tematiche queer sono così poco contestualizzate in una lettura dell’arte italiana e storica, eppure è un tema centrale nella contemporanetà e nel dibattito artistico». Trionfa così l'essere indifferenziato, dall’identità mobile inserito in una umanità svincolata da ogni condizionamento naturale e culturale, senza precedenti nella storia della civiltà. In poche parole: un’umanità neutra, modellabile a piacere dalle ideologie del momento.
La mostra resterà aperta fino a gennaio, quando – a Dio piacendo – terminerà lo stato di emergenza. Per l’occasione il MIBACT di Franceschini ha stanziato la bellezza di un milione di euro, mentre gli altri 800 mila euro sono stati forniti da aziende di Stato come Eni e Terna. Il messaggio che questa operazione fa passare al paese è il seguente: siamo in quarantena bloccati a casa nel panico, non c’abbiamo una lira, ma lo Stato trova quasi 2 milioni di euro per farci andare a visitare una mostra di arte ispirata dalla rivoluzione omosessualista. Qualcosa deve essere andato storto.
Andrea Zambrano
https://lanuovabq.it/it/chiusi-in-casa-ma-potremo-uscire-per-mostre-gay-friendly
Spigolature
Il 41-bis per 60 milioni di persone fu una catastrofe sociosanitaria:
-13% PIL
+800.000 disoccupati a rischio depressione, suicidio
+20.000 morti d’infarto
18.000.000 prestazioni mediche rinviate a danno di malati anche gravi
Impennata problemi psichiatrici e di conseguenza rischio d’instaurare psicofarmacodipendenze a vita
+71 suicidi rispetto alla media
+10 milioni di studenti agli arresti domiciliari, esclusi da scuolahttps://twitter.com/revneD88/status/1316973075074867201
Crisanti ama i GAFA
Bonifacio Castellane @boni_castellane
Ad ogni cittadino italiano deve essere assegnato uno statale presso il quale andare a mangiare.
https://twitter.com/francesconann20/status/1320266962065362946
https://www.maurizioblondet.it/spigolature/
Un tempo la chiesa sapeva cosa dire.
Il problema è che abbiamo tutti una fottuta paura di morire. Impassibili, per non dire indifferenti, davanti alla morte degli altri – se i cinesi il loro maledetto virus se lo fossero tenuti in casa, invece di spedirlo in giro per il mondo, a chi sarebbe importato più di tanto dei loro morti? – siamo sgomenti e senza fiato di fronte alla nostra morte, quando è sentita non come una certezza teorica ma come una concreta possibilità imminente. La nostra morte e quella dei nostri cari, in proporzione alla loro prossimità con noi, ma non dimentichiamo che essa ci sgomenta e ci lascia senza fiato anche (o forse soprattutto) in quanto la sentiamo come anticipazione e caparra della nostra: la morte dei prossimi ci colpisce nella misura in cui con essi moriamo un po’ anche noi. (Non sembri cinico, quando è solo realistico).
Le generazioni del passato vivevano la loro intera esistenza in una continua prossimità alla morte. La morte era onnipresente alla vita di tutti, come concreta possibilità quotidiana: si poteva morire di tutto, in ogni momento. Quasi tutti, inoltre, vivevano in condizioni di disagio, fatica, sofferenza e paura per noi inimmaginabili. Senza bisogno di andare troppo lontano, nel medioevo o giù di lì, che sembra di raccontare una favola, la mia nonna ebbe sette figli e due le morirono in tenera età: Fara a un anno fu trovata morta nella culla; Agostino morì a quattro anni di difterite. Posso solo sforzarmi di immaginare lo strazio di quella mamma, che era la mia nonna. Lo strazio che lei sopportò per due volte, a distanza di pochi anni, io non riesco neanche a sopportare di pensarlo, se ci penso seriamente. Eppure quella percentuale, due su sette, era “normale” a quei tempi, anche per chi, come la mia nonna, era di condizione modesta ma relativamente agiata (a casa sua si mangiava a sufficienza tutti i giorni, e per quanto mi consta anche abbastanza bene).
Questo è solo per fare un esempio minimo, da moltplicare milioni e milioni di volte per avere un’idea dell’ordine di grandezza del carico di sofferenze e paure che gravava “normalmente” sugli uomini e le donne di un tempo. Non sono uno storico della medicina, quindi forse dico una sciocchezza, ma sospetto che del nostro virus venuto dalla Cina i nostri antenati non si sarebbero neppure accorti. Avrebbero forse notato che c’erano più morti del solito, ma, nella normalità dell’ecatombe di ogni anno, un’infezione che alla gran parte dei contagiati non dà sintomi o dà sintomi banali sarebbe probabilmente passata inosservata e la vita sarebbe andata avanti “normalmente”.
A quella umanità dolente e spaventata, la chiesa per venti secoli una parola da dire ce l’ha avuta. Una parola che poteva essere creduta o non creduta, ma che in ogni caso era fondata, coerente, ragionevole ed efficace. In soldoni era questa: “è vero che state male, ma le sofferenze presenti sono niente rispetto alla felicità eterna che vi aspetta. Questa vita, così breve e così precaria, non è la vera vita, ma solo una prova per meritarvi l’altra, quella vera, quella eterna, che sarà una festa illimitata per chi segue Gesù Cristo, il solo che abbia vinto la morte. Chi invece lo rifiuta andrà all’inferno, che vuol dire soffrire come soffrite adesso ma per l’eternità, e senza possibilità di riscatto”. Ripeto, si poteva sostenere (senza alcuna prova, peraltro) che l’altra vita non c’è, che è tutta un’invenzione dei preti, ma non si poteva obiettare altro. Se l’altra vita c’è, la chiesa aveva ragione su tutto. La parola che diceva era fondata coerente ed efficace. In una parola, era ragionevole. Dava una ragione adeguata per affrontare una vita durissima e una morte imminente. In una delle scene più belle di quel gran film che è (a mio modo di vedere) Silence di Martin Scorsese, uno dei giovani gesuiti (già abbastanza svalvolati fin da allora) che sono andati in Giappone, fatto prigioniero insieme ad un gruppo di contadini cristiani, viene interpellato da due sposi, poco più che ragazzi, che gli chiedono se è vero che in paradiso non c’è la fame, non ci sono le tasse e tutte le altre angherie della loro miserrima esistenza, e quando lui risponde di sì, loro gli rispondono “allora vogliamo andarci subito!”, anelando – con suo sconcerto – al martirio.
Ad un certo punto, la chiesa ha quasi smesso di dirla quella parola, se ne è quasi vergognata. I preti hanno incominciato a dire che non si deve parlar tanto dell’aldilà ma piuttosto dell’aldiquà, non dell’altro mondo ma di questo. Della morte, del giudizio, dell’inferno e soprattutto del paradiso si è parlato sempre meno. Forse è dipeso dal fatto che un ribaldo ha decretato che “la religione è l’oppio dei popoli” e che il paradiso cristiano è un volgare trucco dei padroni per tenere schiave le masse. Il paradiso, disse sempre quel ribaldo, gli uomini dovevano costruirselo qui, sulla terra, con la lotta e con il lavoro. Molti gli hanno dato retta, con quali esiti lo abbiamo visto: nell’Unione Sovietica di Stalin, nella Germania nazionalsocialista di Hitler, nella Cambogia di Pol Pot, nella Cina comunista di Mao (e oggi in altra forma in quella ipercapitalista di Xi Jinping), eccetera.
Da noi in occidente l’applicazione di quel programma di lotta contro l’oppio dei popoli ha condotto piuttosto a fare dell’oppio la religione dei popoli, come è stato argutamente notato. Paradise now non è solo lo slogan invecchiato degli hippies americani di mezzo secolo fa. Di fatto costituisce l’emblema di ogni progettualità mondana: ciò che conta è star bene (meglio che si può) qua.
Forse è accaduto che molti, anche nella chiesa, si sono lasciati convincere che la morte, il giudizio, l’inferno e il paradiso fossero ferrivecchi di cui sbarazzarsi perché temevano che i cristiani non stessero a quel hic et nunc che è essenziale alla fede. Un tempo, all’inizio della quaresima, il prete mettendoti la cenere sulla testa diceva “Ricordati uomo che sei polvere e in polvere ritornerai (anzi lo diceva in latino, che faceva più impressione: memento homo quia pulvis es et in pulverem reverteris. Ricordo ancora il vigore con cui me lo disse l’indimenticato don Francesco Ricci, incenerendomi un bel po’, ad un mercoledì delle ceneri di più di quaranta anni fa, quando ero studente universitario). Poi devono aver pensato “non bisogna spaventare la genete” e adesso dicono “convertiti e credi al vangelo”, che è giustissimo e dice esattamente la cosa da fare qui e ora. Però …
Però siamo ridotti che quando la morte, la nostra morte, quella reale, quella concreta, quella che ci sgomenta e ci lascia senza fiato, si fa prossima, la chiesa sembra non saper più cosa dire. Pazienza per la morte dei vecchi: i vecchi sono gli altri, per definizione. Ma non avete mai percepito l’imbarazzo, lo smarrimento, quasi la vergogna che si taglia a fette ai funerali di un giovane, di un bambino, di qualcuno che non doveva morire e che Dio si è permesso di lasciar morire? Non avete mi sentito il prete (o il vescovo) di turno dire che “di fronte al mistero della morte siamo tutti senza parole, non abbiamo una spiegazione, non abbiamo una risposta, non abbiamo niente se non la nostra solidarietà, il nostro abbraccio, eccetera”?
L’abbraccio, appunto. Che è una cosa bellissima e umanissima, intendiamoci. Un gran conforto, in certe circostanze. Ma a parte il fatto che a causa del virus cinese ora l’abraccio può essere solo virtuale (e ciò che è virtuale non è reale), l’abbraccio da solo non dà una ragione che sia una per vivere la sofferenza e la morte. La morte io dico sempre che è per noi radicalmente impensabile, per il buon motivo che non c’entra niente con noi: noi siamo stati fatti per la vita e non per la morte, ed essa si è introdotta nel mondo solo a causa del peccato. Dunque non è possibile alcuna filosofia della morte. Ma la morte è stata vinta, perché Gesù Cristo ha aperto una via attraverso la morte. E al di là della morte c’è la vita. Quella vera.
Non mi stupisce che abbiamo tutti una fottuta paura di morire. Questa è la carne, sono le viscere. Mi stupisce che, da cristiani, abbiamo così poca voglia di andare in paradiso. Non mi pare che il paradiso sia l’oggetto preminente dei nostri pensieri; certo non compare quasi mai nelle nostre conversazioni. Non è strano? Se il Paradiso è un paradiso, perché abbiamo così poco desiderio di andarci al più presto? Il naturale orrore carnale della morte non dovrebbe essere in noi quanto meno bilanciato dall’ardore spirituale del cupio dissolvi et esse cum Christo?
(Quando Dio fa cose come prendere un bambino, da una normale famiglia borghese solo vagamente cristiana, instillargli un ardente amore per Lui e poi farlo morire a quindici anni, come ha fatto con Carlo Acutis, non ci dà un messaggio abbastanza chiaro?).
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In un recente documentario è emerso un contesto più ampio di osservazioni di Papa Francesco sulle unioni civili, mentre le domande continuano a circondare il documentario, e il Vaticano non ha risposto alle richieste di commento.
Un articolo pubblicato sul Catholic News Agency, nella mia traduzione.
In un recente documentario è emerso un contesto più ampio di osservazioni di Papa Francesco sulle unioni civili, mentre le domande continuano a circondare il documentario, e il Vaticano non ha risposto alle richieste di commento.
“Quello che dobbiamo creare è una legge sull’unione civile. In questo modo sono legalmente coperti”, si vede dire il papa in un documentario uscito mercoledì, durante una scena in cui parla della cura pastorale per coloro che si identificano come LGBT.
“Mi sono battuto per questo”, aggiunge papa Francesco.
Il documentario, “Francesco”, ha fatto notizia a livello mondiale per l’apparente richiesta del papa di una legislazione sulle unioni civili, in contrasto con la posizione dei suoi predecessori papali sulla questione.
Mentre il regista Evgeny Afineevsky ha detto alla CNA e ad altri giornalisti che Papa Francesco ha fatto commenti che chiedevano l’approvazione di leggi sulle unioni civili direttamente a lui, in seguito è emerso che i commenti erano in realtà parte di un’intervista di Papa Francesco del 2019 condotta dalla giornalista messicana Valentina Alazraki.
In seguito è emerso che diverse frasi pronunciate dal papa nel documentario sono state unite, fuori contesto, a partire dall’intervista del 2019, e da allora i giornalisti si sono posti domande sulla natura precisa delle osservazioni del papa sulle unioni civili.
L’osservazione sulle unioni civili non era contenuta nella versione pubblicata dell’intervista di Alazraki e non è stata resa pubblica. Ma America Magazine ha pubblicato il 24 ottobre il contesto apparente dell’osservazione del papa sulle unioni civili.
Durante una discussione sull’opposizione del papa a una proposta di matrimonio tra persone dello stesso sesso quando era arcivescovo in Argentina, Alazraki chiese a papa Francesco se avesse adottato posizioni più liberali dopo essere diventato papa e, in caso affermativo, se ciò fosse attribuibile allo Spirito Santo.
Chiese Alazraki: “Lei ha condotto un’intera battaglia contro i matrimoni egualitari, di coppie dello stesso sesso in Argentina. E poi dicono che Lei è arrivato qui, l’hanno eletto papa ed è apparso molto più liberale di quello che era in Argentina. Si riconosce in questa descrizione che fanno alcune persone che La conoscevano prima, ed è stata la grazia dello Spirito Santo che Le ha dato una spinta? (ride)”.
Secondo America Magazine, il papa ha risposto: “La grazia dello Spirito Santo esiste certamente. Ho sempre difeso la dottrina. Ed è curioso che nella legge sul matrimonio omosessuale…. È un’incongruenza parlare di matrimonio omosessuale. Ma quello che dobbiamo avere è una legge sulla unione civile (ley de convivencia civil), quindi hanno il diritto di essere legalmente coperti”.
L’ultima frase è stata omessa quando l’intervista di Alazraki è stata trasmessa nel 2019.
Non è chiaro quando il papa ha detto “Mi sono battuto per questo”, o se questa frase si riferisca all’osservazione sulle unioni civili. La rivista non ha neppure indicato come aveva ottenuto il filmato omesso dall’intervista trasmessa pubblicamente.
Un’analisi della CNA ha rilevato che i commenti del papa presentati nel documentario prima delle sue osservazioni sulle unioni civili erano stati pesantemente modificati, con varie frasi dell’intervista del 2019 messe insieme e presentate come un insieme coeso.
Anche la traduzione della frase del papa “convivencia civil” è stata contestata.
Alcuni commentatori hanno suggerito che la frase del papa in spagnolo non è tradotta correttamente come “unione civile”. Tuttavia, l’arcivescovo Victor Manuel Fernandez, a lungo consigliere teologico di Papa Francesco, ha postato su Facebook il 21 ottobre che le unioni civili sono la traduzione corretta. Da allora quel post è stato cancellato.
L’ufficio stampa vaticano non ha risposto alle richieste di chiarimenti sui commenti del papa.
Di Sabino Paciolla
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