QUAL E' IL FINE ULTIMO DI TUTTO?
Qual è il fine ultimo di tutte le cose?
di
Francesco Lamendola
Le cose, per il solo fatto di esistere, attestano l’esistenza di una finalità. Nessuno fabbrica le cose senza uno scopo: il coltello viene fatto per tagliare, la penna per scrivere, la macchina per viaggiare. Perfino lo scarabocchio che si fa sulla pagina bianca, senza pensare a niente, mentre si partecipa ad una riunione noiosa, lo si fa per una ragione e con un fine: combattere la noia, dare uno svago alla mente infastidita. E le cose che non sono state fatte dall’uomo? I fiori, gli alberi, le montagne, le stelle, le galassie? Ciascuna di esse rivela un ordine mirabile e un’armonia delicatissima fatta di senso delle proporzioni e un’estetica che si unisce alla funzionalità: basta osservare al microscopio un fiocco di neve, o una semplice goccia d’acqua, oppure, al telescopio, un ammasso stellare o una nebulosa a spirale. Tanta bellezza e tanta complessità denotano un qualcosa che oltrepassa di molto il puro e semplice caso e che eccede la mera funzionalità: qualcosa di misterioso e tuttavia inequivocabilmente preciso, razionale, tale da suggerire una vera e propria intenzionalità. Perché mai la natura dovrebbe produrre simili meraviglie se non vi fosse nessuna mente capace di coglierle e apprezzarle? Si dirà che il profumo e i vivaci colori dei fiori sono fatti per attirare gli insetti destinati a impollinarli e dunque che non c’è bisogno di una mente che contempli tanta bellezza e perfezione. Però sta di fatta che una simile mente c’è: quella dell’uomo. Sarebbe dunque un caso che la mente umana riesca a gioire nell’esplorare i segreti della natura e nello scoprire che vi si trova una tale bellezza distribuita a profusione? E la stessa mente umana, può essere fatta da sé, per accrescimento delle cellule neuronali, semplicemente evolvendo secondo un cieco meccanismo nato dal caso, così come dal caso sarebbe nata la vita, e prima ancora la materia stessa? Eppure i cosmologi, risalendo al momento zero del Big Bang, cioè all’inizio del tempo, devono ammettere che non ne sanno nulla, assolutamente nulla: possono solo ipotizzare che dopo alcune frazioni infinitesime di secondo esisteva già un universo in espansione, che cresceva in dimensioni, in complessità e in armonia a ritmo impressionante, e che già conteneva in sé, quando aveva ancora le dimensioni di una palla da tennis, tutte le leggi della fisica, della chimica, della termodinamica e dell’elettromagnetismo, proprio come un feto di pochi giorni già possiede in sé, potenzialmente, tutti gli organi e tutte le funzioni dell’individuo adulto e sviluppato. Tutto ciò indica un ordine, una razionalità e un senso del bello: vale a dire un fine; non indica il caso, perché ipotizzare che il caso ne sia stato all’origine è come ipotizzare che una scimmietta, battendo per gioco sui tasti di una macchina da scrive, possa comporre qualcosa di simile alla Divina Commedia, sia pure disponendo d’un tempo lunghissimo, pari a milioni e miliardi di anni. No: esiste un confine invalicabile fra ciò che è improbabile e ciò che è impossibile; e immaginare che il mondo sia nato dal caso, senza scopo e senza un perché, comporta una deliberata forzatura da ciò che è improbabile a ciò che è assolutamente impossibile.
Qual è il fine ultimo di tutte le cose?
Dunque, le cose esistono ed esistono per un fine. Quale sarà mai questo fine? Evidentemente, sarà il fine di chi ne è l’autore. Per la sana ragione naturale, madre della filosofia, tale autore si chiama Causa Prima ed è all’origine di tutto ciò che esiste sia sul piano materiale che su quello intellettuale, spirituale e morale. Per il filosofo, la Causa Prima è l’essere; per il credente, è Dio. Ora, la Causa Prima persegue il bene: non il bene di questo o quell’ente, ma il bene di tutti contemporaneamente; perché la creazione degli enti presuppone una sovrabbondanza e una gratuità che si possono spiegare solo come un atto di amore. E come potrebbe non desiderare il bene degli enti, ciò che ne è all’origine? La questione, però, dovrebbe essere formulata in termini più precisi, chiedendosi non solo quale sia il bene degli enti, ma anche il loro fine: perché è evidente che il bene di un ente coincide con il suo fine ultimo. Ricordiamo che il fine di una cosa non è la stessa identica cosa del suo scopo. Lo scopo viene dal greco skopós, che è il bersaglio: scopo di una cosa è pertanto andare al bersaglio, centrare l’obiettivo. Ma il fine indica un concetto più ampio e più completo. Fine viene dal latino finis che è il calco del greco télos, e designa non solo lo scopo, ma anche il senso di una cosa: perciò non solo centrare il bersaglio, ma anche, al tempo stesso, realizzare la finalità che gli è propria. Infatti si può centrare l’obiettivo, ma solo esteriormente e meccanicamente; mentre quando lo si è centrato e insieme si è realizzato il proprio fine, allora e solo allora si può dire di aver concretizzato il senso profondo di una certa cosa, ad esempio della propria vita. Non basta aver vissuto come era giusto vivere e aver fatto tutto ciò che era giusto fare: bisogna anche aver realizzati se stessi, cioè aver fatto tutto quel che si è fatto con piena convinzione e senza ripensamenti, rimpianti o rimorsi. Inoltre nel concetto di fine è incluso il concetto di fine ultimo: dello scopo basta dire che è stato raggiunto, ma il fine è stato raggiunto solo quando è stato raggiunto il fine ultimo, non bastando conseguire un obiettivo intermedio e provvisorio. Dunque nel concetto di fine è implicito il concetto di completezza e di finalità conclusiva. Perciò, per capire quale sia il fine degli enti, bisogna chiedersi quale sia il fine ultimo dell’autore degli enti: quale sia il fine ultimo della Causa Prima.
Per il filosofo, la Causa Prima è l’essere; per il credente, è Dio.
Giunti a questo punto del nostro ragionamento, dobbiamo riportare alla memoria tutto ciò che abbiamo già detto, in molte precedenti occasioni, a proposito del concetto di verità. Fra le altre cose, abbiamo visto che la verità è uno degli attributi dell’essere, anzi ne è l‘attributo principale, dal quale tutti gli altri derivano: perché niente è buono, niente è ben fatto, niente raggiunge il proprio fine, fuori della verità e senza la verità; mentre tutto ciò che è nella verità e secondo verità, è buono in se stesso e felicemente realizzato. Appare dunque evidente che il fine ultimo del primo autore dell’universo non può essere altro che la verità. Ma abbiano visto che il fine degli enti è anche il loro bene: dunque il bene degli enti è il raggiungimento della verità, così come il fine ultimo della Causa Prima è l’affermazione della verità. In altre parole, il nostro bene coincide con il fare la volontà del nostro creatore, il Quale a sua volta sa che in ciò, e non in altro, consiste il nostro autentico bene; e la Sua volontà è che noi cerchiamo e riconosciamo il vero, che poi è una sola cosa con il cercare e riconoscere Lui, come Autore di tutto ciò che esiste, infinitamente degno di essere amato, adorato e servito. La nostra esperienza pratica ci insegna, infatti, che molto spesso noi scambiamo per il nostro bene ciò che poi, alla prova dei fatti, si rivela essere tutt’altro che un bene: noi siamo sovente cattivi giudici di quel che è bene per noi per la semplice ragione che giudichiamo le cose terra terra, senza saperci innalzare ad una visione superiore. In particolare, noi riteniamo un bene scansare le difficoltà e i dolori, e procurarci le cose piacevoli e gratificanti: ma di fatto la vita ci offre la possibilità di diventare delle persone migliori proprio passando attraverso la prova e il sacrificio, e ci vaglia con il severo setaccio della croce. Queste cose il cristiano le sa benissimo, o almeno dovrebbe saperle: perché tale è stata la vita di Gesù Cristo, tale il significato del modello che essa rappresenta per noi: fare sempre la volontà del Padre, amare il bene e odiare il male ed essere disposti a sacrificarsi per testimoniare la verità. Queste riflessioni ci aiutano anche a comprendere sempre meglio fino a che punto la filosofia moderna si è allontanata dai suoi fini e dalla sua ragion d’essere; e, viceversa, quanto fosse centrata e appropriata la filosofia medievale, specialmente quella che più d’ogni altra ha posto al centro del suo discorso la ricerca e l’affermazione della verità, secondo la luce della ragione naturale e in accordo con la Rivelazione: quella di san Tommaso d’Aquino, il gigante del pensiero europeo e il massimo erede e continuatore della migliore tradizione classica. Scrive a questo proposito Alessandro Ghisalberti - professore ordinario di Filosofia teoretica e di Storia della Filosofia Medievale presso l’Università Cattolica di Milano dal 1989 al 2012, e direttore della Rivista di filosofia neo-scolastica dal 2000 al 2011 - nel suo libro La filosofia medievale(Firenze, Gruppo Editoriale Giunti, 2002, pp. 177-180):
La speculazione filosofica [per S. Tommaso] conserva una propria validità e autonomia, anche se ciò non deve avvenire a scapito dell’intelligenza della fede. Proprio riguardo ai rapporti fra la ragione e la fede, Tommaso si richiama alla necessaria unità della verità, dal momento che la molteplicità di verità è solo una molteplicità di enunciati, che all’uomo sono dati attraverso due fonti di conoscenza: la ragione, che gode della certezza dell’evidenza sensibile e intellettiva, e la fede, che si fonda sull’autorità del Dio rivelante. Il vero sapiente deve mirare a conoscere le cause ultime delle cose, e cioè il loro fine; noi sappiamo infatti che «il fine ultimo di ogni cosa è quello perseguito dal primo autore e motore di essa. Ma il primo autore e motore dell’universo è un’intelligenza, come dimostreremo in seguito. Quindi l’ultimo fine dell’universo è necessariamente un bene di ordine intellettuale: ossia è la verità.
Perciò è necessario che la verità sia l’ultimo fine di tutto l’universo, che la sapienza abbia come scopo principale la considerazione di essa» (Somma contro i Gentili, I, 1).
Il vero sapiente deve dunque tendere a conoscere le cose ultime, cioè quelle divine, e per fare ciò deve compiere uno sforzo, perché, per Tommaso, l’uomo non conosce Dio mediante una illuminazione interiore e cioè con una notizia innata della divinità.
Per San Tommaso: «La grazia non abolisce la natura, bensì la perfeziona»!
L’uomo si trova di fronte a due classi di verità riguardanti Dio: una classe di verità cui può arrivare l’indagine razionale, filosofica, e una classe di verità che superano totalmente il potere della ragione. Nella prima classe Tommaso colloca verità quali l’esistenza di Dio, gli attributi divini e l’immortalità dell’anima, e si dichiara convinto che si possono addurre per esse delle ragioni dimostrative, che invece non si danno per le verità della seconda classe, per le quali si possono addurre solo argomentazioni probabili.
Il sapiente deve adoperarsi perché vengano risolte le ragioni dell’avversario, cioè di colui che ritiene false le verità rivelate, dal momento che la ragione naturale non può essere contraria alle verità di fede. È questo un esempio della convinzione di fondo che presiede alla soluzione tomista dei rapporti fede-ragione, secondo quanto lo stesso Tommaso scrive: «Sebbene la verità della fede cristiana superi la capacità della ragione, tuttavia i principi naturali della ragione non possono essere in contrasto con codesta verità. Infatti i principi così innati nella ragione si dimostrano verissimi: al punto che è impossibile pensare che siano falsi.
E neppure è lecito ritenere che possa essere falso quanto si ritiene per fede, essendo confermato da Dio in maniera così evidente. Perciò essendo contrario al vero solo il falso, com’è evidente dalle loro rispettive definizioni, è impossibile che una verità di fede possa essere contraria a quei principi che la ragione conosce per natura» (Ibidem, I,7).
L’altro versante del problema presenta un interrogativo delicato: c’è un influsso della fede sulla ragione del credente, nell’ambito delle verità di suo dominio, nel momento cioè in cui attende alla ricerca filosofica e scientifica? Tommaso è esplicito nell’escludere un’interferenza della fede, che leda l’autonomia delle facoltà naturali: «La grazia non abolisce la natura, bensì la perfeziona»; applicando l’enunciato alla conoscenza umana, esso viene a dire che le realtà divine conoscibili per fede penetrano il soggetto conoscente secondo le leggi e le strutture psicologiche del soggetto stesso e non secondo la natura loro propria. L’uomo, dotato di un’intelligenza discorsiva e non intuitiva, la quale peraltro ha bisogno di dare avvio alla razionalità sfruttando le risorse delle conoscenze sensibili, non viene alterato nella sua struttura dalla penetrazione delle verità divine.
La verità di fede costituisce tuttavia un criterio anche per la ragione, perché, come si è visto, Tommaso è convinto che quegli enunciati che sono veri razionalmente non possono essere contrari alla fede; è convinto inoltre dell’impossibilità che una verità di fede sia contraria alla ragione, dal momento che la verità è una e non può essere in contraddizione con se stessa. Non può accadere che la ragione contraddica, con argomenti dimostrativi, le verità di fede; in questo modo Tommaso rivendica la piena autonomia scientifica della ragione nel suo campo, ed insieme è convinto che l’andare contro il dogma sia andare contro la ragione stessa:
«Poiché la fede poggia sulla verità infallibile, e poiché è impossibile dimostrare il falso a partire da una cosa vera, è chiaro che le prove che si portano contro la fede non sono dimostrazioni, bensì argomenti confutabili» (Summa teologica, I, q. 1, a. 8, ad 2).
Il vero sapiente deve mirare a conoscere le cause ultime delle cose, e cioè il loro fine; noi sappiamo infatti che «il fine ultimo di ogni cosa è quello perseguito dal primo autore e motore di essa. Ma il primo autore e motore dell’universo è un’intelligenza, come dimostreremo in seguito. Quindi l’ultimo fine dell’universo è necessariamente un bene di ordine intellettuale: ossia è la verità.
Cosa aggiungere a un discorso così limpido sulla verità e il fine ultimo degli enti? Ecco, forse una cosa si può precisare: l’intelligenza dell’uomo non è solo discorsiva, ma anche intuitiva. Esistono entrambe e, specie in alcuni, procedono in mirabile accordo, colmando l’una le carenze dell’altra. A parte ciò, quale profondità in San Tommaso; si mediti questa frase: il vero sapiente deve mirare a conoscere le causeultime delle cose, cioè il loro fine. I moderni in confronto sono solo fiori appassiti.
Del 24 Agosto 2021
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