“Al di là della disputa sui riti, è in gioco la credibilità della Chiesa. Se essa afferma la continuità tra quella che viene comunemente chiamata la Messa di San Pio V e la Messa di Paolo VI, allora la Chiesa deve essere in grado di organizzare la loro coabitazione pacifica e il loro reciproco arricchimento. Se si dovesse escludere radicalmente l’una a favore dell’altra, se si dovesse dichiararle inconciliabili, si riconoscerebbe implicitamente una rottura e un cambiamento di orientamento.”
Rilancio un potente intervento del card. Robert Sarah ripreso dal National Catholi Register. Eccolo nella mia traduzione.
Il dubbio si è impadronito del pensiero occidentale. Intellettuali e politici descrivono la stessa impressione di collasso. Di fronte al crollo della solidarietà e alla disintegrazione delle identità, alcuni si rivolgono alla Chiesa cattolica. Le chiedono di dare una ragione per vivere insieme agli individui che hanno dimenticato ciò che li unisce come un solo popolo. La pregano di fornire un po’ più di anima per rendere sopportabile la fredda durezza della società dei consumi. Quando un prete viene assassinato, tutti sono toccati e molti si sentono colpiti nel profondo.
Ma la Chiesa è capace di rispondere a queste chiamate? Certamente, ha già svolto questo ruolo di custode e trasmettitore di civiltà. Al crepuscolo dell’Impero Romano, ha saputo trasmettere la fiamma che i barbari minacciavano di spegnere. Ma ha ancora i mezzi e la volontà per farlo oggi?
Alla base di una civiltà, ci può essere solo una realtà che la supera: un’invariante sacra. Malraux lo notava con realismo: “La natura di una civiltà è quella che si raccoglie intorno a una religione. La nostra civiltà è incapace di costruire un tempio o una tomba. O sarà costretta a trovare il suo valore fondamentale, o decadrà”.
Senza un fondamento sacro, i confini protettivi e insuperabili sono aboliti. Un mondo interamente profano diventa una vasta distesa di sabbie mobili. Tutto è tristemente aperto ai venti dell’arbitrio. In assenza della stabilità di un fondamento che sfugge all’uomo, la pace e la gioia – i segni di una civiltà duratura – sono costantemente inghiottiti da un senso di precarietà. L’angoscia del pericolo imminente è il sigillo della barbarie. Senza un fondamento sacro, ogni legame diventa fragile e volubile.
Alcuni chiedono alla Chiesa cattolica di svolgere questo ruolo di solido fondamento. Vorrebbero che assumesse una funzione sociale, cioè essere un sistema coerente di valori, una matrice culturale ed estetica. Ma la Chiesa non ha altra realtà sacra da offrire che la sua fede in Gesù, Dio fatto uomo. Il suo unico scopo è rendere possibile l’incontro degli uomini con la persona di Gesù. L’insegnamento morale e dogmatico, così come il patrimonio mistico e liturgico, sono lo scenario e i mezzi di questo incontro fondamentale e sacro. La civiltà cristiana nasce da questo incontro. La bellezza e la cultura sono i suoi frutti.
Per rispondere alle attese del mondo, la Chiesa deve dunque ritrovare il cammino verso se stessa e riprendere le parole di San Paolo: “Non ho voluto conoscere altro, mentre ero con voi, che Gesù Cristo e Gesù crocifisso”. Deve smettere di pensare a se stessa come a un sostituto dell’umanesimo o dell’ecologia. Queste realtà, sebbene buone e giuste, non sono per lei null’altro che conseguenze del suo unico tesoro: la fede in Gesù Cristo.
Ciò che è sacro per la Chiesa, dunque, è la catena ininterrotta che la lega con certezza a Gesù. Una catena di fede senza rotture o contraddizioni, una catena di preghiera e di liturgia senza rotture o sconfessioni. Senza questa continuità radicale, quale credibilità potrebbe ancora vantare la Chiesa? In lei non c’è ritorno, ma uno sviluppo organico e continuo che chiamiamo tradizione vivente. Il sacro non può essere decretato, è ricevuto da Dio e trasmesso.
Questa è senza dubbio la ragione per cui Benedetto XVI ha potuto autorevolmente affermare:
In un momento in cui alcuni teologi cercano di riaprire le guerre liturgiche contrapponendo il messale rivisto dal Concilio di Trento a quello in uso dal 1970, è urgente ricordarlo. Se la Chiesa non è capace di conservare la continuità pacifica del suo legame con Cristo, non potrà offrire al mondo “il sacro che unisce le anime”, secondo le parole di Goethe.
Al di là della disputa sui riti, è in gioco la credibilità della Chiesa. Se essa afferma la continuità tra quella che viene comunemente chiamata la Messa di San Pio V e la Messa di Paolo VI, allora la Chiesa deve essere in grado di organizzare la loro coabitazione pacifica e il loro reciproco arricchimento. Se si dovesse escludere radicalmente l’una a favore dell’altra, se si dovesse dichiararle inconciliabili, si riconoscerebbe implicitamente una rottura e un cambiamento di orientamento. Ma allora la Chiesa non potrebbe più offrire al mondo quella continuità sacra, che sola può darle pace. Mantenendo viva una guerra liturgica al suo interno, la Chiesa perde la sua credibilità e diventa sorda alla chiamata degli uomini. La pace liturgica è il segno della pace che la Chiesa può portare al mondo.
La posta in gioco è dunque molto più seria di una semplice questione di disciplina. Se dovesse rivendicare un capovolgimento della sua fede o della sua liturgia, a quale titolo la Chiesa oserebbe rivolgersi al mondo? La sua unica legittimità è la sua coerenza nella sua continuità.
Inoltre, se i vescovi, incaricati della coabitazione e dell’arricchimento reciproco delle due forme liturgiche, non esercitano la loro autorità in questo senso, corrono il rischio di non apparire più come pastori, custodi della fede che hanno ricevuto e delle pecore loro affidate, ma come leader politici: commissari dell’ideologia del momento piuttosto che custodi della tradizione perenne. Rischiano di perdere la fiducia degli uomini di buona volontà.
Un padre non può introdurre sfiducia e divisione tra i suoi figli fedeli. Non può umiliare alcuni mettendoli contro altri. Non può ostracizzare alcuni dei suoi sacerdoti. La pace e l’unità che la Chiesa pretende di offrire al mondo devono prima essere vissute all’interno della Chiesa.
In materia liturgica, né la violenza pastorale né l’ideologia di parte hanno mai prodotto frutti di unità. La sofferenza dei fedeli e le aspettative del mondo sono troppo grandi per impegnarsi in queste strade senza uscita. Nessuno è troppo nella Chiesa di Dio!
Di Sabino Paciolla
Il Testo Originale di Traditionis Custodes in Latino (è uno Scherzo…9
Cari amici e nemici di Stilum Curiae, la stagione estiva ci consente un po’ di leggerezza, anche per controbilanciare i tempi che stiamo vivendo, che sono assai pesanti, vi offriamo questo scoop di Vincenzo Fedele, che ringraziamo veramente di cuore per offrirci un momento di sorriso, per quanto amaro. Buona lettura…
§§§
TRADUTIONES TRADITIONIS
Gent. Dott. Tosatti ,
Le vorrei sottoporre questo scup (mi sembra si dica così) mondiale che Le giro in esclusiva.
Tutto è nato da una mia diffidenza. Non è per non fidarsi della Sala Stampa Vaticana ….. è solo per non fidarsi.
Mi è sembrato subito strano che il Motu Proprio”Traditionis Custodes”, fosse stato editato in Italiano, Inglese, Spagnolo e Tedesco, ma non in Latino. E perchè il cinese no ? E l’arabo ? Eppure queste sono le due maggiori aree di dialogo della Santa Sede di oggi. I fratelli separati russi non si considerano quando si discute della messa che loro continuano a tramandare ? Vista l’importanza del documento sulla Messa delle origini, occorreva andare …. alle origini per vedere che il testo non fosse stato “addomesticato”.
Le lingue scelte per la divulgazione mi sono sembrati indizi di quale “manina” avesse potuto edulcorare il testo, avendone accesso. Il tedesco con un espertissimo Marx e Braz de Aviz per lo spagnolo sono state le più facilitate. Per l’inglese il compito era più arduo, quindi ritengo sia stato un lavoro di equipe cui hanno potuto partecipare Padre Martin, Avereight ed altri. Per l’italiano non saprei dire di preciso, ma ritengo che oltre Tevere qualcuno che parli italiano si trovi ancora. Poi, da cosa nasce cosa: una Parolin aggiunta qui, una Parolin tolta la e tutto si mette a posto.
Ho anche pensato che, il livello del latino non dovesse essere eccelso in ambito vaticano, dopo le cantonate sulla lettera delle dimissioni di S.S. Benedetto XVI, di cui ancora oggi si discute e che a molti risultano incomprensibili mentre per altri sono fin troppo comprensibili, ma in senso opposto.
Allora sono riuscito (orizzonti della scienza e della tecnica), a procurarmi l’originale in lingua latina finora tenuto sigillato e, come ho scoperto, ben a ragione.
La traduzione di Traditionis, infatti, è sconvolgente e forse la radice del termine va ricercata in “tradimento”.
Non si tratta solo di ablativi scambiati per Oblati, transitivi che diventano trans-attivi o accusativi trascurati, visto che, ormai, sono di casa solo per pedofilia et similaria.
Ho scoperto che intere frasi sono state fresate, negazioni sono state negate ed affermazioni sono state fermate.
Insomma, la tradutiones della Traditiones, doveva essere al caviale, per fare da cavia, tradita e rimanere senza risposta.
Era già accaduto che qualche “dubia” fosse rimasto tale ed accadrà di nuovo.
Per farla breve le allego di seguito il vero testo, personalmente e precipitevolissimevolmente da me tradotto dall’originale latino.
Confesso che qualche errore potrei anche averlo commesso, ma ho dovuto lavorare in una catacomba ed al lume di candela (diamo anche una botta al cuore oltre che alla ragione).
Confesso anche che ho preso ispirazione dai frammenti di vangelo che il compianto Cardinale Biffi commenta ne “Il quinto evangelo” dove, dalle ricerche, si evince che il messaggio che si voleva trasmettere, e che finalmente oggi è stato compreso, era ben diverso. Qualche parola in più o in meno e si capisce subito cosa si voglia dire:
- Il tempo è compiuto, il regno è vicino, fate fare penitenza e credete nel vangelo. Marco 1,14-15);
- – Giovanni gridò: ecco il leone di Giuda, ecco colui che mette giustizia in questo mondo (Giovanni 1,29);
- Chi è contro di noi, è per noi (Matteo 12,30 – Marco 9,40)
- Ti ringrazio o Padre perchè hai voluto rivelare i misteri del Regno ai dotti e agli intelligenti, così li potranno spiegare ai semplici; (Matteo 11,25);
- Il Regno dei cieli è simile a un pastore che avendo cento pecore e avendone perdute novantanove, rimprovera l’ultima pecora per la sua scarsità di iniziativa, la caccia via e, chiuso l’ovile, se ne va all’osteria a discutere di pastorizia (Matteo 18,12-13);
- A che giova all’uomo salvare la propria anima, se poi non riesce a conquistare il mondo ? (Matteo 16,26)
- Se il mondo vi odia è segno che non lo capite. Conformatevi al mondo , e il mondo vi salverà. (Giovanni 15,18-19)
- Andate nel mondo intero e discutete, dal libero confronto dei pareri germoglierà la verità. (Matteo 28,19-20)
. . . . . . . . . . .
A dire il vero, il Cardinale Biffi aveva anche confessato che le reazioni alle sue scoperte, non erano state unanimemente entusiaste e che, ogni volta che incontrava un confratello, non sapeva mai se sarebbe stato abbracciato calorosamente, oppure preso a schiaffoni.
Io sono certo di meritare qualche schiaffone, e forse molti di più, ma per motivi diversi da questa traduzione. Comunque, ad una certa età, bisogna cominciare a preoccuparsi di stare in grazia di Dio.
In ogni caso, se qualcuno avesse dei dubbi su quanto tradotto, sono disponibile al confronto davanti alla versione originale latina su cui non temo confronti, visto che la mia conoscenza della lingua è pari a quella del turco e dello swuaili.
Un ultimo chiarimento ad una domanda che pure mi sono posto: Perchè Papa Francesco non ha reagito quando si è reso conto (perchè spero che se ne sia reso conto) che le sue parole sono arrivate in modo diverso dal contesto che lui descrive rispetto ai suoi predecessori ? Certamente (ma è solo un mio pensiero) per la sua infinita misericordia verso i fratelli che sbagliano. “Chi sono io per giudicare?”
Caro Tosatti : se non si fida di me, io la capisco (e come se la capisco). Veda lei se pubblicarla o attendere riscontri ulteriori.
Ma uno scup come questo non le capiterà più.
Il suo traduttores anti traditores
Vincenzo Fedele
LETTERA APOSTOLICA
IN FORMA DI «MOTU PROPRIO»
DEL SOMMO PONTEFICE
FRANCESCO
«TRADITIONIS CUSTODES»
SULL’USO DELLA LITURGIA ROMANA SUCCESSIVA ALLA RIFORMA DEL 1970
Custodi della tradizione, i vescovi, in comunione con il vescovo di Roma, costituiscono il visibile principio e fondamento di unità nelle loro Chiese particolari.[1] Sotto la guida dello Spirito Santo, mediante l’annuncio del Vangelo e per mezzo della celebrazione della Eucaristia, essi reggono le Chiese particolari, loro affidate.[2]
Per promuovere la concordia e l’unità della Chiesa, con paterna sollecitudine verso coloro che in alcune regioni aderirono alle forme liturgiche successive alla riforma proposta dal Concilio Vaticano II, i miei Venerati Predecessori, san Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, hanno concesso e regolato la necessità di utilizzare il Messale Romano edito da san Giovanni XXIII nell’anno 1962.[3] In questo modo hanno inteso «facilitare la comunione ecclesiale a quei cattolici che si sentono vincolati ad alcune successive forme liturgiche» e non ad altre.[4]
Nel solco dell’iniziativa del mio Venerato Predecessore Benedetto XVI di invitare i vescovi a una verifica dell’applicazione del Motu Proprio Summorum Pontificum, a tre anni dalla sua pubblicazione, la Congregazione per la Dottrina della Fede ha svolto una capillare consultazione dei vescovi nel 2020, i cui risultati sono stati ponderatamente considerati alla luce dell’esperienza maturata in questi anni.
Ora, considerati gli auspici formulati dall’episcopato e ascoltato il parere della Congregazione per la Dottrina della Fede, apprezzati i copiosi frutti che tale consessione ha portato, anticipando una insperata primavera che sembra allontanare il gelido inverno che era seguito alla chiusura del Concilio Vaticano II, desidero, con questa Lettera Apostolica, proseguire ancor più nella costante ricerca della comunione ecclesiale. Perciò, con riconoscente gratitudine verso quanti hanno mantenuto il seme dei secoli antichi, ma comprendendo la buona fede di quanti si sono pur ostinati nel proseguire su fantasiosi ammodernamenti, ho ritenuto opportuno stabilire quanto segue:
Art. 1. I libri liturgici promulgati dai santi Pontefici Paolo VI e Giovanni Paolo II, pur eccedendo quanto auspicato dai decreti del Concilio Vaticano II, rimangono una delle espressioni della lex orandi del Rito Romano.
Art. 2. Al vescovo diocesano, quale moderatore, promotore e custode di tutta la vita liturgica nella Chiesa particolare a lui affidata,[5] spetta regolare le celebrazioni liturgiche nella propria diocesi.[6] Pertanto, è sua esclusiva competenza continuare ad autorizzare l’uso del Missale Romanum del 1962 nella diocesi, seguendo gli orientamenti dalla Sede Apostolica.
Art. 3. Il vescovo, nelle diocesi in cui vi è tuttora la presenza di uno o più gruppi che celebrano secondo il Messale successivo alla riforma del 1970:
- 1. accerti che tali gruppi non escludano la validità e la legittimità della tradizione liturgica, dei dettati del Concilio Vaticano II e non delle stravolgenti interpretazioni successive e siano in continuità degli insegnamenti e del Magistero dei Sommi Pontefici;
- 2. indichi uno o più luoghi dove i fedeli aderenti a questi gruppi della messa riformata possano radunarsi per la celebrazione eucaristica (non però nelle chiese parrocchiali e senza erigere nuove parrocchie personali);
- 3. stabilisca nel luogo indicato i giorni in cui sono consentite le celebrazioni eucaristiche riformate, in affiancamento all’uso del Messale Romano promulgato da san Giovanni XXIII nel 1962.[7] In queste celebrazioni le letture siano proclamate in lingua vernacola, usando le traduzioni della sacra Scrittura per l’uso liturgico, anteriori al 1970, approvate dalle rispettive Conferenze Episcopali;
- 4. nomini un sacerdote che, come delegato del vescovo, sia incaricato delle celebrazioni e della cura pastorale di tali gruppi di fedeli. Il sacerdote sia idoneo a tale incarico, ma sia anche competente in ordine all’utilizzo del Missale Romanum antecedente alla riforma del 1970, abbia una conoscenza della lingua latina tale che gli consenta di comprendere pienamente le rubriche e i testi liturgici, sia animato da una viva carità pastorale, e da un senso di comunione ecclesiale. È infatti necessario che il sacerdote incaricato abbia a cuore non solo la dignitosa celebrazione della liturgia, ma la cura pastorale e spirituale dei fedeli.
- 5. proceda, nelle parrocchie personali canonicamente erette a beneficio di questi fedeli, a una congrua verifica in ordine alla effettiva utilità per la crescita spirituale, e valuti se mantenerle o meno.
- 6. avrà cura di non autorizzare la costituzione di nuovi gruppi.
Art. 4. I presbiteri ordinati dopo la pubblicazione del presente Motu proprio, che intendono celebrare con il Messale successivo alla riforma del 1970, oltre a celebrare con il Missale Romanum del 1962, devono inoltrare formale richiesta al Vescovo diocesano il quale prima di concedere l’autorizzazione consulterà la Sede Apostolica.
Art. 5. I presbiteri i quali già celebrano secondo il Missale Romanum del 1962, richiederanno al Vescovo diocesano l’autorizzazione a istruire i confratelli che risultino carenti in questa celestiale incombenza.
Art. 6. Gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica, ritornano sotto la competenza della ripristinata Pontificia Commissione Ecclesia Dei, così come la Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata.
Art. 7. La Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti e la Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica, per le materie di loro competenza, eserciteranno l’autorità della Santa Sede, secondo il presente Motu Proprio e secondo quanto impartito dalla Pontificia Commissione Ecclesia Dei, vigilando anche sull’osservanza di queste disposizioni.
Art. 8. Le norme, istruzioni, concessioni e consuetudini precedenti, che risultino non conformi con quanto disposto dal presente Motu Proprio, sono abrogate.
Tutto ciò che ho deliberato con questa Lettera apostolica in forma di Motu Proprio, ordino che sia osservato in tutte le sue parti, nonostante qualsiasi cosa contraria, anche se degna di particolare menzione, e stabilisco che venga promulgata mediante pubblicazione sul quotidiano “L’Osservatore Romano”, entrando subito in vigore e, successivamente, venga pubblicato nel Commentario ufficiale della Santa Sede, Acta Apostolicae Sedis.
Dato a Roma, presso San Giovanni Laterano, il 16 luglio 2021 Memoria liturgica di Nostra Signora del Monte Carmelo, nono del Nostro Pontificato.
FRANCESCO
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[1]Cfr. CONC. ECUM. VAT. II, Cost. dogm. sulla Chiesa “Lumen Gentium”, 21 novembre 1964, n. 23: AAS 57 (1965) 27.
[2] Cfr. CONC. ECUM. VAT. II, Cost. dogm. Sulla Chiesa “Lumen Gentium”, 21 novembre 1964, n. 27: AAS 57 (1965) 32; CONC. ECUM. VAT. II, Decr. sulla missione pastorale dei Vescovi nella Chiesa “Christus Dominus”, 28 ottobre 1965, n. 11: AAS 58 (1966) 677-678; Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 833.
[3] Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Litt. Ap. Motu proprio datae “Ecclesia Dei”, 2 luglio 1988: AAS 80 (1998) 1495-1498; BENEDETTO XVI, Litt. Ap. Motu proprio datae “Summorum Pontificum”, 7 luglio 2007: AAS 99 (2007) 777-781; Litt. Ap. Motu proprio datae “Ecclesiae unitatem”, 2 luglio 2009: AAS 101 (2009) 710-711.
[4] GIOVANNI PAOLO II, Litt. Ap. Motu proprio datae “Ecclesia Dei”, 2 luglio 1988, n. 5: AAS 80 (1988) 1498.
[5] Cfr. CONC. ECUM. VAT. II, Cost. sulla sacra liturgia “Sacrosanctum Concilium”, 4 dicembre 1963, n. 41: AAS 56 (1964) 111; Caeremoniale Episcoporum, n. 9; CONGREGAZIONE PER IL CULTO DIVINO E LA DISCIPLINA DEI SACRAMENTI, Istr. su alcune cose che si devono osservare ed evitare circa la Santissima Eucaristia “Redemptionis Sacramentum”, 25 marzo 2004, nn. 19-25: AAS 96 (2004) 555-557.
[6] Cfr. CIC, can. 375, §1; can. 392.
[7] Cfr. CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Decreto “Quo magis” circa l’approvazione di sette nuovi prefazi per la forma straordinaria del Rito Romano, 22 febbraio 2020, e Decreto “Cum sanctissima” circa la celebrazione liturgica in onore dei santi nella forma straordinaria del Rito Romano, 22 febbraio 2020: L’Osservatore Romano, 26 marzo 2020, p. 6.
Lettera del Santo Padre Francesco ai Vescovi di tutto il mondo per presentare il Motu Proprio «Traditionis Custodes» sull’uso della Liturgia Romana anteriore alla Riforma del 1970
Roma, 16 luglio 2021
Cari Fratelli nell’Episcopato,
come già il mio Predecessore Benedetto XVI fece con Summorum Pontificum, anch’io intendo accompagnare il Motu proprio Traditionis custodes con una lettera, per illustrare i motivi che mi hanno spinto a questa decisione. Mi rivolgo a Voi con fiducia e parresia, in nome di quella condivisione nella «sollecitudine per tutta la Chiesa, che sommamente contribuisce al bene della Chiesa universale», come ci ricorda il Concilio Vaticano II[1].
Sono evidenti a tutti i motivi che hanno mosso san Giovanni Paolo II e Benedetto XVI a concedere la possibilità di usare il Messale Romano promulgato da san Pio V, edito da san Giovanni XXIII nel 1962, per la celebrazione del Sacrificio eucaristico. La facoltà, concessa con indulto della Congregazione per il Culto Divino nel 1984[2] e confermata da san Giovanni Paolo II nel Motu proprio Ecclesia Dei del 1988[3], era soprattutto motivata dalla volontà di favorire la ricomposizione dello scisma con il movimento guidato da Mons. Lefebvre. La richiesta, rivolta ai Vescovi, di accogliere con generosità le «giuste aspirazioni» dei fedeli che domandavano l’uso di quel Messale, aveva dunque una ragione ecclesiale di ricomposizione dell’unità della Chiesa.
Quella facoltà venne giustamente interpretata da molti dentro la Chiesa come la possibilità di usare liberamente il Messale Romano promulgato da san Pio V, determinando un uso parallelo al Messale Romano promulgato da san Paolo VI. Per regolare tale situazione, Benedetto XVI intervenne sulla questione a distanza di molti anni, regolando un fatto interno alla Chiesa, in quanto molti sacerdoti e molte comunità avevano «utilizzato con gratitudine la possibilità offerta dal Motu proprio» di san Giovanni Paolo II. Sottolineando come questo sviluppo non fosse prevedibile nel 1988, il Motu proprio Summorum Pontificum del 2007 intese introdurre in materia «un regolamento giuridico più chiaro»[4]. Per favorire l’accesso a quanti – anche giovani –, «scoprono questa forma liturgica, si sentono attirati da essa e vi trovano una forma particolarmente appropriata per loro, di incontro con il Mistero della Santissima Eucaristia»[5], Benedetto XVI dichiarò «il Messale promulgato da S. Pio V e nuovamente edito dal B. Giovanni XXIII come espressione straordinaria della stessa lex orandi», concedendo una «più ampia possibilità dell’uso del Messale del 1962»[6].
A sostenere la sua scelta era la convinzione che tale provvedimento non avrebbe messo in dubbio una delle decisioni essenziali del concilio Vaticano II, intaccandone in tal modo l’autorità: il Motu proprio riconosceva a pieno titolo che «il Messale promulgato da Paolo VI è la espressione ordinaria della lex orandi della Chiesa cattolica di rito latino»[7]. Il riconoscimento del Messale promulgato da san Pio V «come espressione straordinaria della stessa lex orandi» non voleva in alcun modo misconoscere la riforma liturgica, ma era dettato dalla volontà di venire incontro alle «insistenti preghiere di questi fedeli», concedendo loro di «celebrare il Sacrificio della Messa secondo l’edizione tipica del Messale Romano promulgato dal B. Giovanni XXIII nel 1962 e mai abrogato, come forma straordinaria della Liturgia della Chiesa»[8]. Lo confortava nel suo discernimento il fatto che quanti desideravano «trovare la forma, a loro cara, della sacra Liturgia», «accettavano chiaramente il carattere vincolante del Concilio Vaticano II ed erano fedeli al Papa e ai Vescovi»[9]. Dichiarava inoltre infondato il timore di spaccature nelle comunità parrocchiali, perché «le due forme dell’uso del Rito Romano avrebbero potuto arricchirsi a vicenda»[10]. Perciò invitava i Vescovi a superare dubbi e timori e a ricevere le norme, «vigilando affinché tutto si svolga in pace e serenità», con la promessa che «si potevano cercare vie per trovare rimedio», nel caso fossero «venute alla luce serie difficoltà» nell’applicazione della normativa dopo «l’entrata in vigore del Motu proprio»[11].
A distanza di tredici anni ho incaricato la Congregazione per la Dottrina della Fede di inviarVi un questionario sull’applicazione del Motu proprio Summorum Pontificum. Le risposte pervenute hanno rivelato una situazione che mi addolora e mi preoccupa, confermandomi nella necessità di intervenire. Purtroppo l’intento pastorale dei miei Predecessori, i quali avevano inteso «fare tutti gli sforzi, affinché a tutti quelli che hanno veramente il desiderio dell’unità, sia reso possibile di restare in quest’unità o di ritrovarla nuovamente»[12], è stato spesso gravemente disatteso. Una possibilità offerta da san Giovanni Paolo II e con magnanimità ancora maggiore da Benedetto XVI al fine di ricomporre l’unità del corpo ecclesiale nel rispetto delle varie sensibilità liturgiche è stata usata per aumentare le distanze, indurire le differenze, costruire contrapposizioni che feriscono la Chiesa e ne frenano il cammino, esponendola al rischio di divisioni e in molti casi emarginando fratelli che hanno la sola colpa di tenere alta la vocazione millenaria e di restare fedeli alla santa Messa di sempre.
Mi addolorano allo stesso modo gli abusi nella celebrazione della liturgia. Al pari di Benedetto XVI, anch’io stigmatizzo che «in molti luoghi non si celebri in modo fedele alle prescrizioni del nuovo Messale, ma esso addirittura venga inteso come un’autorizzazione o perfino come un obbligo alla creatività, la quale porta spesso a deformazioni al limite del sopportabile»[13]. Ma non di meno mi rattrista un uso marginale del Missale Romanum del 1962, sempre di più caratterizzato da un rifiuto crescente della possibilità di celebrazione, privilegiando unicamente l’ultima riforma liturgica, e tradendo quanto auspicato dal Concilio Vaticano II, con l’affermazione infondata e insostenibile che abbia tradito la Tradizione e la “vera Chiesa”. Se è vero che il cammino della Chiesa va compreso nel dinamismo della Tradizione, «che trae origine dagli Apostoli e che progredisce nella Chiesa sotto l’assistenza dello Spirito Santo» (DV 8), di questo dinamismo il Concilio Vaticano II costituisce solo la tappa più recente, nella quale l’episcopato cattolico si è posto in ascolto per discernere il cammino che lo Spirito indicava alla Chiesa e che in larga parte è stato disatteso. Dubitare del Concilio significa dubitare delle intenzioni stesse dei Padri, i quali hanno esercitato la loro potestà collegiale in modo solenne cum Petro et sub Petro nel concilio ecumenico[14], non al di fuori di esso e, in ultima analisi, dubitare dello stesso Spirito Santo che guida la Chiesa.
Proprio il Concilio Vaticano II illumina il senso della scelta di rivedere la concessione permessa dai miei Predecessori. Tra i vota che i Vescovi hanno indicato con più insistenza emerge quello della piena, consapevole e attiva partecipazione di tutto il Popolo di Dio alla liturgia[15], in linea con quanto già affermato da Pio XII nell’enciclica Mediator Dei sul rinnovamento della liturgia[16]. La costituzione Sacrosanctum Concilium ha confermato questa richiesta, deliberando circa «la riforma e l’incremento della liturgia»[17], indicando i principi che dovevano guidare la riforma[18]. In particolare, ha stabilito che quei principi riguardavano il Rito Romano, mentre per gli altri riti legittimamente riconosciuti, chiedeva che fossero «prudentemente riveduti in modo integrale nello spirito della sana tradizione e venga dato loro nuovo vigore secondo le circostanze e le necessità del tempo»[19]. Sulla base di questi principi è stata condotta la riforma liturgica, che ha la sua espressione più alta nel Messale Romano, pubblicato in editio typica da san Paolo VI[20] e riveduto da san Giovanni Paolo II[21]. Si deve però ritenere che il Rito Romano, più volte adattato lungo i secoli alle esigenze dei tempi, non (solo) sia stato conservato, ma è stato rinnovato pur se «in fedele ossequio alla Tradizione»[22]. Chi volesse celebrare con devozione secondo l’antecedente forma liturgica (non) stenterà a trovare nel Messale Romano riformato secondo la mente del Concilio Vaticano II tutti gli elementi del Rito Romano, in particolare il canone romano, che costituisce uno degli elementi più caratterizzanti.
Per questi motivi ritengo che il Messale Romano pubblicato in editio typica da san Paolo VI[20] e riveduto da san Giovanni Paolo II[21]debba essere ritenuto, da oggi, la forma extra-ordinaria del Rito Romano Tradizionale.
Un’ultima ragione voglio aggiungere a fondamento della mia scelta: è sempre più evidente nelle parole e negli atteggiamenti di molti la stretta relazione tra la scelta delle celebrazioni secondo i libri liturgici precedenti al Concilio Vaticano II, che tanti buoni e copiosi frutti ha portato e il rifiuto della Chiesa riformata e delle sue istituzioni nel riconoscere questa fioritura in nome di quella che essi giudicano la “vera Chiesa”. Si tratta di un comportamento che contraddice la comunione, alimentando quella spinta alla divisione – «Io sono di Paolo; io invece sono di Apollo; io sono di Cefa; io sono di Cristo» –, contro cui ha reagito fermamente l’Apostolo Paolo[23]. È per difendere l’unità del Corpo di Cristo che mi vedo costretto a revocare la facoltà concessa dai miei Predecessori di considerare come forma ordinaria il nuovo Messale Romano in uso dal 1970. L’uso distorto che ne è stato fatto è contrario ai motivi che li hanno indotti a concedere la libertà di celebrare la Messa in sostituzione del Missale Romanum del 1962. Poiché «le celebrazioni liturgiche non sono azioni private, ma celebrazioni della Chiesa, che è “sacramento di unità”»[24], devono essere fatte in comunione con la Chiesa. Il Concilio Vaticano II, mentre ribadiva i vincoli esterni di incorporazione alla Chiesa – la professione della fede, dei sacramenti, della comunione –, affermava con sant’Agostino che è condizione per la salvezza rimanere nella Chiesa non solo “con il corpo”, ma anche “con il cuore”[25].
Cari fratelli nell’Episcopato, Sacrosanctum Concilium spiegava che la Chiesa «sacramento di unità» è tale perché è «Popolo santo adunato e ordinato sotto l’autorità dei Vescovi»[26]. Lumen gentium, mentre ricorda al Vescovo di Roma di essere «perpetuo e visibile principio e fondamento di unità sia dei vescovi, sia della moltitudine dei fedeli», dice che Voi siete «visibile principio e fondamento di unità nelle vostre Chiese locali, nelle quali e a partire dalle quali esiste l’una e unica Chiesa cattolica»[27].
Rispondendo alle vostre richieste, prendo la ferma decisione di abrogare tutte le norme, le istruzioni, le concessioni e le consuetudini precedenti al presente Motu Proprio, e di ritenere i libri liturgici promulgati dai santi Pontefici Paolo VI e Giovanni Paolo II, in conformità ai decreti del Concilio Vaticano II, come una delle espressioni della lex orandi del Rito Romano, ma come forma extra-ordinaria. Mi conforta in questa decisione il fatto che, dopo il Concilio di Trento, anche san Pio V abrogò tutti i riti che non potessero vantare una comprovata antichità, stabilendo per tutta la Chiesa latina un unico Missale Romanum. Per quattro secoli questo Missale Romanum promulgato da san Pio V è stato così la principale espressione della lex orandi del Rito Romano, svolgendo una funzione di unificazione nella Chiesa. Non per contraddire la dignità e grandezza di quel Rito i Vescovi riuniti in concilio ecumenico hanno chiesto che fosse riformato; il loro intento era che «i fedeli non assistessero come estranei o muti spettatori al mistero di fede, ma, con una comprensione piena dei riti e delle preghiere, partecipassero all’azione sacra consapevolmente, piamente e attivamente»[28]. Questa apertura è stata stravolta e gli abusi a cui ho prima accennato ne sono la lampante riprova. San Paolo VI, ricordando che l’opera di adattamento del Messale Romano era già stata iniziata da Pio XII, dichiarò che la revisione del Messale Romano, condotta alla luce delle più antiche fonti liturgiche, aveva come scopo di permettere alla Chiesa di elevare, nella varietà delle lingue, «una sola e identica preghiera» che esprimesse la sua unità[29]. Questa unità intendo che sia ristabilita in tutta la Chiesa di Rito Romano.
Il Concilio Vaticano II, descrivendo la cattolicità del Popolo di Dio, rammenta che «nella comunione ecclesiale esistono le Chiese particolari, che godono di tradizioni proprie, salvo restando il primato della cattedra di Pietro che presiede alla comunione universale della carità, garantisce le legittime diversità e insieme vigila perché il particolare non solo non nuoccia all’unità, ma piuttosto la serva»[30]. Mentre, nell’esercizio del mio ministero al servizio dell’unità, assumo la decisione di estendere la facoltà concessa dai miei Predecessori, chiedo a Voi di condividere con me questo peso come forma di partecipazione alla sollecitudine per tutta la Chiesa. Nel Motu proprio ho voluto affermare come spetti al Vescovo, quale moderatore, promotore e custode della vita liturgica nella Chiesa di cui è principio di unità, regolare le celebrazioni liturgiche. Spetta perciò a Voi autorizzare nelle vostre Chiese, in quanto Ordinari del luogo, l’uso del Messale Romano del 1962, pur non abrogando il Messale adottato dal mio predecessore San Paolo VI utilizzato per mezzo secolo, applicando le norme del presente Motu proprio. Spetta soprattutto a Voi operare perché si torni a una forma celebrativa unitaria, verificando caso per caso la realtà dei gruppi che celebrano con questo Missale Romanum riformato e vigilando costantemente su eventuali abusi da condannare.
Le indicazioni su come procedere nelle diocesi sono principalmente dettate da due principi: provvedere da una parte al bene di quanti si sono radicati nella forma celebrativa precedente nonostante le deviazioni perpetrate in danno del Rito Romano promulgato dai santi Paolo VI e Giovanni Paolo II; interrompere dall’altra l’erezione di nuove parrocchie personali, legate più al desiderio e alla volontà di singoli presbiteri che al reale bisogno del «santo Popolo fedele di Dio». Al contempo Vi chiedo di vigilare perché ogni liturgia sia celebrata con decoro e fedeltà anche con i libri liturgici promulgati dopo il Concilio Vaticano II, senza eccentricità che degenerano facilmente in abusi. A questa fedeltà alle prescrizioni del Messale e ai libri liturgici, in cui si rispecchia la continuità liturgica voluta dal Concilio Vaticano II, siano educati i seminaristi e i nuovi presbiteri.
Per Voi invoco dal Signore Risorto lo Spirito, perché vi renda forti e fermi nel servizio al Popolo che il Signore vi ha affidato, perché per la vostra cura e vigilanza esprima la comunione anche nell’unità di un solo Rito, nel quale è custodita la grande ricchezza della tradizione liturgica romana.
Io prego per voi. Voi pregate per me.
FRANCESCO
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[1] Cfr. CONC. ECUM. VAT. II, Cost. dogm. Sulla Chiesa “Lumen gentium” 21 novembre 1964, n. 23: AAS 57 (1965) 27.
[2] Cfr. CONGREGAZIONE PER IL CULTO DIVINO, Lettera ai Presidenti delle Conferenze Episcopali “Quattuor abhinc annos”, 3 ottobre 1984: AAS 76 (1984) 1088-1089.
[3] GIOVANNI PAOLO II, Litt. Ap. Motu proprio datae “Ecclesia Dei”, 2 luglio 1988: AAS 80 (1998) 1495-1498.
[4] BENEDETTO XVI, Epistula Episcopos Catholicae Ecclesiae Ritus Romani, 7 luglio 2007: AAS 99 (2007) 796.
[5] BENEDETTO XVI, Epistula Episcopos Catholicae Ecclesiae Ritus Romani, 7 luglio 2007: AAS 99 (2007) 796.
[6] BENEDETTO XVI, Epistula Episcopos Catholicae Ecclesiae Ritus Romani, 7 luglio 2007: AAS 99 (2007) 797.
[7] BENEDETTO XVI, Litt. Ap. Motu proprio datae “Summorum Pontificum”, 7 luglio 2007: AAS 99 (2007) 779.
[8] BENEDETTO XVI, Litt. Ap. Motu proprio datae “Summorum Pontificum”, 7 luglio 2007: AAS 99 (2007) 779.
[9] BENEDETTO XVI, Epistula Episcopos Catholicae Ecclesiae Ritus Romani, 7 luglio 2007: AAS 99 (2007) 796.
[10] BENEDETTO XVI, Epistula Episcopos Catholicae Ecclesiae Ritus Romani, 7 luglio 2007: AAS 99 (2007) 797.
[11] BENEDETTO XVI, Epistula Episcopos Catholicae Ecclesiae Ritus Romani, 7 luglio 2007: AAS 99 (2007) 798.
[12] BENEDETTO XVI, Epistula Episcopos Catholicae Ecclesiae Ritus Romani, 7 luglio 2007: AAS 99 (2007) 797-798.
[13] BENEDETTO XVI, Epistula Episcopos Catholicae Ecclesiae Ritus Romani, 7 luglio 2007: AAS 99 (2007) 796.
[14] Cfr. CONC. ECUM. VAT. II, Cost. dogm. sulla Chiesa “Lumen gentium” 21 novembre 1964, n. 23: AAS 57 (1965) 27.
[15] Cfr. ACTA ET DOCUMENTA CONCILIO OECUMENICO VATICANO II APPARANDO, Series I, Volumen II, 1960.
[16] PIO XII, Litt. Encyc. “Mediator Dei et hominum”, 20 novembre 1947: AAS 39 (1949) 521-595.
[17] Cfr. CONC. ECUM. VAT. II, Cost. sulla sacra liturgia “Sacrosanctum Concilium”, 4 dicembre 1963, nn. 1, 14: AAS 56 (1964) 97.104.
[18] Cfr. CONC. ECUM. VAT. II, Cost. sulla sacra liturgia “Sacrosanctum Concilium”, 4 dicembre 1963, n. 3: AAS 56 (1964) 98.
[19] Cfr. CONC. ECUM. VAT. II, Cost. sulla sacra liturgia “Sacrosanctum Concilium”, 4 dicembre 1963, n. 4: AAS 56 (1964) 98.
[20] MISSALE ROMANUM ex decreto Sacrosancti Oecumenici Concilii Vaticani II instauratum auctoritate Pauli PP. VI promulgatum, editio typica, 1970.
[21] MISSALE ROMANUM ex decreto Sacrosancti Oecumenici Concilii Vaticani II instauratum auctoritate Pauli PP. VI promulgatum Ioannis Pauli PP. II cura recognitum, editio typica altera, 1975; editio typica tertia, 2002; (reimpressio emendata, 2008).
[22] Cfr. CONC. ECUM. VAT. II, Cost. sulla sacra liturgia “Sacrosanctum Concilium”, 3 dicembre 1963, n. 3: AAS 56 (1964) 98.
[23] 1Cor 1,12-13.
[24] Cfr. CONC. ECUM. VAT. II, Cost. sulla sacra liturgia “Sacrosanctum Concilium”, 3 dicembre 1963, n. 26: AAS 56 (1964) 107.
[25] Cfr. CONC. ECUM. VAT. II, Cost. dogm. Sulla Chiesa “Lumen gentium” 21 novembre 1964, n. 14: AAS 57 (1965) 19.
[26] Cfr. CONC. ECUM. VAT. II, Cost. sulla sacra liturgia “Sacrosanctum Concilium”, 3 dicembre 1963, n. 6: AAS 56 (1964) 100.
[27] Cfr. CONC. ECUM. VAT. II, Cost. dogm. Sulla Chiesa “Lumen gentium” 21 novembre 1964, n. 23: AAS 57 (1965) 27.
[28] Cfr. CONC. ECUM. VAT. II, Cost. sulla sacra liturgia “Sacrosanctum Concilium”, 3 dicembre 1963, n. 48: AAS 56 (1964) 113.
[29] PAOLO VI, Costituzione apostolica Missale Romanum (3 aprile 1969), AAS 61 (1969) 222.
[30] Cfr. CONC. ECUM. VAT. II, Cost. dogm. Sulla Chiesa “Lumen gentium”, 21 novembre 1964, n. 13: AAS 57 (1965) 18.
Marco Tosatti
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