(s.m.) La nota di Leonardo Lugaresi nel precedente post e la protesta della conferenza episcopale italiana contro il decreto del capo del governo Giuseppe Conte che ha rinviato “sine die” il ritorno alla celebrazione delle messe con presenti i fedeli hanno animato ancor di più la disputa sul futuro di quell’atto costitutivo della Chiesa che è appunto la celebrazione eucaristica e quindi sul futuro della stessa Chiesa in Italia.
(Ma curiosamente, a proposito del decreto, introducendo questa mattina la sua messa a Santa Marta, papa Francesco ha invitato a pregare il Signore "perché dia a tutti noi la grazia dell'obbedienza alle disposizioni").
Ci hanno scritto, da due distinti punti di osservazione, il teologico e il giuridico, il professor Pietro De Marco e l’avvocato Mauro Barberio.
Ecco una dopo l’altra le loro lettere.
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DA FIRENZE, PIETRO DE MARCO
Caro Magister,
mi permetto di aggiungere poche glosse al perfetto intervento di Leonardo Lugaresi. Nella lenta e incerta messa a punto della risposta ecclesiastica all’epidemia è mancata anche una chiara distinzione tra la sospensione di emergenza delle messe “cum populo” e la santa messa come tale, che niente impedisce ai sacerdoti di celebrare, in maniera salutare e valida, anche “sine populo”.
Chiedevo giorni fa a un vescovo amico che si marcasse di più la distinzione che corre tra la limitazione di fatto di quel concorso di persone che accompagna una celebrazione liturgica, e la celebrazione in se stessa. Tra una chiesa vuota, da un lato, e la realtà intatta della azione liturgica e dei suoi effetti, dall’altro.
Ogni liturgia (“leitourgía”, servizio della cosa pubblica, da “laós”, popolo, moltitudine, ed “ergon”, opera) è un servizio sacro prestato per il bene pubblico da specialisti religiosi. La conferenza episcopale umbra ha prodotto, a firma dell’arcivescovo di Spoleto e Norcia Renato Boccardo, un documento – coraggioso per questo strano tempo della Chiesa – in cui si ricorda che “la ‘materia’ imprescindibile della messa sono il pane e il vino, così come la ‘forma’ è data dall’atto celebrativo presieduto dal sacerdote”. Per cui “quando un presbitero celebra l’eucaristia ‘con l’intenzione di fare ciò che vuole fare la Chiesa’, quella messa attualizza oggettivamente il mistero pasquale di Cristo”. Questa è la dottrina classica e costante della Chiesa, senza, aggiungo io, che sia richiesta altra validazione.
La liturgia eucaristica è anzitutto mistero memoriale e azione di lode a Dio. Celebrata dal sacerdote “in persona Christi capitis” ha valore in se stessa “pro multis”. Non è un’espressione di sociabilità immanente né tanto meno consegue la sua realtà soprannaturale dal basso. È quanto ricorda Lugaresi: “Purtroppo buona parte del liturgismo post-conciliare ha frainteso e tradito quella indicazione, scambiandola per un invito all'attivismo liturgico, cioè alla promozione del protagonismo umano nell’opus Dei”. Gliene sono grato.
Ma al vescovo mi permettevo di aggiungere che i fedeli devono di conseguenza sapere di stare partecipando al mistero anche se distanti, purché interiormente disposti secondo l’intenzione con cui la Chiesa li convoca ordinariamente negli spazi liturgici. Si sarebbe potuto limitare con ciò sia il disorientamento sul ”che fare” sia la concentrazione sulle liturgie “domestiche”, nelle quali è facile lo slittamento al “liberi tutti” celebrativo.
Abbiamo sempre saputo che la messa oltrepassa le mura che sono erette a proteggere e inscrivere l’azione santa: il tempio. Dato il tempio, e anche in virtù del simbolismo del tempio, la messa è evento misterico cosmico. L’assenza di popolo non declassa il tempio, come il tempio non teme l’assenza di popolo. Ogni messa partecipa della messa eterna celebrata dal Figlio. Anzi, celebrata dal Padre nell’oblazione del Figlio, come sottolineava una grande scuola francese di spiritualità del XVII secolo (de Condren, Olier). Vertigini del legame tra cielo e terra di cui la liturgia consiste. La distanza dal tempio non dovrebbe, mai, invitare a surrogati, ma a tenere fermi mente e cuore sui luoghi e sugli atti nei quali si riattualizza il mistero pasquale.
Non negavo, conversando col vescovo, che la presenza sia anzitutto corporea. E, poiché ci si potrebbe chiedere quanti metri definiscano la presenza rispetto al fulcro, all’altare, e un certo spiritualismo moderno ci fa sentire più la Presenza e i presenti in una piccola chiesa che in San Pietro o in un enorme piazzale, esiste la fenomenologia dei recinti sacri, degli spazi sacri, non solo edifici, per le grandi assemblee oranti, come per l’Israele dell’Esodo attorno alla tenda santuario. Quindi sono egualmente luogo di Presenza/presenza una sterminata cattedrale o uno spazio all’aperto circoscritto; con cautela quest’ultimo, per il sottile costante rischio panico o panteistico di una contemporanea comunione con la natura. Fino all’equivoco teilhardiano della “messa sul mondo”, un mondo visionario pancristico.
Vi sono dunque delle soglie anche per il nostro caso, messo a fuoco da una emergenza. Le crisi di soglia o di “katastrophé” sono costitutive delle prassi umane, tanto più nelle interpretazioni e azioni del sacro: limiti oltre i quali un ordine di intenzione e di azione diviene altro da sé. Da ciò la disciplina del rito, la rubrica. Solo il principio, la speranza soprannaturale del “supplet ecclesia” ci consola in questi mesi.
Aggiungo qualcosa sulla distinzione tra spettacolo e rito. È essenziale e salutare il promemoria patristico tratteggiato da Lugaresi, in anni in cui anche liturgisti di qualità cercano nel modello teatrale una rifondazione della liturgia. Con la tentazione aggiuntiva di importare in liturgia quella eversiva indistinzione tra attore e spettatore che ha tentato per decenni le avanguardie. Credo che gli esiti fallimentari abbiano convinto che non c’è “mimesis” senza spettatore, perché non è nell’attore che avviene la “mimesis”; l’attore rappresenta, “fingit”.
Distinguerei, però, lo spettacolo – come “fictio” teatrale o cinematografica – dalla spettacolarizzazione, che è la trans-formazione in-formale (un interessante bisticcio) di un evento pubblico o reso tale dai media radiotelevisivi, in un palcoscenico di fronte al mondo.
Sappiamo che sotto gli occhi delle telecamere ogni occasione resa pubblica, come di capi di Stato che conversano in un salotto, impone agli attori alcuni studiati comportamenti, ad esempio la gradazione nel sorriso. Ma quegli attori non sono veri attori: la comunicazione spettacolarizzata – cioè resa visibile, “exire ad spectaculum”, andare a vedere – è quella dei protagonisti stessi: il corruccio del capo di Stato, o di Jorge Mario Bergoglio, non termina al calare del sipario, persiste come azione politica. Allora: la trasmissione televisiva di un rito non fa del rito uno spettacolo, una “fictio”, ma è la resa visibile di un attore e di un evento non mimetici ma sacramentali. L’abuso passato del termine spettacolarizzazione – intesa come alienazione dell’evento autentico – rischia, a mio avviso, di deteriorare ancora oggi la “res” cui il nostro giudizio si riferisce. Come una stretta di mano pubblica tra sovrani ha conseguenze secondo realtà, così ne ha la Messa di conseguenze, nel proprio ordine realissimo.
È allora irrilevante recuperare lo spazio sacro, il “templum”? Assolutamente no. La riproduzione in se stessi, occasionale e interiore, del “templum” contiene tutti i rischi di de-realizzazione non cattolica che accompagnano le interiorizzazioni. Il foro dell’anima individuale non invera, non accoglie in sé e rende veri né il tempio né il sacerdozio né la “plebs sancta”. Durante il contagio l’anima vive una separatezza e una estrema povertà anacoretica, per di più imposta dalle cose, non eletta. Sarà giusto reintegrare, dunque. Ma importante sarà rientrare nelle chiese con questa netta consapevolezza: non sarà la nostra presenza a legittimare di nuovo il rito, mai interrotto. Saranno il rito e la “plebs” a confermarci e completarci.
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DA CAGLIARI, MAURO BARBERIO
Caro Magister,
abbiamo sentito, sulla questione delle messe teletrasmesse o via streaming, un po' di tutto, in ambito teologico e pastorale. Ben poco, invece, è stato scritto con riferimento ai pur sensibilissimi aspetti giuridici.
Non posso che rilevare come la rottura dell'equilibrio tra ciò che spetta a Dio rispetto a quanto è dovuto a Cesare, sia stato – mediante la sospensione d'imperio delle sante messe e della libera partecipazione ai sacramenti da parte dei fedeli – grave e flagrante. E, sia chiaro, fin dal primo decreto del presidente del consiglio dei ministri dell'8 marzo, non certo solo da ieri, 26 aprile.
In questi termini, sentire ora la CEI profondere tardivi lamenti sulla violata "pienezza della propria autonomia" e sulla compromissione dell’"esercizio della libertà di culto", non può che stupire.
Il “vulnus” vero si è avuto, infatti, con il primo DPCM dell'8 marzo: “Sono sospese tutte le manifestazioni organizzate, nonché gli eventi in luogo pubblico o privato, ivi compresi quelli di carattere culturale, ludico, sportivo, religioso e fieristico, anche se svolti in luoghi chiusi ma aperti al pubblico".
In quell'occasione, una delle poche voci critiche, nel silenzio tombale della conferenza episcopale, fu quella di Andrea Riccirdi che con un intervento sul “Corriere della Sera” affermava: “Non si capisce perché siano interdetti culto e preghiere, se celebrati in sicurezza. Forse non tutti i decisori penetrano il senso peculiare della messa per i credenti, di cui gli antichi martiri dicevano: ‘Sine Dominicum non possumusì”.
Pochi hanno fatto rilevare l'intangibilità e l'assolutezza della libertà religiosa nei confronti dello Stato e, soprattutto, non si è sollevata la marcata violazione dell'Accordo del 1984 tra la Santa Sede e lo Stato italiano, il cui articolo 1 recita: "La Repubblica italiana e la Santa Sede riaffermano che lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani, impegnandosi al pieno rispetto di tale principio nei loro rapporti ed alla reciproca collaborazione per la promozione dell'uomo e il bene del Paese". E il cui articolo 5 precisa che “gli edifici aperti al culto non possono essere requisiti, occupati, espropriati o demoliti se non per gravi ragioni e previo accordo con la competente autorità ecclesiastica". Ne discende che non si poteva disporre, senza l'accordo dell'autorità ecclesiastica, neppure la sospensione delle funzioni religiose.
Purtroppo, però, la situazione, anche dal lato "strutturale", è stata ulteriormente grave e mortificante. Per procedere nei termini predetti è stato usato uno strumento totalmente inadeguato, ossia il richiamato DPCM che non ha valore né forza di fonte normativa. Si tratta, infatti, di un banale provvedimento amministrativo che, generalmente, ha funzione organizzativa. Lo strumento appropriato, o meglio l'unico per incidere, eventualmente, su diritti assoluti, sarebbe potuto e dovuto essere quello del decreto legge.
Si tratta, si badi bene, di principi elementari che anche uno studente al secondo anno di giurisprudenza conosce bene. Il DPCM. non ha forza di legge ed è impugnabile di fronte al giudice amministrativo, laddove il decreto legge – atto del governo avente forza e valore di legge – è soggetto a essere convertito in legge (con tutte le garanzie del passaggio parlamentare) e può essere sottoposto al vaglio della sola corte costituzionale.
Il danno, insomma, sta a monte. Quanto accaduto ieri, 26 aprile quindi, replica il più classico dei déjà-vu.
Il problema maggiore, però, a mio avviso, lo si riscontra nel fatto che il diritto alla libertà religiosa e di culto – sino a febbraio 2020 assoluto e intangibile – è divenuto altro. Qualcosa di meno e di conculcabile da parte di Cesare, al quale qualche distratto e ingenuo pastore ha concesso e delegato, con colpevole disattenzione, pure quel che di Dio dovrebbe essere.
Settimo Cielo
di Sandro Magister 28 apr
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