ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

lunedì 12 marzo 2012

Nessuna speranza per Giuda?

di Francesco Lamendola - 12/03/2012
 

Per il filone maggioritario della cultura cristiana, Giuda Iscariota è il maledetto per eccellenza: l’apostolo che ha tradito Gesù Cristo per trenta denari, e che, con un bacio di finta devozione, lo ha consegnato cinicamente nelle mani di coloro che volevano farlo morire.
Quale colpa più grave di questa: aver fatto parte dea cerchia ristretta degli apostoli; aver condiviso con il Maestro l’esaltante avventura della sua predicazione, delle guarigioni da lui operate, della buona novella annunciata a tutti, ma specialmente ai peccatori; e aver tenuto chiuso il proprio cuore all’amore, alla speranza, aver anzi concepito il più nero dei tradimenti?

Per il filone minoritario della cultura cristiana, rappresentato specialmente da scrittori, registi, persino da qualche teologo, Giuda, però, non è quel mostro di ingratitudine e di slealtà che potrebbe sembrare: le sue intenzioni, forse, erano diverse dalla brama del vile denaro: egli voleva costringere il suo Maestro a svelarsi apertamente, ad assumere il ruolo di Messia vittorioso, venuto a ristabilire la giustizia sulla Terra, e, prima di tutto, a riaffermare il destino d’Israele quale nazione privilegiata e, dunque, a suonare la tromba della rivolta antiromana.
Oppure si pensa che Giuda sia stato, sì, un traditore, ma che il suo peccato, benché terribile, abbia costituito la premessa necessaria alla Passione e alla Risurrezione di Gesù: e pertanto che sia stato, sia pure indirettamente, strumento di salvezza per il genere umano e parte del disegno della divina Provvidenza: in altre parole, se Giuda non ci fosse stato e se non avesse tradito Gesù, lo scopo finale dell’Incarnazione non si sarebbe realizzato, e gli uomini sarebbero ancora in attesa di redenzione.
Entrambe queste interpretazioni, a dire il vero, incontrano delle serie difficoltà di ordine storico e teologico.
Di ordine storico, perché quel che sappiamo di Giuda non coincide con il cliché dell’apostolo tormentato e romantico, bruciante dall’impazienza di veder instaurato il Regno di Dio sulla Terra: il Vangelo di Giovanni ci dice, senza mezzi termini, che egli era semplicemente un ladro e che già da tempo alleggeriva la cassa comune, a lui affidata, per avidità di denaro; e, oltre che ladro, era anche ipocrita, perché non si lasciava sfuggire occasione per fare mostra di zelo caritatevole, mentre invece dei poveri, a lui, non importava proprio nulla (1, 1-8, tr. «La Bibbia di Gerusalemme»):

«Sei giorni prima della Pasqua, Gesù andò a Betania, dove si trovava Lazzaro, che egli aveva risuscitato dai morti. E qui gli fecero una cena: Marta serviva e Lazzaro era uno dei commensali. Maria allora, presa una libbra di olio profumato di vero nardo, assai prezioso, cosparse i piedi di Gesù e li asciugò con i suoi capelli., e tutta la casa si riempì del profumo del’unguento. Allora Giuda Iscariota, uno dei suoi discepoli, che doveva poi tradirlo, disse: “Perché quest’olio profumato non si è venduto per trecento danari per poi darli ai poveri?”. Questo egli disse non perché gl’importasse dei poveri, ma perché era ladro, e siccome teneva la cassa, prendeva quello che vi mettevano dentro .Gesù allora disse: Lasciala fare, perché lo conservi per il giorno della mia sepoltura. I poveri infatti li avete sempre con voi, ma non sempre avete me”.»

Un personaggio meschino, dunque: non solo disonesto, ma anche falsamente sollecito dei poveri e quasi desideroso di cogliere il Maestro in flagrante contraddizione nella sua predicazione rivolta specialmente agli ultimi; troppo improbabile che un tipo così abbia agito per motivazioni diverse da quelle dell’immediato tornaconto o, addirittura, di tipo idealistico.
Dal punto di vista teologico, le cose non vanno meglio: se è vero che Gesù andò incontro deliberatamente alla morte, con buona pace di quegli autori anticristiani che hanno cercato di sostenere il contrario (cfr. , ad esempio, H. J. Schonfield, «Cristo non voleva morire», Tindalo, 1968),  come parte del suo progetto di redenzione, ciò non significa che Giuda abbia cooperato a ciò con animo puro: le sue intenzioni, come pare, erano abiette, per cui il suo peccato rimane in tutta la sua gravità; altrimenti si potrebbe cadere nell’assurdo di sostenere che i più grandi criminali dell’umanità sono stati strumenti necessari al piano divino di salvezza.
Una cosa, infatti, è dire che Dio riesce, nella sua incommensurabile sapienza, a trasformare il male in bene, o meglio, a far sì che anche dal male venga del bene; e un’altra cosa, e ben diversa, è sostenere che gli operatori del bene e quelli di male sono ugualmente degni della nostra ammirazione e che devono essere considerati, a pari titolo, come cooperatori del progetto divino.
Secondo il racconto evangelico (a meno che lo si voglia rifiutare in blocco per insufficiente attendibilità storica), del resto, Gesù non solo conosceva il destino che lo attendeva, ma sapeva anche del tradimento di Giuda e non fece nulla per opporvisi, ma accompagnò tale sua consapevolezza ad un senso di profonda pena e di autentico turbamento per lo sventurato apostolo infedele:

«Venuta la sera, si mise a mensa con i Dodici. Mentre mangiavano disse:  “In verità io vi dico, uno di voi mi tradirà”. Ed essi, addolorati profondamente, incominciarono ciascuno a domandargli: “Sono forse io, Signore?”. Ed egli rispose: “Colui che ha intinto con e la mano nel piatto, quello mi tradirà. Il Figlio dell’uomo se ne va, come è scritto di lui, ma guai a colui dal quale il Figlio dell’uomo viene tradito; sarebbe meglio per quell’uomo se non fosse mai nato!”. Giuda, il traditore, disse: “Rabbì, sono forse io?”. Gli rispose: “Tu l’hai detto”.» (Mt. 26, 20-25.)

«Dette queste cose, Gesù si commosse profondamente e dichiaro: “In verità, in verità vi dico:uno di voi mi tradirà”. I discepoli si guardarono gli uni gli altri, non sapendo di chi parlasse. Ora uno dei discepoli, quello che Gesù amava, si trovava a tavola al fianco di Gesù. Simon Pietro gli fece un cenno e gli disse: “Di’, chi è colui a cui si riferisce?”. Ed egli reclinandosi così sul petto d Gesù, gli disse: “Signore, chi è?”. Rispose allora Gesù: “È colui per il quale intingerò un boccone e glielo darò”. E intinto il boccone, lo prese e lo diede a Giuda Iscariota, figlio di Simone. E allora, dopo quel boccone, satana entrò in lui. Gesù quindi gli disse: “Quello che devi fare fallo al più presto”. Nessuno dei commensali capì perché gli aveva detto questo; alcuni infatti pensavano che tenendo Giuda la cassa, Gesù gli avesse detto: “Compra quello che ci occorre per la festa”, oppure che dovesse dare qualche cosa ai poveri. Preso il boccone, egli subito uscì. Ed era notte.» (Gv. 13, 21-30.)

Di nuovo, qualche teologo “moderno” e “progressista” potrebbe osservare che il Diavolo entra in Giuda solo dopo che Cristo gli ha dato il boccone e che, quindi, l’azione di tradire Gesù è stata il frutto di una possessione diabolica, voluta, o almeno permessa, da Dio stesso, affinché possa realizzarsi lo scopo salvifico della sua missione.
Ma è evidente che non esiste un legame di causa ed effetto tra l’offerta del boccone da parte di Cristo e l’ingresso del demonio nel cuore di Giuda: quella che viene descritta nel quarto Vangelo è una semplice sequenza temporale e non già un nesso causale. In altre parole, Gesù sa che Giuda intende tradirlo, ma non è certo lui a spingerlo al tradimento: si limita a registrare l’accadimento, senza interferire con la scelta del suo discepolo.
Quanto all’azione di Satana, si faccia attenzione anche qui che, secondo la sana teologia cattolica, perfino nei (rari) casi di autentica e piena possessione diabolica, ciò che viene sottomesso dal Maligno sono il corpo, le membra, a volte perfino la mente, ma non la volontà del posseduto: quest’ultima rimane libera; se, dunque, Giuda decide di tradire il suo Maestro, è perché egli ha deciso liberamente di farlo, e solo a quel punto il Demonio entra in lui e si insignorisce della sua mente. Come disse una volta Bernadette Soubirous: «Il peccatore è colui che ama il male»; e, aggiungiamo noi, amandolo, lo chiama.
Ci sembra, dunque, obiettivamente, che rimanga poco spazio per l’interpretazione benevola e teologicamente “aggiornata” della figura di Giuda: egli è un traditore, un traditore della peggiore specie, perché ha tradito il Maestro che predicava solo il bene e l’amore e che in lui, come negli altri discepoli, aveva riposto tutta la sua fiducia; come avevano visto, fra gi altri, Dante e Giotto, i due più grandi artisti del tardo Medioevo, l’uno nei suoi versi, l’atro nelle sue pitture.
Rimane tuttavia una domanda pressante, intensa, quasi angosciosa: c’è una speranza di salvezza, per Giuda Iscariota, oppure la sua colpa è di quelle da cui non si torna più indietro, per le quali non esiste possibilità di redenzione?
Giuda ha emesso da se stesso la sentenza per il proprio delitto: disperato, si è ucciso con le sue stesse mani, giudice più severo di qualunque altro (Matteo, 27, 3-10):

«Allora Giuda, il traditore, vedendo che Gesù era stato condannato, si pentì e riportò le trenta monete d’argento ai sommi sacerdoti e agli anziani dicendo: “Ho peccato, perché ho tradito sangue innocente”.  Ma quelli dissero: “Che ci riguarda? Veditela tu!”. Ed egli, gettate le monete d’argento nel tempio, si allontanò e andò a impiccarsi. Ma i sommi sacerdoti, raccolto quel denaro, dissero: “Non è lecito metterlo nel tesoro, perché è prezzo di sangue”. E, tenuto consiglio, comprarono con esso il Campo del vasaio per la sepoltura degli stranieri. Perciò quel campo fu denominato: “Campo di sangue” fino al giorno d’oggi. Allora si compì quanto era stato detto del profeta Geremia: “E presero trenta denari d’argento, il prezzo del venduto, che i figli di Israele avevano mercanteggiato, e li diedero per il campo del vasaio, come mi aveva ordinato il Signore”.»

Se Giuda muore disperato perché convinto che Dio non potrà mai perdonarlo, allora egli precipita in un Inferno senza fine: quale Inferno può esistere, infatti, peggiore, più irrevocabile, di quello cui la nostra stessa coscienza ci ha destinati?
Anche qui, i teologi progressisti e “buonisti” hanno un bel dire che l‘Inferno non può esistere o che, se pure esiste, non può essere eterno: essi si ostinano a pensarlo come un luogo, come una specie di carcere di cui Dio, una volta entrate le anime, è in grado, se lo vuole, di buttare via la chiave e non pensarci più. Ma un tale Inferno non esiste di sicuro, esso non è che una ingenua proiezione antropomorfa: l’Inferno, semmai, è il destino di cui l’anima si ritiene degna, una volta che si sia giudicata e condannata, alla luce della consapevolezza che le giunge, per virtù di illuminazione, dopo la morte fisica, rivedendo l’insieme della propria vita terrena.
Il quesito, perciò, non è se Giuda possa salvarsi da un tale destino, semplicemente perché allo spirito liberale e democratico di certi teologi postconciliari ripugna l’idea di un Inferno che non abbia mai fine; ma se Giuda, morendo, abbia avuto o no la capacità e la volontà di pentirsi.
Stando al racconto di Matteo, la risposta sarebbe affermativa: « Allora Giuda, il traditore, vedendo che Gesù era stato condannato, si pentì e riportò le trenta monete d’argento ai sommi sacerdoti e agli anziani dicendo: “Ho peccato, perché ho tradito sangue innocente”». Se egli si sia realmente pentito, questo è un mistero della sua anima, che nessuno potrà mai giudicare dall’esterno e a posteriori; ma il perdono divino è sempre possibile, purché vi sia un atto di profonda contrizione,  come dice Dante per bocca di Manfredi (Purg., III: «Orribil furono li peccati miei; / ma la bontà infinita ha sì gran braccia, / che prende ciò che si rivolge a lei».
Ora, il punto è propri questo: il pentimento è la condizione necessaria perché l’anima si rivolga alla misericordia divina; ma, di per sé, non è ancora sufficiente. Giuda, infatti, sembra pentirsi, però subito dopo si suicida: e, così facendo, mostra di non credersi degno del perdono di Dio. Simon Pietro, quella stessa notte, dopo aver rinnegato Cristo per ben tre volte (rinnegare non è proprio tradire, ma, moralmente, differisce di poco), si vergogna, si pente, e scoppia in singhiozzi: e quel pianto lo salva, perché lo trattiene dalla tentazione di compiere un gesto estremo contro di sé.
Giuda non piange, si indigna: si indigna contro di sé e contro i sacerdoti del Sinedrio, dei quali ha finalmente compreso la bassa, perfida malvagità: il processo-farsa contro Gesù gli ha fatto cadere la benda dagli occhi. Forse, se avesse pianto, avrebbe trovato la forza di non suicidarsi; avrebbe conservato, cioè, la speranza di poter essere perdonato.
Il suo dramma è stato, fino all’ultimo, quello di non aver tenuto conto che quanto è impossibile agli uomini, è possibile a Dio: anche venire perdonati, allorché noi stessi non siamo capaci di farlo.

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1 commento:

  1. il profilo storico , le citazioni bibliche del tradimento di giuda e le varie interpretazioni teologiche molte volte in antitesi circa l'inferno sono buone e varie.Sembrerebbe che ci sia stato un primo moto di pentimento di giuda , ma vanificato dalla sua scelta di non credere nella misericordia del Signore,con il suicidio.Non e' la questione di non aver pianto come Pietro,che sia stata determinante per la sua sorte bensi' risolutive in quanto costituenti un giudizio inappellabile,le parole di Gesu' che e' il Signore, su Giuda . Santa Pasqua

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