E’ sotto il pontificato di Benedetto XVI che una pressante richiesta di riforme è stata avanzata in diversi paesi – Austria, Germania, Belgio, Irlanda, Svizzera – da parte non soltanto dei laici ma anche dei preti.
Vogliono l’abolizione del celibato sacerdotale, la comunione ai divorziati risposati e altro. Per Roma è una spina nel fianco. Ma il Papa non ha mai chiuso al dialogo. Un atteggiamento che il priore di Bose Enzo Bianchi ha chiesto al Vaticano di fare suo anche nei confronti del teologo tedesco Hans Küng.
L’uscita di Bianchi ha suscitato le critiche del teologo Antonio Livi che, basandosi anche su altri articoli, lo ha accusato di confondere i fedeli e di propagare un “umanesimo ateo”.
In merito dice la sua al Foglio Luigi Bettazzi, arcivescovo emerito di Ivrea (a pochi chilometri da Bose), negli anni del post Concilio vescovo rosso” per le sue simpatie politiche.
Dice: “Il dissenso è normale nelle cose umane; c’era tra gli apostoli, v’era già nel confronto col primo Papa, san Pietro, che pensava a una chiesa come derivazione anche strutturale dell’ebraismo, e fu apertamente contestato da san Paolo, che gli fece capire come la radice della nuova modalità religiosa fosse la fede in Cristo morto e risorto. Che si possano richiamare situazioni già esistenti nella chiesa come il sacerdozio a uomini sposati (gli apostoli lo erano in gran parte, Pietro aveva una suocera, poi guarita da Gesù, e nell’antichità lo erano anche i vescovi, mentre gli orientali – anche cattolici! – ordinano uomini sposati, che però non possono diventare vescovi), o una diversa pastorale per i divorziati (il primo Concilio ecumenico, quello di Nicea del 325, ammette in certi casi un secondo matrimonio, come fanno ancora gli ortodossi, dandogli peraltro uno stile penitenziale) non è contrastare la fede, è domandarsi come il Signore vuole che la viviamo al meglio nel giorno d’oggi. Che gli interrogativi, poi, nascano da chi proviene dalla Lateranense non mi meraviglia; anche al Concilio era quella che alimentava la minoranza agguerrita, legittima anche perché l’aggiornamento voluto da Papa Giovanni non risultasse conflittuale, ma espressione di chi giudica la tradizione come chiusura sul passato, mentre ‘tradere’ (da cui ‘traditio’ e tradizione) in latino sta per ‘trasmettere’, con implicita l’idea di sviluppo. Gli antichi dicevano che se nelle cose fondamentali bisogna essere uniti, in quelle opinabili ci si può sentire liberi, purché non si manchi mai di carità”.Hanno motivo di esistere le critiche di Livi? “Ritengo che il Livi abbia voluto sviluppare la critica ad alcuni aspetti più nuovi dell’attività di Bianchi. Non è un ordine monastico nel senso antico del termine, ma è pur approvato dalla chiesa locale. Quanto all’umanesimo ‘normalmente cristiano ma sostanzialmente ateo’, a parte che per la prima volta sento definire ‘ateo’ uno che espressamente parla di Dio, di Cristo, di chiesa e di preghiera, allora anche il Gesù dei trenta anni di Nazaret non si è mai presentato come profeta, ma era riconosciuto come un esperto falegname; e Gesù stesso, nell’iniziare i 72 discepoli, raccomanda che annuncino il regno di Dio dopo essersi integrati nella società (‘mangiate quello che vi mettono davanti’) ed essersi caratterizzati per l’atteggiamento di servizio. Quanto alla teologia che sarebbe solo ‘filosofia religiosa’, questo contrasta con la vita stessa della comunità di Bose e con la sua attività editoriale, tutta rivolta alla parola di Dio e alla teologia, sia cattolica sia ortodossa; e non ho mai sentito contraddire il magistero del Papa e del Concilio (proprio no!), al massimo ci può essere qualche legittima differenza sulle preferenze del Papa (ad esempio la comunione in bocca), del resto diverse da quelle di altri Papi”
Una sana teologia può svilupparsi oltre i dogmi? “Se teologia è ‘discorso su Dio’, è normale che si differenzi (non che contrasti) dai dogmi: perché li prepara e li sviluppa, dando senso pieno e attuale ai dogmi già definiti. Alle volte la teologia richiama aspetti della fede dimenticati o soffocati da modalità non strettamente rivelate: penso ad esempio alla collegialità episcopale, antica tradizione ecclesiale, forse annebbiata non certo dalla definizione del primato profetico, quanto dall’esercizio di un dominio, configurato con un Papa monarca assoluto di uno stato terrestre!”.
Il Vaticano II rinvigorì dal profondo la chiesa. Eppure non tutti volevano le riforme. “Papa Giovanni volle un Concilio non ‘dogmatico’, ma ‘pastorale’, cioè non teso a proclamare nuove verità scomunicando chi non le accettava (come facevano gli antichi Concili, condannando i dissenzienti, la formula era: ‘Anathema sit’), ma a partire dalla gente di oggi, con la sua sensibilità, e la sua mentalità per portarla ad accogliere le verità di sempre. Il che non doveva essere visto come una svalutazione (ancor oggi i lefebvriani lo vedono così, ritenendosi esenti dall’obbligo di accettarlo!), bensì come un’aggiunta: le verità definite possono rimanere affermazioni verbali se non vengono accolte e diffuse; per questo gli scribi e certi farisei, ritenuti gli autentici depositari della fede ebraica, venivano duramente condannati da Gesù, perché di quella adesione esteriore facevano una copertura del loro dominio e del loro egoismo. Gli scolastici affermavano: la fede ‘che’ si crede (‘fides quae creditur’, quindi i dogmi, il credo) ha valore se è accompagnata dalla fede ‘con cui’ si crede (‘fides qua creditur’, cioè l’adesione vitale alle verità professate). Dietro a una certa resistenza che soprattutto noi del clero (e con noi i più attenti alle sicurezze del passato) abbiamo fatto al rinnovamento del Concilio, vi può essere stato il timore di cambiamenti troppo radicali, ma anche la difficoltà a lasciare uno stile che garantiva il nostro potere (ecclesiastico!) per un dialogo che è sempre più difficile, anche se deve pur arrivare a decisioni. Ma ‘l’ultima parola’, che è il compito della gerarchia, è tale se prima vi sono state altre parole: se no diventa l’unica parola, oggi più difficilmente accettata”.
Pubblicato sul Foglio sabato 28 aprile 2012
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