(In foto il dott. Bruno Tarquini, Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione)
[...] Avevo fin da giovanissima età imparato il “Credo”, una delle
principali preghiere della cattolicità, in una certa e semplice
versione. All’improvviso, durante una Messa celebrata qualche anno dopo
il Concilio Vaticano Il una strana novità mi colpì, sotto forma di una
certa apposizione che non avevo mai sentito prima e che immediatamente
mi sembrò che urtasse contro quello che era stato fin ad allora il
“Credo” da me conosciuto. Questo problema mi rimuginò nella testa e creò
dentro di me la percezione che qualcosa di estraneo e di incompatibile
fosse penetrato in quella preghiera e probabilmente nella dottrina
cattolica, quale mi era stata insegnata. Il mio articolo apparso sul n.
436 di “Chiesa viva”, avendo in verità una portata ben più ampia, quale
l’aspirazione di certi ben noti ambienti internazionali a conseguire il
potere mondiale, ...
... poneva in rilievo che una delle vie per
raggiungere la meta è quella di natura religiosa, diretta al compimento
del cosiddetto ecumenismo; ma a questo problema particolare avevo
dedicato solo poche righe con un semplice accenno al problema del
“Credo”, e giustamente un cortese lettore ha lamentato una scarsa
chiarezza di quanto avevo scritto su quel problema particolare. Cerco
ora di dare una più completa trattazione sul problema del “Credo”,
sperando di rendermi più comprensibile.
Sui Simboli più antichi (apostolico, niceno e
niceno-costantinopolitano), il “Credo”, una delle principali preghiere
cristiane sempre recitata nel corso della Messa, fu codificato nella
Professio fidei Tridentina con una Bolla di Pio IV, nel 1564, il cui
testo in italiano fu, fino al Concilio Vaticano Il, esclusivamente il
seguente:
«lo credo in Dio Padre, onnipotente, creatore del
Cielo e della Terra, e in Gesù Cristo, suo unico Figliolo nostro
Signore, il quale fu concepito di Spirito Santo, nacque da Maria
Vergine, patì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso, morì e fu sepolto,
discese all’inferno, il terzo giorno risuscitò da morte, salì al Cielo,
siede alla destra di Dio Padre onnipotente; di là ha da venire a
giudicare i vivi e i morti, la santa Chiesa cattolica, la comunione dei
Santi, la remissione dei peccati, la resurrezione della carne, la vita
eterna. Così sia».
Questa e solamente questa fu la preghiera che mi era
stata insegnata fin dal tempo della mia prima comunione durante le
lezioni di catechismo, e che ho sempre ascoltato da mia madre.
Secondo questa preghiera chiari e ben definiti sono i
Simboli della professione di fede secondo il rito cattolico-romano: un
unico Dio Padre Creatore del Cielo e della Terra, Gesù Cristo
Figlio di Dio e della sua stessa sostanza perché concepito di Spirito
Santo, la incarnazione del Figlio e la Sua nascita dalla Vergine Maria,
la Sua crocifissione, la Sua morte, la Sua discesa agli inferi, la Sua
resurrezione, la Sua ascensione al Cielo, la Sua futura venuta, un’unica
santa cattolica apostolica (e Romana) Chiesa, la remissione dai
peccati, la resurrezione dei morti, la vita eterna.
Dopo 401 anni il Concilio Vaticano II, ad opera della
Commissione per l’esecuzione conciliare sulla liturgia sacra (Consilium
ad exsequendam Constitutionem de Sacra Liturgia), presieduta dal
cardinale Giacomo Lercaro e composto anche da monsignore Annibale
Bugnini (più tardi scoperto
come sicuro appartenente alla massoneria e pertanto “punito” con la
nomina a nunzio apostolico a Teheran e che anni prima era stato
addirittura esonerato dall’insegnamento della liturgia a causa delle sue
idee non ortodosse) ritenne di inserire nella liturgia cattolica un secondo “Credo”, dandogli la seguente nuova versione:
«Credo in un solo Dio, Padre onnipotente,
creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili e
invisibili. Credo in un solo Signore, Gesù Cristo, unigenito Figlio di
Dio, nato dal Padre prima di tutti i secoli: Dio dà Dio, Luce da Luce,
Dio vero da Dio vero, generato, non creato, della stessa natura del
Padre; per mezzo di lui tutte le cose sono state create. Per noi uomini e
per la nostra salvezza discese dal cielo, e per opera dello Spirito
Santo si è incarnato nel seno della Vergine Maria e si è fatto uomo. Fu
crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato, morì e fu sepolto. Il terzo
giorno è risuscitato, “secondo le Scritture”, è salito al cielo, siede
alla destra del Padre. E di nuovo verrà, nella gloria, per giudicare i
vivi, e i morti, e il suo regno non avrà fine. Credo nello Spirito
Santo, che è Signore e dà la vita, e procede dal Padre e dal Figlio. Con
il Padre e il Figlio è adorato e glorificato, e ha parlato per mezzo
dei profeti. Credo la Chiesa, una, santa, cattolica e apostolica.
Professo un solo battesimo per il perdono dei peccati. Aspetto la
risurrezione dei morti e la vita che verrà. Amen».
Non sono un teologo, né un professore di storia delle
religioni, e neanche un semplice insegnante di religione alle scuole
medie; mi presento solo come persona intellettualmente curiosa di
conoscere e di interpretare gli avvenimenti della storia e quindi della
economia, della politica e della religione, partendo dal presupposto che
questi tre settori sono collegati tra loro da una lunga linea rossa,
molto spesso sotto traccia, che li tiene strettamente e nascostamente
intrecciati l’uno all’altro, rimanendone vicendevolmente influenzati e
condizionati.
Quindi, per prima cosa, mi si vorrà perdonare se
sottopongo la seconda versione del “Credo” ad una brevissima analisi
sull’uso delle parole e della punteggiatura e sui motivi che quell’uso
hanno consigliato.
La cosa non è naturalmente fine a sé stessa, perché
l’uso di talune parole e di una certa punteggiatura può sconvolgere il
significato di una frase e, come nel caso di specie, assumere un
negativo riflesso sulla interpretazione del significato religioso della
preghiera in esame, almeno per quanto riguarda la parte che si riferisce
al simbolo più importante della religione cristiana, quello che la
contraddistingue in modo decisivo dalle altre religioni, rendendo
irrimediabilmente impossibile di ritenere che tutte le religioni siano
tra loro uguali, pur in una visione alquanto dolcificata che è propria
dell’attuale, più volte enunciato, ecumenismo.
Mi riferisco al Simbolo della Resurrezione di Gesù.
Se Gesù è risorto dalla morte non può che essere il Figlio di Dio e
quindi Dio stesso; se non è risorto o si dubita di questo Simbolo, Gesù
potrebbe essere incluso nel numero dei tanti profeti, come sostengono
giudei (definendolo il "falso profeta", "il mentitore", "l'appeso") e
mussulmani.
Non
c’è alcuna via di mezzo: solo la resurrezione di Gesù dalla morte prova
che la Sua sostanza è quella di Dio e che, quindi, è Dio Egli stesso.
Prima di prendere in esame questo preminente punto
del nuovo “Credo”, è necessario rilevare preliminarmente come la seconda
versione di questa preghiera si contraddistingua per una eccessiva
prolissità (è lunga il doppio della prima versione, peraltro come è
usuale nel linguaggio e nella scrittura dei nostri giorni, che sembrano
programmati proprio per nascondere il pensiero), così poco confacente
per una preghiera, che (al pari di tutte le altre) dovrebbe segnalarsi
per concisione, come, d’altronde, ha insegnato lo stesso Gesù con il
“Padre nostro”, l’unica preghiera che Egli ci ha direttamente
tramandato.
Tanto per fare soltanto alcuni esempi, perché nella
nuova versione del “Credo”, all’affermazione di un Padre onnipotente
creatore del cielo e della terra si è ritenuto di aggiungere le parole,
che mi appaiono sovrabbondanti e quindi inutili, “di tutte le cose
visibili e invisibili”?
Queste parole che cosa aggiungono al simbolo della
creazione del cielo e della terra da parte di un Padre onnipotente, e
quale diverso significato può loro darsi una volta che si è dato atto
della creazione, oltre che della terra, anche del cielo, concetto,
questo, necessariamente comprensivo di tutto “l’universo” e quindi anche
delle “cose invisibili”?
E quale valore dare alle parole “Dio da Dio, Luce da
Luce, Dio vero da Dio vero”? Non era sufficiente il periodo che precede
queste parole, come nella prima versione?
Naturalmente questi sono solo alcuni esempi della
denunciata prolissità del secondo “Credo”, e mi piace concludere questo
specifico punto preliminare, mettendo in rilievo come ogni preghiera,
specialmente importante come il “Credo”, acquisiti una maggiore
solennità e ispiri una maggiore meditazione se vi siano in essa
conciliate completezza e concisione.
La cosa straordinaria è che il “Credo” nella sua
prima versione è ancora riconosciuto valido anche ai nostri giorni: esso
infatti viene recitato durante la Messa nel tempo della Quaresima,
durante il quale, come suggerisce il Messale Romano (II ed., pag. 306)
«si può rinnovare la professione di fede come Simbolo detto “degli
Apostoli”» ed «il celebrante è tenuto ad avvisare per tempo l’assemblea
liturgica di questa scelta».
Perché questa preghiera, nelle sue due
versioni (tanto contrastanti ed incompatibili tra loro, come vedremo, in
un ben determinato punto con gravi conseguenze sullo stesso fondamento
del Cristianesimo) viene, ciò nonostante, recitata in entrambe le
versioni, sia pure in tempi diversi, dalla liturgia della Messa? A quale
delle due versioni, tra loro così diverse per l’inquietante contrasto,
si deve dare credito (o maggior credito)?
Ciò, dunque, non può non significare innanzitutto che
questa preghiera, nella sua prima versione, conserva tutto il suo
valore originario, il suo significato e la sua essenza, per cui non mi
sembra giustificata la sua incomprensibile alternanza con una seconda
versione, che, come si è detto, si contraddistingue, non solo per una
prolissità del tutto inutile ai fini del ricordo di tutti i Simboli
significativi del Cristianesimo, ma soprattutto perché su un determinato
punto è irrimediabilmente contrastante con la prima versione.
Vale porre in rilievo, ancora una volta, come il
Cristianesimo sia una religione completamente diversa da tutte le altre e
che gli abusati concetti di (“sincretismo” e di “ecumenismo” debbano
essere intesi, a tutto concedere, soltanto come esigenza di tolleranza
tra di loro di tutte le religioni, e non come affermazione della loro
uguaglianza: infatti questa blasfema affermazione, come si è già
accennato e come ritengo di ripetere, sottintenderebbe necessariamente
che Gesù non è Figlio di Dio, ma un semplice profeta come ritengono
giudei e mussulmani, negando esplicitamente, la Sua Resurrezione, cioè
il Simbolo-cardine del Cristianesimo. A meno che non siano proprio i
giudei ed i musulmani a riconoscere la divinità di Gesù.
Un punto di mezzo non può esistere ed è esplicitamente proibito dal Primo Comandamento.
Ma torniamo al punto di partenza, quello che riguarda
l’uso di parole e di punteggiatura nella seconda versione del “Credo”,
che dà adito a forti perplessità in ordine al dovuto rispetto del più
importante Simbolo della preghiera.
Per quanto concerne la prima versione è da mettere in
rilievo come la preghiera sia composta di un solo periodo: non esiste
infatti alcun punto fermo (“segno grafico che posto al termine di un
periodo ne individua il suo senso compiuto”) se non alla fine della
preghiera stessa, per cui l’orante crede in tutti i Simboli enunciati
allo stesso modo e senza alcuna distinzione.
Invece, la seconda versione della preghiera è
cosparsa di quei segni di punteggiatura: nella prima frase si presenta
il Simbolo della creazione del cielo e della terra per opera di un solo
Dio, Padre onnipotente. Punto. Nella seconda frase si presenta il
Simbolo di Gesù Cristo, Figlio di Dio, della stessa sostanza del Padre.
Punto. Nella terza frase si presenta il Simbolo della discesa di Gesù
dal cielo per la salvezza degli uomini e della Sua incarnazione nel seno
della Vergine Maria. Punto. Nella quarta frase si presenta il Simbolo
della Sua crocifissione, della Sua morte e della Sua sepoltura. Punto.
Nella quinta frase si presenta il Simbolo della resurrezione di Gesù il
terzo giorno, “secondo le Scritture”, e la sua ascensione al cielo.
Punto.
Ora è lecita la domanda: perché soltanto per il
Simbolo della Resurrezione si è aggiunto, tra virgole, l’inciso su
riportato in corsivo?
Secondo la successione delle suddette frasi, tutte
chiuse da un punto fermo, che rende ciascuna di esse lessicalmente (e
quindi significativamente) indipendente l’una dall’altra, non può
sorgere alcun dubbio che il richiamo alle Scritture riguarda soltanto il
Simbolo della Resurrezione di Gesù e non anche gli altri Simboli.
Quindi soltanto per la Resurrezione bisogna rifarsi alle Scritture, non
anche per gli altri Simboli. Il riferimento della suddetta apposizione
solo al mistero della Resurrezione (a ben riflettere e secondo un
corretto uso della lingua italiana) non può avere altro significato ed
altra interpretazione.
Se noi dovessimo risalire alle Scritture solo
per la Resurrezione e non anche per gli altri Simboli, dovremmo
domandarci la ragione di questa differenza così pericolosa: per tutti
gli altri Simboli dovremmo credere senza rifarci alle Scritture, mentre
per quello della Resurrezione la nostra fede dovrebbe dipendere soltanto
(o anche) dalle Scritture.
Non può negarsi che all’inciso che richiama così
chiaramente le Scritture soltanto per quel Simbolo, e non anche per
altri, deve pur darsi una interpretazione, deve pur darsi una
convincente spiegazione. Infatti, non potendosi contestare che tutti i
Simboli sono riportati dalle Scritture e non solo quello della
Resurrezione, non può non sorgere la preoccupazione che questa
differenza possa avere un significato limitativo di quel Simbolo: mentre
a tutti i Simboli noi crediamo in base alla nostra fede, solo per
quello relativo alla Resurrezione noi abbiamo bisogno di un sostegno
oggettivo, quello appunto delle Scritture.
Sorge
il sospetto che il mantenimento di entrambe le versioni del “Credo”
appartenga a quel disegno subdolo, proprio del modernismo, diretto da
una parte a non incorrere nell’anatema pronunciata da Pio V (sess. XXII,
can. 9 del Concilio Tridentino, il quale fu di natura dogmatica - si
ricordi bene - a differenza del Concilio Vaticano II, che fu soltanto di
natura pastorale), contro chi non avesse rispettato le decisioni del
Concilio Tridentino, dall’altro di introdurre di fatto e subdolamente
nella liturgia la seconda versione del “Credo”, pur conservando la
prima.
Un, po’ quello che si è fatto, altrettanto
subdolamente, con l’uso della lingua volgare nella liturgia cattolica:
pur mantenendo, ma solo ufficialmente, in vita la lingua latina, però
nella pratica comune della liturgia non è più volutamente usata e viene
man mano dimenticata. Come non si è avuto il coraggio di abolire
ufficialmente la lingua latina nella liturgia cattolica, ma la si è di
fatto trascurata per facilitarne la sua dimenticanza, così non si è
avuto il coraggio di abolire la prima versione del “Credo”, ma solo di
accompagnarla con una seconda che, come si è detto, contiene la
gravissima anomalia che attenta al Simbolo della Resurrezione di Cristo.
D’altra parte, che questa sia la strategia
del nuovo Cattolicesimo modernista (al fine di conciliarlo con il
protestantesimo in modo indolore ed occulto), lo si deduce, per esempio
(tanto per fare un esempio), anche dalla circostanza che ha messo da
parte (solo di fatto e non ufficialmente) un sacramento basilare come
quello della confessione, non essendo più coltivato, tanto è vero che la
quasi totalità di coloro che si accostano alla Comunione la trascura, e
che dalle chiese sono scomparsi i confessionali (segno questo
molto significativo), mentre non va neanche trascurato che durante la
distribuzione dell’Ostia consacrata (simbolo della Presenza Reale di
Cristo) i comunicandi restano in piedi (ho saputo che in qualche caso la
Comunione sia stata negata al fedele che si fosse inginocchiato), e che
gli altri fedeli restano bellamente seduti ai loro banchi, qualcuno
anche con le gambe accavallate.
Peraltro la scelta del mantenimento, pur solo
apparente del dogma, evita altre conseguenze che sarebbero davvero
catastrofiche per il Cattolicesimo col trascorrere del tempo. Infatti,
occorre in verità porre in evidenza un altro grave pericolo: e cioè che
la soppressione ufficiale, o la variazione di quanto disposto dal
Concilio Tridentino, dovrebbe inevitabilmente significare la
irrimediabile ed implicita negazione del dogma della infallibilità del
papa; il che consentirebbe di affermare, come logica conseguenza, che il
rinnegamento del dogma dell’infallibilità papale colpirebbe
necessariamente tutti i papi, compresi quelli implicati nel Concilio
Vaticano II.
Infatti, se i papi del Concilio Tridentino possono
non essere stati infallibili, potrebbero non esserlo stati neanche i
papi del Concilio Vaticano Il (tanto più che essi non hanno parlato ex
cathedra come Pio V). E naturalmente nemmeno Pio IX, il papa che nel
1870, nel Concilio Vaticano I, aveva sancito il dogma in questione.
Per dimostrare quanto è stato finora accennato
ritengo di chiudere questo mio scritto, ripetendo ancora una volta una
significativa opinione di alta importanza, a cui ho già fatto
riferimento: infatti già nel 1943 (più di vent’anni prima del Concilio
Vaticano II), Ernesto Bonaiuti (v. n. 436 di “Chiesa viva”) famoso prete modernista e scomunicato, aveva scritto: «Il
Modernismo si propone (...) di trasformare il cattolicesimo
dall’interno, lasciando intatto, nei limiti del possibile, l’involucro
esteriore della Chiesa (...). Il culto esteriore durerà sempre come la
Gerarchia, ma la Chiesa, in quanto maestra dei sacramenti e dei suoi
ordini, modificherà la gerarchia e il culto, secondo i tempi: essa la
renderà più semplice, più liberale, e quindi più spirituale; e per
quella via essa diventerà un protestantesimo ortodosso, graduale, non
violento, aggressivo, rivoluzionario, insubordinato».
Conservare, quindi, il Cattolicesimo soltanto
nel suo involucro esteriore, ma apportarvi all’interno quelle
modificazioni, inconsapevolmente acquisite dagli ignari fedeli, che lo
equiparasse di fatto ad un “protestantesimo ortodosso”, costituisce il
programma occulto del Modernismo, che procede avanti nella più completa e
voluta ignoranza dei popoli, e nella colpevole acquiescenza degli
ambienti cattolici.
Citazioni tratte da un articolo del dott. Bruno Tarquini, Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione
Chiesa Viva, ANNO XLI - N° 439, GIUGNO 2011 per gentile concessione dell'Ing. Franco Adessa
Pubblicazione a cura di Carlo Di Pietro
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e per quanto attiene l'espressione del primo credo "scese negli inferi"?
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