Il nuovo Navarro-Valls. Parla Greg Burke, l’ex reporter di cronaca nera che sarà lo stratega della comunicazione vaticana
30 giugno 2012 -
Fino a una settimana fa ero come quelle ragazze che non se le fila nessuno. Adesso, invece, tutti mi cercano. Divertente”.In un piano interrato di viale Tiziano a Roma, quartiere Prati, Greg Burke, 52 anni, americano di Saint Louis (Missouri), cerca di mettere ordine in quella che per quasi undici anni è stata la sua redazione. Una stanza con quattro scrivanie appiccicate assieme al centro e tre orologi a scandire il tempo delle notizie da preparare per Fox news channel: Roma, New York e Londra.
Dieci metri quadrati un po’ sconfusionati, cose ovunque, e in un cassetto un’infinità di piccoli pezzi di carta bianca con una diagonale rossa nel mezzo. Apparentemente tutti uguali, in realtà riportano date e nomi diversi. Sono i pass che la gendarmeria vaticana ha rilasciato in questi anni a Burke ogni volta che è dovuto entrare nelle mura leonine per un appuntamento.
Li ha collezionati tutti, senza immaginare che un giorno non avrebbe più dovuto chiederli. Dalla settimana prossima, infatti, Burke lavorerà in Vaticano.
“Nuovo advisor per la comunicazione della segreteria di stato”, lo ha definito l’Osservatore Romano. Un ruolo inedito? Per certi versi sì. Seppure, in segreteria di stato, vi sia già un ufficio informazioni il cui compito è di sovrintendere l’Osservatore Romano, la Radio vaticana e la sala stampa. E’ diretto da Carlo Maria Polvani, nipote del nunzio a Washington Carlo Maria Viganò. Comunque la notizia c’è e resta una: in tempi di Vatileaks e scandali curiali, la Santa Sede rafforza il settore comunicazione chiamando a fianco del gesuita padre Federico Lombardi un reporter di lunga esperienza, Greg Burke, come Joaquín Navarro-Valls numerario (e cioè un laico consacrato e non sposato) dell’Opus Dei.
I gesuiti Burke ce li ha nel cuore. E’ loro il liceo dove ha studiato a Saint Louis. “Mi hanno insegnato a essere sempre ‘man for other’, ad avere nel cuore anzitutto gli altri e non me stesso – dice –. E poi la passione per le cose, tra queste il giornalismo”.
Tutto è cominciato in università. Racconta: “Odio le scuole di giornalismo, quelle dove ti dicono come si deve scrivere, cos’è una fonte, la deontologia e bla, bla, bla… ma ahimè, dopo gli studi in Letterature comparate alla Columbia University – tra l’altro, Barack Obama era appena un anno dietro di me, mi spiace non aver stretto amicizia con lui – era di fatto la strada obbligata per iniziare questo lavoro e così mi sono specializzato in giornalismo. A qualcosa però quell’anno è servito, se è vero che nella mia classe c’era George Stephanopoulos, che poi sarebbe diventato a poco più di trent’anni capo comunicazione di Bill Clinton. E c’erano tre che poi avrebbero preso il Pulitzer, Tony Horwitz, Geraldine Brooks e Ron Suskind. Anch’io ho scritto un gran libro – dice sorridendo –, ma niente Pulitzer. E’ uscito nel 1997. S’intitola: “Parma: A Year in Serie A”. L’ho scritto con Carlo Ancelotti, l’attuale allenatore del Paris Saint Germain che allora allenava la squadra del Parma”. Perché con Ancelotti? “Fu l’unico allenatore a rispondere alle lettere che avevo mandato a quasi tutti i ct della A”.
La Columbia University ovviamente non è solo teoria. “No, certo. C’era anche pratica. Scrivevo per il giornale della scuola, il Bronx Beat. Ci avevano dato anche due libri da leggere, prima di cominciare ‘i lavori’. In uno c’erano le regole che usa il New York Times per scrivere, nell’altro c’erano elencati diversi scoop usciti sui giornali… Confesso, non li ho letti. Da subito mi sono buttato in strada, a caccia di storie. Arrivavo il mattino e mi dicevano: ‘Esci di qui e torna alle quattro del pomeriggio con un pezzo’. E così facevo. Dovevo cercarmi la notizia, girare finché non la trovavo”.
Poi il primo contratto con un giornale locale. “Mi chiamarono perché lessero i miei pezzi di cronaca nera. La redazione del giornale stava fuori New York, in periferia. Si chiamava Port Chester Daily Item. Era il 1982, età pre Internet. Una gavetta pazzesca. Scrivevo di cronaca nera, insomma, storie forti, dure, anche difficili, un gran bel lavoro. Il giornale era piccolo ma combattivo, c’era chi ironizzava e lo chiamava Port Chester Daily Idiot. Ma noi andavano avanti con orgoglio. Il primo pezzo lo feci su due ragazzi trovati morti in un bosco lì vicino. Credo non abbiano mai risolto il caso e credo addirittura che non siano nemmeno mai riusciti a identificarli. Il secondo pezzo fu su un ragazzo rimasto ucciso in una rissa fuori un locale. Un suo amico di colore venne aggredito verbalmente. Lui si mise in mezzo, faceva freddo, scivolò sul ghiaccio, picchiò la testa e morì. Ricordo anche il terzo pezzo: cadde un viadotto, alcune sfortunate macchine precipitarono in un burrone di oltre cinquanta metri, diversi morti. E io lì a scrivere, col mio taccuino, a ridosso della strada”.
Il primo salto importante avvenne poco dopo. “Arrivò una telefonata da Chicago. Erano quelli della United press international. Cercavano uno che scrivesse di cronaca nera. Andai al colloquio. La capa mi chiese: ‘Ti piace girare o preferisci il lavoro d’ufficio?’. Risposi: ‘Girare!’. E lei: ‘Peccato. Noi stiamo tutto il giorno chiusi qui dentro, seduti alla scrivania…’. Ma fui pronto a replicare: ‘Mi piace tantissimo anche il lavoro d’ufficio però’. E così venni assunto. Amo Chicago. Una città stupenda. Peccato non l’abbia sostanzialmente mai vista. Facevo il turno notturno. Ore e ore chiuso lì dentro. Ma ho un ricordo bellissimo. Soprattutto perché mi hanno insegnato a scrivere veloce. Una lezione fondamentale. Eravamo anche allora nell’era pre-Internet. Giornalismo vero, sempre al telefono. Mi chiamavano dagli stadi di tutti gli Stati Uniti. Basket, hockey, football, e mi dettavano i risultati, spesso anche i tabellini delle partite. Centinaia di dati da rilanciare… Fu l’anno in cui i Chicago Bears sfiorarono la perfect season. Vinsero tutte le partite tranne una. Li seguivo, dal mio ufficio. Ero uno di loro, anche se loro non lo sapevano”.
Dodici mesi così però sono duri. Burke vuole cambiare. Fa esperienza da freelance alla Reuters finché un giorno suona il telefono. Lo chiamano da un piccolo ma ambizioso settimanale cattolico, il National Catholic Register, il più antico degli Stati Uniti, fondato a Denver, di tendenza conservatrice, da non confondere con il National Catholic Reporter, di linea più progressista. Hanno un corrispondente a Sydney, uno a Londra, gliene manca uno a Roma. “Vado io!” risponde subito Burke. “E parto. E’ il settembre del 1986. Arrivo e mi dicono per un mese di non scrivere nulla: “Invita gente a pranzo, impara l’italiano, bazzica il Vaticano. E così faccio. Un mese perfetto. Tocco Castel Sant’Angelo e penso: ‘Non ci credo. Sono qui! Sono davvero qui!’. Terminato il mese sabbatico inizia il lavoro. Un lavoro duro, a onor del vero. Devo scrivere di Vaticano e non è facile. Molti giornalisti italiani scrivono nei loro articoli ‘si dice in Vaticano’, oppure ‘dicono autorevoli fonti in Vaticano’, e ancora ‘dice una porpora che intende restare anonima’… Negli Stati Uniti non si può fare così. Devo avere virgolettati con tanto di nome e cognome. Un’impresa quasi impossibile per i tempi e i modi d’oltretevere. Nessuno vuole parlare. Fissano appuntamenti a settimane di distanza… Prima di darti un’intervista vogliono capire bene chi sei. Insomma, capisco che per fare un articolo mi serve il doppio, il triplo del tempo rispetto a prima. E all’inizio è dura. Ma poi mi abituo. Mi piace il Vaticano e mi piace Roma coi suoi pregi e difetti. Tanto che con tre amici fondiamo il settimanale Metropolitan, una rivista in lingua inglese per gli anglofoni della capitale. Esce per un anno. Col senno di poi posso dire che è l’anno più bello della mia vita. Firmai un articolo di cui ancora oggi vado orgoglioso: ‘The bus from hell’. La storia di un autobus infernale, il 64. Partiva da Termini e arrivava direttamente sotto casa di Joseph Ratzinger, in piazza della Città Leonina. Era sostanzialmente un bus dedicato a turisti e borseggiatori. Ogni viaggio accadeva qualcosa di unico e incredibile. Il 64, un mito per noi americani”.
Il 1994 è un anno di svolta per Burke. Lo chiama il Time. Lo vuole prima come collaboratore, poi come corrispondente fisso da Roma. “Ci credevo nel Time. Mi ero pure fatto fare la foto col volto a tre quarti, un po’ ironico e un po’ cinico, come sono i navigati giornalisti del settimanale. Una foto che da sola diceva: ‘Ehi, sono uno del Time!’. Pensavo che sarei rimasto lì tutta la vita: giornalista del Time per sempre. Contribuii anche alla nomina di Giovanni Paolo II ‘uomo dell’anno’”. L’Osservatore gli ha chiesto recentemente di quelle giornate. Ha risposto: “Ricordo in particolare l’emozione della visita all’inginocchiatoio del Papa. Il segretario mi invitò a sollevare l’imbottitura: sotto c’erano tutte le intenzioni di preghiera di Wojtyla, richieste di intercessioni da ogni parte del mondo. I fedeli del pianeta confluivano lì, nella meditazione del Pontefice”.
Il Time gli chiede anche pezzi di costume. “Che giornali leggono gli italiani?”, gli chiesero dall’America nel 2001. Spiega ora Burke: “Chiamai diversa gente. E andai anche in giro. Le risposte erano sempre le medesime: ‘Il Corriere e il Foglio’. ‘Il Sole e il Foglio’. ‘La Repubblica e il Foglio’. E così scrissi la verità sul vostro big little newspaper, definendolo ‘uno dei più influenti giornali della penisola’”.
L’esperienza a Time è anche fatta di grandi maestri. Dice: “Il mio fu Wilton Wynn, per anni corrispondente da Roma. Si convertì dal protestantesimo alla chiesa cattolica di Roma, credo grazie all’incontro con Giovanni Paolo II. Conservo una foto bellissima di un volo papale. Wojtyla, Papa da poco, è in piedi nel corridoio dell’aereo e parla con Wynn che sta seduto. Sembrano due amici di vecchia data. Ma chi dei due stia imparando dall’altro non lo si riesce a capire”.
E’ nel 2001 che Time inizia una serie di prepensionamenti. Burke capisce che non è più aria. Il sogno di rimanere al Time tutta la vita diviene utopia. C’è un vecchio amico, giornalista al Time tempo addietro e ora direttore editoriale di Fox, in vacanza in Italia. Burke va a trovarlo in spiaggia, all’Argentario. “In costume da bagno gli dissi: ‘Questa volta non ho da chiederti consigli’. ‘Di cosa hai bisogno?’ ‘Di un lavoro’. ‘Cosa ti piace fare? Reporter o producer?’ ‘Reporter!’ ‘Penso che possiamo farcela’. E ci facciamo un bagno. E’ stato il più bel colloquio di lavoro di tutta la mia vita. Finito con la quasi certezza dell’assunzione in un bel bagno nel mare”.
Poco dopo Burke è a Fox, inviato a Roma. “Mi presero perché capivano l’importanza di Roma, e soprattutto della chiesa, nel mondo. E poi vedevano che Wojtyla era anziano. Volevano essere pronti per un eventuale conclave. Ma l’11 settembre cambiò la prospettiva delle cose. Dovetti trascorrere diverso tempo lontano da Roma, in Pakistan, in Israele. Poi l’emergenza finì e rimasi più stabile a Roma. Intensificai i rapporti col Vaticano. Ricordo che seguii alla lettera i consigli di un’amica giornalista che mi disse di seguire sempre il Papa nelle sue visite presso le parrocchie romane. Spesso, infatti, i giornalisti si trovavano in sagrestia quando finiva la messa e si poteva assistere ai suoi siparietti ‘a braccio’ coi chierichetti. Ricordo che una volta, dopo una messa di queste, mi avvicinai a don Stanislaw Dziwisz, segretario particolare di Giovanni Paolo II, e non sapendo bene come fare per presentarmi gli diedi il mio biglietto da visita. Come dire: ‘Sei hai bisogno sai dove trovarmi’”.
Oltre a Wojtyla, Ratzinger. “Lo ricordo quando passeggiava da cardinale per Borgo Pio. Non era difficile incontrarlo. Più volte mi appostai per parlargli. Era sempre gentile. Si fermava e rispondeva molto garbatamente. Un gran signore. Rispettava i giornalisti, non si permetteva mai di dubitare della loro buona fede”.
Gli imprevisti sono il pane quotidiano per il reporter Greg Burke. Come quella volta che convince Fox a fare quattro puntate sui cristiani in medio oriente. Sceglie quattro luoghi, Egitto, Turchia, Betlemme e Libano. Il Libano lo lascia per ultimo, perché il più facile e il più bello, una sorta di puntata da girare in un clima di relax. E’ il 2006. Quella che doveva essere una mezza vacanza si trasforma in guerra. La guerra tra il Libano e Israele. Burke rimane lì più di un mese, scoprendosi inviato di guerra.
Ma l’imprevisto più grande della sua carriera è di un mese fa. Burke è negli Stati Uniti. Il telefono italiano è spento. Lo accende e legge un sms proveniente dal Vaticano. Da chi? Non risponde. Ma spiega: “C’era scritto: ‘Richiama subito’”. Il sostituto della segreteria di stato, Giovanni Angelo Becciu, vuole vederlo. “Non diciamo nulla al telefono, vi parlate di persona”, gli dice l’anonimo mittente del messaggio. Qualche giorno dopo Burke è da Becciu che gli chiede di diventare supervisor sul modello del direttore delle comunicazioni della Casa Bianca, uno stratega di politiche della comunicazione a disposizione del cardinale segretario di stato Tarcisio Bertone. “Hai ventiquattro ore di tempo per decidere” gli dice. Ci pensa e risponde di “no”. Perché? “Troppo poco tempo per una decisione così importante”. Gli danno qualche giorno. Lo riconvocano e risponde “Ni”. “Nel senso che ho detto loro che gli avrei fatto sapere ma non ero ancora convinto”, dice. Ma poi accetta. “Alla fine, ho ceduto” dice sorridendo.
Lo scantinato di Fox è sempre un gran casino. Burke si arrabatta per mettere ordine. Deve portare via le sue cose, sembra quasi gli dispiaccia. Da settimana prossima la sua scrivania verrà occupata da un nuovo corrispondente. Il nuovo ufficio di Burke sarà su, direttamente in terza loggia, a pochi passi dall’appartamento papale. “Oltre quelle stanze non sono mai andato – dice –. E mai avrei immaginato un giorno di andarvi”.
Pubblicato sul Foglio sabato 30 giugno 2012
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