Marco
Marzano nato nel 1963 è un ateo dichiarato che insegna sociologia
all’università di Bergamo. E’ autore di diversi testi di cui l’ultimo
edito da Feltrinelli ed intitolato” Quel che resta dei cattolici.
Inchiesta sulla crisi della Chiesa in Italia”. Il fatto di non essere un
credente forse in alcuni casi gli permette di essere estremamente
lucido su alcune situazioni attuali della Chiesa contemporanea. Ho
trovato il libro di Marzano estremamente interessante. In modo
particolare il nostro sociologo analizza nella terza parte del suo libro
il Cammino Neocatecumenale ideato dal chitarrista spagnolo Kiko
Arguello ed io da sacerdote cattolico anche in base alla mia esperienza di diversi anni
in quel tipo di “ itinerario di Fede” devo ammettere che Marzano ha
centrato il problema con estrema lucidità per cui raccomanderei la
lettura del libro a tutti i vescovi e i sacerdoti che hanno a che fare
con i “Kikiani”.
Scrive Marzano: “ Il Cammino neocatecumenale presenta
molte caratteristiche di quelle che, in termini sociologici, si può
definire una “setta religiosa”.
Secondo Bryan Wilson (1990), il sociologo britannico
che, forse più di ogni altro, ha studiato il fenomeno con passione e
costanza per quasi mezzo secolo, una setta religiosa, in particolare una
setta cristiana, si distingue in primo luogo per il carattere
minoritario, non solo perché a essa aderisce una parte molto ridotta
della popolazione, ma soprattutto perché la setta rivela una differenza
marcata (nella dottrina, nella pratica, nel linguaggio, nell’ethos
sociale) rispetto alla religiosità più diffusa e maggioritaria. Da
questo punto di vista, i neocatecumenali si definiscono cattolici e come
tali sono riconosciuti nella chiesa, ma la maggior parte della
popolazione italiana, che pure conosce molti dei dettami e della
dottrina della chiesa cattolica, poco o nulla sa di loro e delle tante
singolarità che caratterizzano la loro vita associata (la messa il
sabato sera, gli scrutini, lo stesso concetto di Cammino eccetera) e
assai difficilmente le riconoscerebbe come propriamente “cattoliche”.
Una seconda caratteristica delle sette, consiste
nell’opporsi ai valori più comuni e diffusi all’interno di una certa
società, nel rappresentare una forma di protesta e di reazione, per
certi versi una sfida, contro i modelli di comportamento e di pensiero
maggioritari. Talvolta in nome di una perduta purezza originaria.
Questo atteggiamento si traduce nel tentativo di isolare i propri adepti
dal resto della società, di segregarli nel mondo chiuso e
autosufficiente della vita settaria, di promuovere l’endogamia. Anche su
questo punto direi che la fisionomia del Cammino è perfettamente
settaria. Terso tratto: le sette sono organizzazioni alle quali si
aderisce volontariamente e per scelta. E non semplicemente per
tradizione o consuetudine.
Quarta caratteristica: proprio perché basata su una
partecipazione volontaria la condotta di vita dei membri di una setta
deve risultare “esemplare”, così come assiduo deve essere l’impegno
all’interno dell’organizzazione; due qualità che chiariscono la natura
“totalizzante” del legame tra il fedele e la setta. Quinti elemento:
“Per l’individuo che vi aderisca”, “l’appartenenza a un gruppo come
questo è la fonte primaria di identità sociale: egli è un membro della
setta prima di ogni altra cosa”. Nel nostro caso, possiamo dire che
l’identità neocatecumenale prevale su quella derivante degli altri ruoli
sociali svolti dai suoi membri: quello di impiegato, di padre, o madre
di famiglia, di appassionato di calcio ecc. Infine, ultimo elemento,
nelle sette la punizione dei devianti non ammette indulgenze e, nei casi
più gravi, determina l’espulsione del reo e la proibizione più o meno
tassativa ed esplicita, per chi rimane nella setta, di intrattenere
qualsiasi rapporto con lui. Direi dunque che, nel complesso, il Cammino
neocatecumenale possiede tutte le caratteristiche per essere annoverato a
pieno titolo tra le sette religiose studiate prima da Troeltsch e da
Weber e poi da Wilson (1982, 1990) e da altri sociologi (Beckford 1975,
Dawson 2001, 2005).
Al pari dei testimoni di Geova, dei Mormoni, degli
avventisti del settimo giorno, e di una miriade di altri gruppi. La sua
caratteristica più singolare è tuttavia certamente costituita dal fatto
che il Cammino sia riconosciuto come un’organizzazione legittima
all’interno della Chiesa cattolica, che esso sia divenuto a tutti gli
effetti “parte integrante”, di questa grande istituzione millenaria e
che, anzi, essa possa tranquillamente provare a egemonizzarla, ad
assimilarla a sé, a piegarla ai propri scopi.
Infiltrandosi al suo interno, facendo ricorso al
denaro, al sostegno del pontefice, dei vescovi e ad altre ricorse”. Il
sociologo Marzano poi nel suo interessantissimo libro riporta diverse
testimonianze di fuoriusciti dal Cammino Neocatecumenale ed io dal libro
riporto l’esperienza di una ragazza di nome Giulia, scrive Marzano: “
Le donne non contano un granché nel Cammino. Talvolta, soprattutto se
sole, senza un marito o un fidanzato, vengono schiavizzate. O quasi.
“Usate” come per esempio ausiliario al servizio dell’organizzazione. E’
per esempio il caso di Giulia, una ragazza marchigiana inquieta e
sensibile, entrata nel Cammino una decina d’anni orsono, “colpita” per
usare le sue parole, “dalla radicalità della proposta catecumenale. E
comunque persuasa che in essa non ci fosse nulla di pericoloso perché si
trattava pur sempre di un gruppo cattolico, approvato da “santa romana
chiesa”.
Dopo un paio d’anni di Cammino, Giulia partecipò a
una di quelle grandi adunate del movimento immancabilmente concluse con
l’esortazione di Kiko ad “alzarsi”, cioè ad assecondare, da parte di
celibi e nubili, quell’irresistibile desiderio di mettersi al servizio
del Cammino, promettendo, con un atto clamoroso e pubblico poi
confermato dall’ascesa al palco accanto al fondatore, di intraprendere
la via del sacerdozio o della consacrazione. Nei mesi successivi,
all’interno delle singole comunità, quella promessa viene valutata con
attenzione, soppesata, indirizzata. A Giulia venne detto che la sua
missione sarebbe consistita in una “itineranza di servizio”, che avrebbe
dovuto accompagnare una famiglia catecumenale italiana impegnata in una
“itineranza di evangelizzazione”, cioè nella creazione di nuove
comunità di catecumeni nel mondo. In pratica, Giulia venne spedita,
insieme a un’altra ragazza italiana, in una città della Costa Azzurra,a
vivere insieme a una famiglia con otto figli. “La nostra giornata era
tremenda: dovevamo svegliarci alle sei e mezza, fare alzare i bambini,
preparare la colazione, poi accompagnarli a scuola. E poi tornare di
corsa a cada. Senza nemmeno poter partecipare alla messa. La “signora”
si alzava alle nove ed era sempre stanca. Se riteneva che non
lavorassimo abbastanza o che non fossimo efficienti come lei avrebbe
voluto ci “teneva il muso” e non ci parlava per giorni. In ogni caso,
nel resto della mattinata, dovevamo “darci dentro” con i lavori
domestici, la cucina ecc. Pranzavamo velocemente e, dopo un’ora di
riposo, dovevamo tornare a scuola a prendere i bambini, riportarli a
casa, cambiarli, verificare che facessero i compiti, preparare loro la
cena e alle 23.30 finalmente andare a dormire. I genitori ci spiavano di
frequente e non ci concedevano nemmeno il privilegio di una
passeggiata. Abitavamo a pochi chilometri da spiagge meravigliose, ma il
mare l’abbiamo visto una sola volta in quasi in un anno”.
Giulia prosegue il suo racconto ricordando
l’infelicità dei bambini, che non solo sembravano smarriti in quel
contesto e che sarebbero stati felicissimi di far ritorno a Napoli, ma
che mostravano segni di un disagio psicologico profondo: uno era
isterico, un altro quasi autistico, un altro sempre triste e silenzioso.
“Per una ragione o per l’altra, non ce n’era uno che stesse bene.
Quella casa era un vero proprio inferno”, ricorda Giulia. Un inferno
governato da un padre assente e violento; specie con la figlia maggiore,
che un giorno schiaffeggiò ripetutamente con forza solo perché, come
farebbe chiunque, ricorda Giulia, “mangiava una banana tutta intera.
Secondo lui avrebbe dovuto invece romperla e ingoiarla pezzo per pezzo”.
Dopo qualche settimana di quella vita, Giulia si
rivolge al suo responsabile, lamentandosi del fatto che non ha né il
tempo, né l’autorizzazione (una volta è stata severamente redarguita dal
capofamiglia) nemmeno per “fare le lodi” nella sua camera. E che non le
è consentito di partecipare alla settimanale liturgia della parola. “Il
mio catechista mi rispose dicendomi che la precedenza doveva essere
data al servizio e non alla preghiera. E che a quest’ultima dovevo dar
spazio solo quando ci fosse stato tempo. Cioè, mi disse che ero
diventata una ragazza alla pari. Dopo qualche mese decisi di tornare in
Italia, e dopo qualche tempo ancora, e con molti timori, di uscire
dall’organizzazione. “La verità”, conclude con amarezza, “è che nel
Cammino le donne hanno una funzione solo strumentale: servono a fare
figli a gogò o, se nubili, vedove o divorziate, come schiave per le
famiglie dei confratelli che ne abbiano bisogno”.
Don Marcello Stanzione
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