‘Per
una pace liturgica’ è il titolo di uno studio di Monsignor
Gherardini pubblicato suDivinitas (gennaio
2012). Esso va letto assieme a ‘LITURGIA, cioè?’ che potete
trovare su‘Chiesa
e postconcilio,’del
19 gennaio 2012.
Il
titolo succitato trae origine dalla constatazione che – dice
Gherardini in ‘LITURGIA, cioè?’ il Sommo Pontefice “voleva
avviare una pace liturgica ed ha – per colpa dei ribelli –
incentivato la guerra” fra i gruppi ecclesiali favorevoli alla
Messa tradizionale (VO) e quelli contrari, ed il saggio
su Divinitas è
una proposta volta a conseguire quella pace così elusiva e così
agognata.
Senonché,
la proposta di Mons. Gherardini ha suscitato qualche perplessità nei
circoli cosiddetti tradizionalisti, sostenitori e promotori del VO. E
tali perplessità, annunciate subito dopo la pubblicazione degli
articoli succitati, non si sono affievolite; c’è chi ha alluso
(senza peraltro fare il nome di Gherardini; ma qui non è il nome,
bensì le soluzioni proposte che contano) a “spluzioni liturgiche
accomodanti” e chi ha commentato sull’internet (peraltro
cancellando poi il commento) che le proposte di Monsignore sono da
prendersi con le pinze. Alla base di queste obiezioni sembra ci sia
il timore che Monsignore voglia proporre una contaminazione – in
senso filologico, s’intende! – o commistione dell’antico e del
nuovo rito; il che comprometterebbe l’integrità del VO e non
gioverebbe a quanti sono impegnati nella diffusione della Messa
tradizionale.
Ora,
se i tradizionalisti che finora, a torto o a ragione, hanno visto in
Monsignor Gherardini un loro campione e, più a torto che a ragione,
ne hanno fatto un vessillo per le loro cause non concordano in tutto
con l’illustre prelato, poco male; anzi, non c’è da
meravigliarsene, perché i pensatori che come Gherardini vedono le
cose in una prospettiva ignota a molti ambienti, vengono poi
criticati semplicemente perché in tali ambienti ci si regola con le
idee come faceva la manzoniana donna Prassede: sono poche, ma a
quelle poche si è molto affezionati.
Nulla
di male, dunque, perché dissenso e critica possono essere fonte di
ulteriori e costruttivi approfondimenti; a patto però che prima di
dissentire e di criticare si legga ciò che l’autore ha scritto. I
due saggi di Monsignor Gherardini sono di dominio pubblico, quindi li
ho letti anch’io e non ci ho visto il minimo accenno ad una sia pur
parziale fusione dell’antico e del nuovo rito; al contrario,
Gherardini ne mantiene rigorosamente la distinzione. A conclusione di
‘LITURGIA, cioè?’ egli auspica il coordinamento degli “attuali
due riti, in maniera che uno corrisponda pienamente all’altro,
rimanendo ovviamente ambedue quel che sono: un rito nuovo ed uno
tradizionale.” E
poiché, come andava ripetendo un mio professore all’università,
bisogna dire anche l’ovvio, aggiungo che “ambedue” vuol dire
“due” e non “uno.”
Non
diversamente si esprime Gherardini in Divinitas:
“È necessaria, cioè, un’illuminanteunificazione dei
Riti.
Si
noti bene: dico “dei Riti” e non “del Rito” (p. 33).”
L’unificazione
conduce all’unità od all’uniformità, ma non è fusione di
elementi diversi che faccia loro perdere la propria identità. Nella
fattispecie i due riti restano diversi, ma devono entrambi esprimere
la realtà dell’unico sacramento. Gherardini si limita a pochi
cenni sul come ciò possa avvenire in concreto, lasciando ai
liturgisti l’onere e l’onore dello studio in merito; e basterebbe
questo a tacitare (se avessero letto i suoi scritti) quelli che gli
rimproverano d’arrogarsi compiti non di sua competenza. Ma
Gherardini insiste sul fatto che una correzione del nuovo rito deve
iniziare da subito.
Ed
a questo punto, lasciando gli scritti dell’illustre teologo,
azzardo alcune riflessioni mie sul perché è urgente una rettifica
del nuovo rito – quello antico non ha bisogno di rettifiche, ma di
diffusione -, certa che, se sbaglio, mi correggerete, oh, se mi
correggerete.
Il
cardine su cui ruota la liturgia della Messa sono le parole della
consacrazione: questo è il mio corpo, questo è il mio sangue.
Queste parole sono al centro di tutte le altre preghiere e vi restano
anche se il celebrante le proferisce a velocità folle, schiacciate
fra una predica che più prolissa non si può ed altrettanto prolissi
annunci sulla grigliata missionaria o la pizza per famiglie in
programma per la settimana successiva; lo sono anche se non le sente
nessuno e nessuno vi fa attenzione, anche se non c’è la minima
traccia di raccoglimento o – come dicono le anime pie – “senso
del sacro.” Perché queste parole, solo che il celebrante lo
voglia, operano la transustanziazione. Esse sono la sutura fra
l’antico ed il nuovo rito; fra tutte le goffaggini, mostruosità
linguistiche e semieresie di cui il NO è prodigalmente infarcito,
quelle parole sono rimaste intatte, e sono quelle che fanno sì che
la Messa sia la Messa, perché in virtù di esse Cristo è presente
sacramentalmente, cioè in corpo, sangue, anime e divinità.
Ci
crediamo? alla radice d’ogni nostra partecipazione alla Messa c’è
un atto di fede. Crediamo che ciò ch’era pane e vino sia ora
Cristo? qui non c’è posto per mezze misure. La fede le esclude.
Nell’aula
magna dell’Università di Leeds, traboccante di accademici avvezzi
a considerare la religione cattolica una forma di “pietà popolare”
a mezzavia tra emotività e superstizione, nel 1994 padre Leonard
Boyle spiegò ai suoi colleghi per 45 intensissimi minuti, nella scia
di S. Tommaso, che “o si ha la fede o non la si ha; e se la si ha,
non ci sono gradi di possesso.”
Anche
nella Messa non ci sono gradi di presenza di Cristo: Egli è tutto lì
sotto le specie eucaristiche. La sua presenza non dipende dalla
bellezza del rito o dalle disposizioni interiori o dal numero dei
fedeli, ma dalla volontà di Cristo quando istituì l’Eucarestia
(“Fate questo in memoria di me”) e dalla volontà del celebrante
di fare ciò che fece Cristo. E ciò vuol dire che Cristo è presente
nel nuovo rito con tutte le sue brutture come in quello antico con
tutta la sua bellezza.
(Una
parentesi per chi voglia tacciarmi di scarsa sensibilità estetica:
ricordo, durante una Messa tridentina alla chiesa del Rosario a
Trieste, un’esecuzione – in verità singolare – del secondo
movimento della Settima di Beethoven in cui un corno inglese suonava
la melodia del primo tema nelle parti in genere affidate ai violini.
Il corno inglese rendeva in modo particolarmente suggestivo quel tema
assetato di tenerezza. Fu un inaspettato quanto gradito momento di
riflessione (alcuni le chiamano “elevazioni musicali”) durante
l’offertorio. Ma Beethoven, se pur espertamente eseguito, non è
nostro Signore, e le elevazioni musicali non sono fede).
Quindi
fanno bene quelli che si dedicano alla diffusione del rito antico e
lavorano perché le celebrazioni siano decorose: lo ha chiesto Cristo
stesso, che ordinò ai suoi apostoli di preparare una sala bella, e
grande, e addobbata per quella che sarebbe stata l’ultima cena. Ma
la stessa esigenza di adorazione che spinge a rendere a Dio il culto
più decoroso possibile deve anche spingerci a non tollerare le
banalità, la sciatteria, le ambiguità e talvolta i sacrilegi del
nuovo rito in cui Cristo è, nonostante tutto, sacramentalmente
presente. Le auspicate correzioni al nuovo rito rientrano, credo, in
questo quadro. “Cercate prima il regno di Dio”: se non erro, alla
radice delle “soluzioni accomodanti” c’è un grande atto di
fede.
di Luciana Cuppo
Luciana
Cuppo è
una medievalista che dopo diversi anni d’insegnamento negli USA
vive ora in Italia e studia la trasmissione di manoscritti attinenti
a Vivarium (la fondazione monastica di Cassiodoro in Calabria) e
la fama
sanctitatis di
Cassiodoro. Fra le sue pubblicazioni più recenti: ‘Felix of
Squillace and the Dionysiac computus I: Bobbio and Northern Italy (MS
Ambrosiana H 150 inf.),’ in The
Easter Controversy of Late Antiquity and the Early Middle
Ages (Brepols
2012), e ‘Moses and the Paschal Liturgy’ in Illuminating
Moses: A History of Reception, in
stampa per i tipi di Brill.
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