Il professor Pietro De Marco torna sulla presenza dei cattolici nella
sfera politica nell’analisi che segue. Come sempre originale, acuta e
fuori degli schemi, al pari di altre da lui già pubblicate, sullo stesso
tema, su “Il Foglio”, su “l’Occidentale” e in www.chiesa:
> Poco praticanti e poco virtuosi. Ma sono loro che fanno “Chiesa di popolo”
Come per altre vie fa anche il recente libro di Luca Diotallevi, “L’ultima chance”, Rubbettino editore, lanciato in anteprima da Settimo Cielo, le analisi di De Marco demistificano molti ingannevoli luoghi comuni sulla presenza politica della Chiesa e dei cattolici, in Italia: luoghi comuni puntualmente tornati in auge in queste ultime settimane, col convegno di Todi e col varo del governo Monti.
*
ANCORA SUI CATTOLICI IN POLITICA
di Pietro De Marco
1. La diagnosi della “scomparsa dei cattolici” dalla vita pubblica e politica italiana degli ultimi venti anni è un errore che genera altri errori, indipendentemente dalle buone ragioni e intenzioni con cui viene formulata.
L’errore in larga misura si alimenta della autoreferenzialità (così si dice) di alcune élites cattoliche, quelle che pensavano e pensano di essere o rappresentare “i cattolici”; e della maggiore confidenza che la gerarchia ha con esse, più che con il cattolico comune.
In effetti, fino a quando la classe politica cattolica democristiana proveniva, prevalentemente, dal nucleo centrale della “religione di Chiesa” che alcuni sociologi denominano “orientata e riflessiva”, o con linguaggio più corrente dalla componente credente e praticante assidua, insomma anzitutto dalle file dell’Azione Cattolica, la categoria di politico cattolico sembrava chiara, oltre che rassicurante.
Ma da oltre un ventennio i cattolici della e nella politica sono, invece, praticanti ordinari, non emersi da filiere “virtuose”. In Italia è stata una relativa novità, ma non lo è più da tempo.
Da anni vi sono cattolici in posizione di rilievo ovunque, anche al governo, con un prevalente mandato di cattolici, cioè della maggioranza della maggioranza della popolazione, ma senza partito cattolico né filiera formativa “qualificata”. Una rappresentanza sociale e politica della maggioranza cattolica dell’Italia opera, dunque, ordinariamente nel paese ad alti livelli di responsabilità, al governo o all’opposizione, nei quadri amministrativi come nel mondo produttivo.
Essi sono spesso cattolici “modali”, quelli dell’“abbastanza d’accordo” con la Chiesa, del “quasi regolare” dei questionari; e anche cattolici del tipo “distratto e a disagio”. Se si parla di cattolici in sede di progetto politico, dunque, non si può non tener conto delle qualità e delle quantità del profilo cattolico medio, fatto di uomini e donne, di varia generazione e grado, che sono qualcosa di diverso in più dimensioni (spirituali, morali, rituali ecc.) rispetto ai componenti del modello “virtuoso”. E quale modello di eccellenza privilegiare, poi? Per usare il linguaggio dei sociologi: il virtuoso solidarista o quello mistico-rituale? Il comunitarista-liturgico o il carismatico-missionarista?
Insomma, i princípi cattolici essenziali sono condivisi da un arco di cittadini più ampio di quanto amino credere i puristi di ogni indirizzo, e proprio per questo sono distribuiti con effetti diversi nell’insieme della società civile, in un’agorà legittimamente divisa, senza attrazione per le forme e i risultati dell’antica “unità dei cattolici”. Da queste evidenze non si ricava la ripetizione di un assunto liquidatorio della politica cattolica, frequente dagli anni Settanta, per il quale non vi sarebbero politici cattolici ma solo dei cattolici che fanno politica. Al contrario. Ma si coglie che la politica cattolica non richiede l’unità politica dei cattolici.
Non serve all’analisi, necessaria ad ogni ideazione o strategia, che i cattolici “virtuosi” delle antiche filiere (non estranee al nostro disastroso welfare e alla nostra società molecolare e bloccata) si esibiscano a modello di cultura politica e ad attori di una “rinascita”. Il ristretto mondo cattolico che ancora si mette in evidenza come esperto e come modello non rappresenta più la complessità dell’intero mondo cattolico italiano, né ha il linguaggio per analizzarla. Le sue opinioni e reazioni sono debolmente predittive.
L’errore terminologico e di analisi è, dunque, parlare dei cittadini e cattolici in genere avendo di fronte e in mente il solo profilo di antiche appartenenze e militanze associative. Questo errore pesa molto sulla riflessione e rende vani i progetti politici: non si costruiscono partiti con militanza, partecipazione e rilevante base elettorale su un confuso consenso etico e sulle sue retoriche. Politica è prognosi esperta e decisione razionale, difficilmente condivise a priori, sui “bona particularia” nei quali si realizza il bene comune.
Spetta a una nuova riflessione, anzi ad una scienza politica cattolica, rimodulare canali e metodo del rapporto “docente” tra gerarchie e cattolici della sfera politica. Senza diagnosi avvertita, e senza pazienza conoscitiva, l’agitazione corrente sul “nuovo centro” e gli incontri del tipo di Todi saranno gli unici sfoghi di una volontà mal diretta.
2. Poche osservazioni sulla questione dei cattolici nel governo guidato dal professor Mario Monti.
La prima è che questa presenza nel nuovo esecutivo, così sottolineata dalla stampa, mi pare confermi quanto scritto sopra. I cattolici nel governo di oggi non sono, per definizione, le nuove leve di una “rinascita”, ma una concentrazione del patrimonio cattolico esistente e concretamente operante da anni nel quadro sociale e politico subentrato alla prima repubblica.
Uomini di qualità, dunque, che smentiscono la confusa diagnosi sul “silenzio” dei cattolici nella sfera pubblica, o nella Chiesa, o in ambedue, negli ultimi decenni. Le cose dette in questi giorni su un passato della Chiesa italiana che avrebbe impedito quello che – mutata la presidenza della conferenza episcopale – è diventato finalmente possibile, sono assurde. Senza discernimento né storico né politico.
Infatti, questo patrimonio di competenze cattoliche – assieme ad altre – è stato convocato nel governo Monti solo nella prospettiva di uno stato d’emergenza. La coscienza del “Notfall”, dello stato di necessità o di emergenza, appunto, è stata portata alle sue conseguenze dalla stessa rappresentanza politica, per iniziativa del presidente della Repubblica: se il mandato popolare produce una rappresentanza immobilizzata, chi governa deve essere temporaneamente emancipato, quantomeno immunizzato, dagli effetti perversi della corrispondenza eletti-elettori: questo è l’esecutivo Monti, nella sua legittimità e nei suoi limiti politici.
I cattolici del governo Monti non sarebbero al governo senza l’emergenza e, di più, non sarebbero al governo se assomigliassero ai politici cattolici dell’ultima fase della prima repubblica. La razionalità emergenziale non confligge con le idealità e i principi della dottrina sociale della Chiesa, ma esige capacità di diagnosi e decisione per l’oggi; capacità che non si insegnano nelle “scuole di politica” ma che alcuni cattolici possiedono per altra via, né tanto meno hanno a che fare con Todi.
Di “todino” c’è solo realisticamente (cioè con la capacità di entrare effettivamente in gioco) l’assenso della CEI e della segreteria di Stato al governo Monti. Le minoranze politiche che cercano di infilarsi nella scia di questo governo per conferirgli il proprio marchio e fruire poi degli eventuali risultati in sede elettorale pongono in atto una tattica comprensibile; ma l’immagine, temo, sarà quella della mosca cocchiera. Come il governo di cattolici attorno a Monti non è – né può essere – la ripresa di parola dei “cattolici adulti”, così non è neppure un prodotto neo-democristiano. Non potrebbe esserlo né per la procedura “eccezionale” della sua formazione né per le sue finalità, opposte a quanto l’eredità sociale ed economica democristiana ci ha lasciato.
3. In sintesi. Primo: i cattolici sono già presenti nella sfera pubblica, nella forma e nel ruolo di ”civil servant”, di attori economici, di uomini di scuola e di scienza, e molto altro. Secondo: alcuni di questi diventano oggi attori della decisione politica, uomini di governo in uno “stato di eccezione”.
Cosa implica questo? Implica che se la politica cattolica postbellica, “popolare”, democratico cristiana, dell’Azione cattolica prima della “scelta religiosa”, è terminata, ma i cattolici non sono per questo politicamente “assenti”, i cattolici non ne hanno oggi bisogno per esistere e operare politicamente. E implica anche che l’ipotesi, cara ad ambienti autorevoli, di formare politici cattolici in analogia con quella tradizione o almeno con quel paradigma – alla fine “statalista” – va ripensata in termini sia di fattibilità sia di principio.
Inoltre: se questa è un’ora importante per alcuni politici cattolici, lo è in virtù e in nome di una radicalizzazione politico-costituzionale e di una concezione del “politico” che avvengono piuttosto entro l’eredità misconosciuta di un Gianfranco Miglio (semplificando: il Miglio schmittiano, non il leghista) e della cultura dell’Università Cattolica dopo la seconda guerra mondiale, che non di un Fanfani o di un Moro.
È mia convinzione, da almeno due decenni, che cultura politica e scienza politica cattolica, in senso stretto, debbano emanciparsi dalle retoriche e dalle pratiche del primato del “sociale”, che hanno le loro ragioni nella dimensione comunitaria e domestica, ma non sono il “politico”.
Un corpo politico è tale se ha coscienza di sé e della propria verità (Eric Voegelin), cui sacrificare molto. Ho visto per decenni un muro da cui era stata segata la cancellata di ferro per necessità belliche. Abbiamo solo imparato a irridere questi e altri sacrifici dei nostri genitori, come l’oro alla patria. Eppure quello era un corpo politico, cui è subentrata nei decenni repubblicani una società civile “moderna” e di buoni sentimenti ma petulante e acquisitiva, statalista e neofamilistica.
Politica cattolica e “nuovi” cattolici nella politica hanno, a mio avviso, il compito di guidare il paese nell’esodo da questa servitù, anche se qualcuno rimpiangerà la terra d’Egitto, quando si stava “seduti presso la pentola di carne, mangiando pane a sazietà” (Esodo 16, 3).
Firenze, 4 dicembre 2011
http://magister.blogautore.espresso.repubblica.it/2011/12/04/sui-cattolici-al-governo-cose-da-non-credere/
> Poco praticanti e poco virtuosi. Ma sono loro che fanno “Chiesa di popolo”
Come per altre vie fa anche il recente libro di Luca Diotallevi, “L’ultima chance”, Rubbettino editore, lanciato in anteprima da Settimo Cielo, le analisi di De Marco demistificano molti ingannevoli luoghi comuni sulla presenza politica della Chiesa e dei cattolici, in Italia: luoghi comuni puntualmente tornati in auge in queste ultime settimane, col convegno di Todi e col varo del governo Monti.
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ANCORA SUI CATTOLICI IN POLITICA
di Pietro De Marco
1. La diagnosi della “scomparsa dei cattolici” dalla vita pubblica e politica italiana degli ultimi venti anni è un errore che genera altri errori, indipendentemente dalle buone ragioni e intenzioni con cui viene formulata.
L’errore in larga misura si alimenta della autoreferenzialità (così si dice) di alcune élites cattoliche, quelle che pensavano e pensano di essere o rappresentare “i cattolici”; e della maggiore confidenza che la gerarchia ha con esse, più che con il cattolico comune.
In effetti, fino a quando la classe politica cattolica democristiana proveniva, prevalentemente, dal nucleo centrale della “religione di Chiesa” che alcuni sociologi denominano “orientata e riflessiva”, o con linguaggio più corrente dalla componente credente e praticante assidua, insomma anzitutto dalle file dell’Azione Cattolica, la categoria di politico cattolico sembrava chiara, oltre che rassicurante.
Ma da oltre un ventennio i cattolici della e nella politica sono, invece, praticanti ordinari, non emersi da filiere “virtuose”. In Italia è stata una relativa novità, ma non lo è più da tempo.
Da anni vi sono cattolici in posizione di rilievo ovunque, anche al governo, con un prevalente mandato di cattolici, cioè della maggioranza della maggioranza della popolazione, ma senza partito cattolico né filiera formativa “qualificata”. Una rappresentanza sociale e politica della maggioranza cattolica dell’Italia opera, dunque, ordinariamente nel paese ad alti livelli di responsabilità, al governo o all’opposizione, nei quadri amministrativi come nel mondo produttivo.
Essi sono spesso cattolici “modali”, quelli dell’“abbastanza d’accordo” con la Chiesa, del “quasi regolare” dei questionari; e anche cattolici del tipo “distratto e a disagio”. Se si parla di cattolici in sede di progetto politico, dunque, non si può non tener conto delle qualità e delle quantità del profilo cattolico medio, fatto di uomini e donne, di varia generazione e grado, che sono qualcosa di diverso in più dimensioni (spirituali, morali, rituali ecc.) rispetto ai componenti del modello “virtuoso”. E quale modello di eccellenza privilegiare, poi? Per usare il linguaggio dei sociologi: il virtuoso solidarista o quello mistico-rituale? Il comunitarista-liturgico o il carismatico-missionarista?
Insomma, i princípi cattolici essenziali sono condivisi da un arco di cittadini più ampio di quanto amino credere i puristi di ogni indirizzo, e proprio per questo sono distribuiti con effetti diversi nell’insieme della società civile, in un’agorà legittimamente divisa, senza attrazione per le forme e i risultati dell’antica “unità dei cattolici”. Da queste evidenze non si ricava la ripetizione di un assunto liquidatorio della politica cattolica, frequente dagli anni Settanta, per il quale non vi sarebbero politici cattolici ma solo dei cattolici che fanno politica. Al contrario. Ma si coglie che la politica cattolica non richiede l’unità politica dei cattolici.
Non serve all’analisi, necessaria ad ogni ideazione o strategia, che i cattolici “virtuosi” delle antiche filiere (non estranee al nostro disastroso welfare e alla nostra società molecolare e bloccata) si esibiscano a modello di cultura politica e ad attori di una “rinascita”. Il ristretto mondo cattolico che ancora si mette in evidenza come esperto e come modello non rappresenta più la complessità dell’intero mondo cattolico italiano, né ha il linguaggio per analizzarla. Le sue opinioni e reazioni sono debolmente predittive.
L’errore terminologico e di analisi è, dunque, parlare dei cittadini e cattolici in genere avendo di fronte e in mente il solo profilo di antiche appartenenze e militanze associative. Questo errore pesa molto sulla riflessione e rende vani i progetti politici: non si costruiscono partiti con militanza, partecipazione e rilevante base elettorale su un confuso consenso etico e sulle sue retoriche. Politica è prognosi esperta e decisione razionale, difficilmente condivise a priori, sui “bona particularia” nei quali si realizza il bene comune.
Spetta a una nuova riflessione, anzi ad una scienza politica cattolica, rimodulare canali e metodo del rapporto “docente” tra gerarchie e cattolici della sfera politica. Senza diagnosi avvertita, e senza pazienza conoscitiva, l’agitazione corrente sul “nuovo centro” e gli incontri del tipo di Todi saranno gli unici sfoghi di una volontà mal diretta.
2. Poche osservazioni sulla questione dei cattolici nel governo guidato dal professor Mario Monti.
La prima è che questa presenza nel nuovo esecutivo, così sottolineata dalla stampa, mi pare confermi quanto scritto sopra. I cattolici nel governo di oggi non sono, per definizione, le nuove leve di una “rinascita”, ma una concentrazione del patrimonio cattolico esistente e concretamente operante da anni nel quadro sociale e politico subentrato alla prima repubblica.
Uomini di qualità, dunque, che smentiscono la confusa diagnosi sul “silenzio” dei cattolici nella sfera pubblica, o nella Chiesa, o in ambedue, negli ultimi decenni. Le cose dette in questi giorni su un passato della Chiesa italiana che avrebbe impedito quello che – mutata la presidenza della conferenza episcopale – è diventato finalmente possibile, sono assurde. Senza discernimento né storico né politico.
Infatti, questo patrimonio di competenze cattoliche – assieme ad altre – è stato convocato nel governo Monti solo nella prospettiva di uno stato d’emergenza. La coscienza del “Notfall”, dello stato di necessità o di emergenza, appunto, è stata portata alle sue conseguenze dalla stessa rappresentanza politica, per iniziativa del presidente della Repubblica: se il mandato popolare produce una rappresentanza immobilizzata, chi governa deve essere temporaneamente emancipato, quantomeno immunizzato, dagli effetti perversi della corrispondenza eletti-elettori: questo è l’esecutivo Monti, nella sua legittimità e nei suoi limiti politici.
I cattolici del governo Monti non sarebbero al governo senza l’emergenza e, di più, non sarebbero al governo se assomigliassero ai politici cattolici dell’ultima fase della prima repubblica. La razionalità emergenziale non confligge con le idealità e i principi della dottrina sociale della Chiesa, ma esige capacità di diagnosi e decisione per l’oggi; capacità che non si insegnano nelle “scuole di politica” ma che alcuni cattolici possiedono per altra via, né tanto meno hanno a che fare con Todi.
Di “todino” c’è solo realisticamente (cioè con la capacità di entrare effettivamente in gioco) l’assenso della CEI e della segreteria di Stato al governo Monti. Le minoranze politiche che cercano di infilarsi nella scia di questo governo per conferirgli il proprio marchio e fruire poi degli eventuali risultati in sede elettorale pongono in atto una tattica comprensibile; ma l’immagine, temo, sarà quella della mosca cocchiera. Come il governo di cattolici attorno a Monti non è – né può essere – la ripresa di parola dei “cattolici adulti”, così non è neppure un prodotto neo-democristiano. Non potrebbe esserlo né per la procedura “eccezionale” della sua formazione né per le sue finalità, opposte a quanto l’eredità sociale ed economica democristiana ci ha lasciato.
3. In sintesi. Primo: i cattolici sono già presenti nella sfera pubblica, nella forma e nel ruolo di ”civil servant”, di attori economici, di uomini di scuola e di scienza, e molto altro. Secondo: alcuni di questi diventano oggi attori della decisione politica, uomini di governo in uno “stato di eccezione”.
Cosa implica questo? Implica che se la politica cattolica postbellica, “popolare”, democratico cristiana, dell’Azione cattolica prima della “scelta religiosa”, è terminata, ma i cattolici non sono per questo politicamente “assenti”, i cattolici non ne hanno oggi bisogno per esistere e operare politicamente. E implica anche che l’ipotesi, cara ad ambienti autorevoli, di formare politici cattolici in analogia con quella tradizione o almeno con quel paradigma – alla fine “statalista” – va ripensata in termini sia di fattibilità sia di principio.
Inoltre: se questa è un’ora importante per alcuni politici cattolici, lo è in virtù e in nome di una radicalizzazione politico-costituzionale e di una concezione del “politico” che avvengono piuttosto entro l’eredità misconosciuta di un Gianfranco Miglio (semplificando: il Miglio schmittiano, non il leghista) e della cultura dell’Università Cattolica dopo la seconda guerra mondiale, che non di un Fanfani o di un Moro.
È mia convinzione, da almeno due decenni, che cultura politica e scienza politica cattolica, in senso stretto, debbano emanciparsi dalle retoriche e dalle pratiche del primato del “sociale”, che hanno le loro ragioni nella dimensione comunitaria e domestica, ma non sono il “politico”.
Un corpo politico è tale se ha coscienza di sé e della propria verità (Eric Voegelin), cui sacrificare molto. Ho visto per decenni un muro da cui era stata segata la cancellata di ferro per necessità belliche. Abbiamo solo imparato a irridere questi e altri sacrifici dei nostri genitori, come l’oro alla patria. Eppure quello era un corpo politico, cui è subentrata nei decenni repubblicani una società civile “moderna” e di buoni sentimenti ma petulante e acquisitiva, statalista e neofamilistica.
Politica cattolica e “nuovi” cattolici nella politica hanno, a mio avviso, il compito di guidare il paese nell’esodo da questa servitù, anche se qualcuno rimpiangerà la terra d’Egitto, quando si stava “seduti presso la pentola di carne, mangiando pane a sazietà” (Esodo 16, 3).
Firenze, 4 dicembre 2011
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