ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

venerdì 19 ottobre 2012

Si vorrebbe abolire la nozione del male ed eliminare il Cristianesimo, che la trasmette






Esistono fame usurpate ed esistono patenti di nobiltà culturale consegnate troppo in fretta, da un’opinione pubblica male informata e largamente strumentalizzata; un caso notevole ci sembra quello di James Hillman, che un imponente apparato mediatico vorrebbe presentarci come uno dei massimi maestri del pensiero contemporaneo.

Per Hillman, la religione è una nevrosi e il cristianesimo è una nevrosi particolarmente virulenta e molesta: essa nasce da una arbitraria, esecrabile pretesa di distinguere il bene dal male e getta gli uomini nello sconforto dello sdoppiamento, della frustrazione e della depressione, nei casi più gravi nella schizofrenia.
La persona sana, infatti, per Hillman è totalmente non dualista, così come lo erano i Greci e così come lo sono i popoli che possiedono delle credenze di tipo animista: imprestando un’anima a tutte le cose della natura e individuando in esse la presenza di un duplice principio, creativo e distruttivo, essi sono al riparo dalla nevrosi del dualismo e vivono armoniosamente i diversi aspetti della propria personalità, l’ombra e la luce, il richiamo dell’alto e quello del basso,  la ragione e gli istinti, la cultura e la natura.
Ma il cristianesimo si oppone a questa armonia, a questa completezza, a questa intima pacificazione dell’uomo; esso vorrebbe vedere l’uomo eternamente travagliato dal dissidio interiore, eternamente prostrato dai sensi di colpa, per poterlo meglio dominare e sfruttare, per poterlo meglio manipolare a suo piacimento: se non ne provocasse la malattia, non potrebbe poi proporsi come strumento della sua salvezza e della sua liberazione.
Ovviamente, per Hillman la liberazione la salvezza offerte dal Cristianesimo sono false e bugiarde come gli dei pagani di cui parla Dante: la sola vera liberazione e la sola vera salvezza sta nel ritorno all’archetipo dell’ermafrodita originario, del dio buono e cattivo, della creazione della distruzione contemporaneamente presenti: in breve, nell’archetipo che la sua stessa filosofia propone agli uomini, se necessario curandoli, almeno nei casi più gravi, come dei malati piuttosto gravi, ciò che davvero ritiene essi siano.
Bisogna, allora, eliminare il Cristianesimo dal mondo e dalle coscienze, perché esso è l’ultimo ostacolo sula via della liberazione e della pace; non semplicemente tentare di riformarlo, come, secondo lui, aveva fatto il suo maestro Carl Gustav Jung; no, bisogna eliminarlo e oltrepassarlo, lasciarselo alle spalle come un lungo e penoso errore che ha ritardato di secoli lo sviluppo armonioso dell’umanità - proprio come predicava un certo Nietzsche.
Così, dunque, James Hillman scaglia la sua offensiva contro la nozione non solo del peccato, ma proprio del male in quanto tale, e contro il Cristianesimo che ancora la possiede e la trasmette (in: J. Hillman, «Il linguaggio della vita. Conversazioni con Laura Pozzo» (titolo originale: «Inter Views», 1983; traduzione dall’inglese di Stefano Galli, Milano, Rizzoli Editore, 2003, pp. 114-15, 119-21):

«Un’altra nozione cristiana che incontriamo continuamente in psicologia è la nozione di male. Di nuovo, nel mondo greco non c’era nessun principio particolare del male; non c’era un diavolo. Il male non era separato dal bene in modo radicale. L’ignoranza, la deformità e altri difetti esistevano nel pensiero socratico, ma ogni divinità aveva il suo modo di essere distruttiva. Dioniso poteva essere il liberatore e Dioniso poteva essere il distruttore e soprattutto i due aspetti potevano coesistere NELLO STESSO MOMENTO. Potrebbe immaginare, anche per un attimo, che Cristo il Salvatore sia allo stesso tempo Cristo il Distruttore? Che il Dio dell’amore possa anche portare la morte? Come Dioniso, Apollo e Afrodite? Per noi, un’idea simile è intollerabile. La mentalità cristiana non ammette, non permette, una possibilità distruttiva co-presente e co-estesa, come si usava dire, con l’amore, il bene e la salvezza. Il Cristianesimo deve quindi ricorrere ai meccanismi di difesa, e negare, scindere e proiettare sul nemico gli aspetti distruttivi - il pagano, l’ebreo, il cattolico, il protestante, il terrorista… Dopo di che, deve cercare di recuperare le parti scisse, convertendo il nemico, o amandolo, o porgendo l’altra guancia. È intrappolato dal suo stesso meccanismo di difesa. Ha trasformato la scissione in dogma, ha glorificato come “problema del male”. La mentalità greca, d’altra parte, era abbastanza sottile per sapere che la realtà non può essere scissa. Tutto è mescolanza. Il bene e il male non esistono, o più esattamente, c’è il bene-E-male, perché l’ombra è ovunque, e non è un principio separato. Ma il Cristianesimo ama la mente infantile, è una religione dell’archetipo del figlio, perciò valorizza la semplicità, che fin dall’inizio rinvia all’unità, non alla sottigliezza. Il Cristianesimo auspica una visione “monoculare” - è Paolo, o Gesù stesso, ad averlo affermato?  Gli aspetti distruttivi sono separati ed espulsi, e sono trasformati in un’idea indipendente chiamata “male”. Così la persona singola comincia a considerare cattive alcune parti di se stessa, e a separarle dalle cosiddette parti buone. È la rimozione. L’ombra. Con tutto quel che segue.
Il paziente chiede continuamente cosa non va, di cosa dovrebbe sentirsi colpevole, nella speranza di correggersi - di liberarsi dal male - invece di rivolgere l’attenzione a cosa stia realmente accadendo, come farebbe con qualunque fenomeno naturale. Un surfista vede un’onda particolarmente alta avvicinarsi alla riva. Non è buona né cattiva: si tratta di guardarla, valutarla, decidere se affrontarla o arretrare. Oppure siamo in un bosco e scorgiamo una volpe: restiamo in silenzio, immobili, e la osserviamo. I primi sentimenti sono la curiosità, l’interesse, lo stupore, l’eccitazione - ma l’idea che la volpe sia malvagia ci spinge ad allontanarci. Ci chiediamo: è un buon segno o un cattivo segno? È un bel sogno o un brutto sogno? Ho fatto bene o ho fatto male? Così smettiamo di fare attenzione all’immagine, a quello che accade realmente,  e ci immergiamo nella nostra mente per un esame soggettivo delle motivazioni. Torniamo nell’Io e voltiamo le spalle alla volpe.  La colpa rinforza sempre l’Io, è il più puro meccanismo di difesa che l’Io abbia a disposizione. Sotto il mantello dell’autocritica e dell’autoumiliazione, ci riporta al vecchio Io della cultura cristiana, e all’osservazione della psiche attraverso le lenti del moralismo.»

Si resta veramente perplessi davanti al fatto che un uomo di cultura, famoso e applaudito in tutto il mondo, abbia potuto così scopertamente falsificare il Cristianesimo e fabbricarsene uno di comodo, per poterlo bersagliare con gli strali della sua facile critica, dall’alto di una “scienza psicanalitica” che pretende non solo di saper tutto, ma di porsi, in virtù di una evidente contraddizione logica, al di sopra di tutti i paradigmi spirituali e religiosi, come se essa ed essa soltanto fosse un dato oggettivo ed auto-evidente, e tutti gli altri non fossero che “miti” fabbricati dall’uomo per placare il suo bisogno di sicurezza e per lenire la sua paura dell’ignoto.
Quando afferma, ad esempio, che il Cristianesimo getta il male fuori di sé e ne fa un principio autonomo per poterlo combattere dall’esterno, chiamandolo Diavolo, sta truccando le carte, non si sa se deliberatamente o per pura e semplice ignoranza. Il Cristianesimo, infatti, non sostiene affatto che TUTTO il male viene dall’esterno ed è riconducibile al Diavolo; afferma, semmai, che esso è presente nel cuore dell’uomo come “ferita” risalente al Peccato originale, che inquina la sua natura originariamente buona; e solo in virtù di tale presenza del male, come disponibilità al peccato, il Diavolo può trovare un terreno fertile per le sue tentazioni. Perciò il cristiano non è né infantile né semplicistico quando ritiene di doversi difendere ANCHE dal Diavolo, perché egli sa che esiste un male che è in agguato nelle sue stesse profondità; sa, in altri termini, di essere potenzialmente soggetto di bene e di male, di poter tendere verso l’alto o verso il basso.
E qui entra in gioco l’aspetto più importante e più innovativo della visione cristiana, quello della libertà: proprio perché libero di scegliere fra il bene e il male, l’uomo sa di potersi giocare la partita della sua vita, quella terrena e quella ultraterrena, con un mazzo di carte non truccato, al termine della quale dovrà rivolgere a se stesso la lode o il biasimo per il risultato finale e non, come facevano gli antichi, prendersela con il caso o con il fato, due principi, quelli sì, infantili e deresponsabilizzanti, perché spostano puerilmente fuori di lui, in una dimensione capricciosa e incomprensibile, la responsabilità del suo agire e della sua sorte.
Il paragone col surfista o con colui che osserva una volpe nel bosco sono abbastanza pietosi sul piano filosofico e anche su quello psicologico: perché, appunto, sono desunti dal mondo naturale, mentre qui si dovrebbe discutere, e non semplicemente dare per scontato, se esista una realtà soprannaturale, e poi dove finisca quella naturale e dove incominci quella soprannaturale. Secondo Hillman, non dovremmo chiederci se una cosa è buona o cattiva, se abbiamo agito bene oppure male: non dovremmo dare giudizi morali, mai, perché così facendo creiamo una divaricazione, un dualismo, una schizofrenia, e solo tornando all’unità originaria possiamo evitare un simile destino (strano, comunque, perché più sopra aveva affermati che il cristianesimo è semplicistico proprio in quanto tende al’unità). Quindi non devo dire che calunniare, rubare, ammazzare sono azioni cattive, né devo dire che aiutare, confortare, sostenere sono azioni buone, perché, facendolo, alimenterei questo pericoloso dualismo che, presto o tardi, mi porterà sul lettino dello psicanalista.
E a dirlo è proprio uno psicanalista; un discepolo di Jung, che, però, di Jung ha preso la tecnica e una certa impostazione generale, ma senza la sua sottigliezza, la sua delicatezza, la sua capacità di cogliere le sfumature: un discepolo di Jung che ha deciso di redimere il mondo dalla nevrosi religiosa mediante il ripristino dell’animismo e del politeismo antichi, mediante il recupero della mitologia greca, anzi, di qualunque mitologia purché non cristiana: perché la mitologia cristiana, come lui la chiama, è intrisa dell’idea - bigotta e patologica - della distinzione fra il bene e il male, distinzione che, in realtà, non esiste.
Ebbene, è perfettamente vero che nell’Essere, in quanto tale, non vi è più distinzione di bene e di male; ma non perché, come vorrebbe, ad esempio, la mitologia induista - quella sì, ci si permetta di dirlo, un po’ semplicistica e rudimentale - il bene e il male siano entrambi contemporaneamente presenti, bensì perché il bene e il male sono una polarità che è propria della dimensioni contingente, mentre l’Essere è, per definizione, l’assoluto.
I comuni mortali, tuttavia, Hillman compreso, non vivono a tali altezze siderali e raramente vi si avvicinano; essi vivono nella sfera del contingente  e dell’effimero, e devono fare i conti con una realtà fenomenica in cui bene e male esistono eccome, non sono astrazioni o illusioni e nemmeno ipostatizzazioni di punti di vista soggettivi; esistono perché il mondo contingente e fenomenico è imperfetto, e nella dimensione dell’imperfetto nulla evidentemente è perfetto, cioè perfettamente buono, ma tutto presenta sempre un’ombra o una traccia di imperfezione, dunque di male.
Quanto al fatto che il senso della colpa sia un meccanismo che rinforza straordinariamente l’Io, questo è vero; ma Hillman, per la deformazione professionale propria di tutti gli psicanalisti, si è dimenticato di aggiungere: specialmente per l’Io malato. L’Io sano, infatti, non vive la colpa come strumento di difesa e di rafforzamento di se stesso; la vive, semplicemente, come conseguenza di una cattiva azione, che rimorde alla coscienza.
Già; ma come ammettere una cosa tanto semplice, se si è appena negato che esista qualcosa come la cattiva azione; anzi, se si è appena negato che esitano, in se stessi, il bene ed il male? Se si è appena sostenuto che solo le persone malate, in particolar modo le persone malate di cristianesimo, vedono ovunque il bene e il male, che ne sono ossessionate e che questa ossessione si manifesta appunto in una preoccupante ipertrofia dell’ego?
E perché, infine, discernere il bene dal male sarebbe un esercizio di “moralismo”? Ecco il cattivo filosofo, che usa le parole con furbizia, che sfodera quelle che più piacciono alla massa, demagogicamente, ma senza darsi il minimo pensiero di giustificarle, di motivarle. Perché distinguere il bene dal male sarebbe un atto moralistico” e non un atto “morale”? Forse perché è più facile attaccare la morale se la si fa passare, denigrandola, per la sua sorella spuria, per la sua sorella gobba e deforme, il moralismo ipocrita e bigotto?
Altro che grande pensatore; e il libro-intervista è tutto così, o anche peggio. Come nella novella di Andersen, il Re è in mutande: quando si alzerà la voce d’un bambino a proclamarlo forte e chiaro?

di Francesco Lamendola - 18/10/2012

Fonte: Arianna Editrice [scheda fonte] 



Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it


Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.