Che relazione c’è fra Martin Lutero, l’autore della Riforma protestante (come i libri di storia si ostinano a chiamarla, invece di “rivoluzione”, come sarebbe più giusto, perché una riforma è una forza che opera dall’interno e non demolisce, ma, appunto, “riforma” l’esistente, in questo caso la Chiesa cattolica) e il diabolico dottor Mabuse, l’inquietante creazione del regista viennese Fritz Lang, oscuro manipolatore di uomini e raffinata mente criminale, che stando nell’ombra stende ovunque la sua rete tentacolare, protagonista di tre dei suoi film più significativi, rispettivamente del 1922, del 1933 e del 1960?
Il dottor Mabuse è stato “inventato” nel 1921 – chissà cosa direbbe Pirandello di un simile linguaggio, dato che per lui il personaggio esiste da sempre e l’autore non se lo inventa affatto, ma lo porta all’esistenza – dallo scrittore lussemburghese Norbert Jacques; il quale, a sua volta, si è probabilmente ispirato sia al personaggio di Fantomas, ideato dagli scrittori francesi Marcel Allain e Pierre Souvestre, nel 1911, sia a quello del dottor Caligari, protagonista del film di Robert Wiene del 1920. È un personaggio dai mille volti, che sa assumere infiniti travestimenti, che è capace di ipnotizzare le persone e che non arretra davanti ad alcuna efferatezza, ad alcun delitto: lo anima una immensa brama di potere e di dominio.
Per il regista Fritz Lang, Mabuse è una vera e propria incarnazione del Male, del “male” con la lettera maiuscola: ha qualcosa di diabolico, di mefistofelico, di radicalmente e spaventosamente non umano. È una deformazione, un pervertimento del superuomo nietzschiano, che considera gli altri esseri umani alla pari di insetti e che non si fa scrupolo di manipolarli, di calpestarli, di strumentalizzarli a suo piacimento, come una sorta di burattinaio infernale, che si compiace della propria malvagità e di tutta la sofferenza che riesce a provocare.
Ma che c’entra il dottor Mabuse con Martin Lutero?
Anche se l’accostamento, a prima vista, può sembrare assolutamente gratuito, a ben guardare una relazione fra i due personaggi esiste; diremmo di più: una parentela spirituale. Non nel senso che Lutero fosse un uomo malvagio e depravato, ma nel senso che tutta la sua pretesa “riforma”, tutta la forza della sua ribellione contro il Papa e contro la Chiesa è stata anche, e prima di tutto, una rivolta contro Aristotele e contro San Tommaso: una rivolta contro il pensiero e contro l’idea che l’uomo possa e debba collaborare al piano di redenzione divino.
Per Lutero, l’uomo è malvagio in se stesso: a partire dalla caduta di Adamo ed Eva, in lui non vi è più la forza di risollevarsi dal male verso il bene, di collaborare con il Bene. È noto che egli ha preso questa idea fondamentale da Sant’Agostino, il Sant’Agostino in rovente polemica contro Pelagio e contro la pretesa che l’uomo sia naturalmente “buono” e capace di salvarsi da se stesso, in quanto non corrotto dal Peccato originale. Ma forse non si è insistito abbastanza sul fatto che questa idea non è una revisione o un “perfezionamento” dell’idea cristiana (paolina) della Grazia e dalla sua gratuità, bensì un suo radicale capovolgimento.
Se l’uomo è naturalmente peccatore, non gli resta altro da fare che peccare; peccare e pentirsi; tornare a peccare e tornare a pentirsi; e così via, all’infinito, tanto la salvezza non dipende da lui, le sue passioni sono indomabili, la sua lussuria è invincibile: se si salva, non è certo per merito suo. L’uomo, di per sé, non può che avvoltolarsi nel fango: è marcio, è dannato, è pronto per l’Inferno; non merita nulla, non può aspirare a nulla. Apparente umiltà che cela un diabolico orgoglio: dunque, tanto vale che l’uomo ceda alle passioni, che si arrenda alla carne. D qui il suo appello contro la verginità degli ecclesiastici, che ha gettato nella confusione migliaia di monaci e monache; e l’esempio, da lui stesso dato, del rifiuto del celibato, sposando una ex suora. Sano ritorno alla natura, contro l’assurda pretesa della continenza imposta dalla Chiesa cattolica? Niente affatto: piuttosto la resa alla carne, nella prospettiva di una umanità irrimediabilmente traviata e peccatrice. Dio, poi, penserà a salvare quelli che ha deciso di salvare, indipendentemente dai loro meriti: perché meriti, l’uomo non ne ha, mai: ogni singolo essere umano non è che fango, non è che impurità.
A questo punto è lecito domandarsi che cosa ci sia ancora di cristiano nel pensiero di Lutero. Rifiuta la ragione e dice che la Scolastica andrebbe strappata via dalle radici, perché con la ragione l’uomo non può arrivare a Dio, può solo perdersi; ma rifiuta anche le opere, perché dice che l’uomo buono non esiste e che nessuna opera é tale da avvicinare di un passo alla salvezza. Pertanto l’uomo è già perduto: non gli resta che un misticismo fideistico, un “credo” cieco e viscerale, che non nasce dall’amore per Dio, ma dal terrore dell’Inferno: tutto il luteranesimo non è che una nevrosi da peccato, una nevrosi da terrore dell’Inferno, delle sue fiamme e dei suoi eterni patimenti.
In questa prospettiva, si capisce meglio anche la crociata di Lutero contro le indulgenze, da cui ha preso avvio la sua rivolta anticattolica: essa non nasce tanto dal rifiuto dell’idea che le preghiere e le opere umane possano modificare la giustizia divina, quanto dal rifiuto dell’idea che l’uomo possa collaborare alla propria salvezza, alla propria santificazione. L’uomo è nulla, Dio è tutto: ma, allora, non si capisce in che cosa l’uomo sia stato fatto a immagine di Dio; per quale ragione Dio si sia incarnato e sia morto e risorto per gli uomini; in che modo Cristo abbia una parola di redenzione da dire all’uomo, all’uomo peccatore che anela a uscire dal peccato. Non si capisce in che cosa consista la Buona Novella del Vangelo.
Il Luteranesimo è un ritorno, puro e semplice, al Dio cupo e “giusto” dell’Antico Testamento, che punisce con rabbia, che fa tremare l’uomo con la coscienza della sua indegnità davanti a Lui. L’unica differenza è che il Giudaismo cerca la salvezza nella scrupolosa osservanza della Legge, il Luteranesimo nell’abbandono a Dio: ma un abbandono in cui Dio deve fare tutto e l’uomo non fa nulla, tranne pentirsi e poi ricominciare a peccare. La frase di Gesù alla donna adultera, «nemmeno io ti condanno: va’ e non peccare più», esprime un concetto incomprensibile per Lutero. Ma questo, per lui, non è un problema: tutto quello che, nel Vangelo, non si accorda con la sua personale visione del cristianesimo, vuol dire che è stato aggiunto e manipolato, oppure bisogna che venga interpretato nella maniera “giusta”, cioè la sua.
Una delle opere migliori di Jacques Maritain, oggi poco letta e poco ricordata, è «Tre riformatori: Lutero, Cartesio, Rousseau», appartenente alla prima fase della riflessione del filosofo francese, nella quale è assai forte l’entusiasmo della recente conversione e sono ancora lontane certe tendenze teologiche “moderniste” che troveranno espressione all’epoca del Concilio Vaticano II e durante il pontificato di Paolo VI.
Si tratta di un libro scritto alcuni anni dopo la conclusione della prima guerra mondiale (titolo originale: «Trois Réformateurs – Luther - Descartes - Rousseau», Paris, Librairie Plon, 1925, 1937, rist. 1945; prima traduzione italiana 1928), ripreso e ripubblicato poco prima della seconda, quando anche le simpatie per il movimento di Charles Maurras si erano raffreddate e Maritain aveva accolta e pienamente fatto propria la posizione di condanna del magistero ecclesiastico nei confronti dell’Action Française.
In questa agile, acuta monografia, Maritain individua in Lutero, Cartesio e Rousseau i principali artefici del distacco dell’uomo moderno da Dio e da se stesso: Lutero, in quanto idolatra del proprio io, in quanto sostenitore di una divisione inconciliabile fra carità e grazia, in quanto sostenitore della invincibile concupiscenza della natura umana; Cartesio, in quanto ha scavato un abisso incolmabile fra sostanza estesa e sostanza pensante, facendo dell’uomo un angelo senza corpo e della conoscenza una sua proiezione, quasi una sua creazione soggettiva, con ciò abolendo la verità oggettiva del reale; Rousseau in quanto, facendosi adoratore di una “natura” malintesa, vista come contrapposta alla società e nemica di essa, ha isolato l’uomo dai suoi simili e fatto della solitudine non un mezzo per ritrovare se stesso, ma uno schermo permanente fra la supposta“bontà” originaria e gli altri. Tutti e tre hanno esaltato l’io, hanno svalutato il tu, hanno preteso che l’uomo si facesse arbitro e misura di se stesso: Dio, per Lutero, è ridotto a una forza esterna che salva a suo capriccio, senza alcun merito da parte dell’uomo, senza alcuna collaborazione da parte di quest’ultimo; il mondo esterno, per Cartesio, è ridotto a funzione dell’io, e più precisamente del cogito: esiste quel che il cogito può afferrare, tutto il resto non c’è o non merita alcuna attenzione; infine la società, per Rousseau, non è che una minaccia alla libertà dell’io: ogni uomo nasce libero per natura e secondo ragione, dunque, a rigore, non ha bisogno degli altri, li vede come un pericolo o come un peso, salvo stringersi ad essi in un patto sociale che non attenua la sua diffidenza e la sua scontrosità.
Riassumendo: Lutero, per Maritain, ha restituito l’uomo al ruolo di eterno peccatore, schiavo di passioni indomabili, irrimediabilmente destinato all’Inferno: se si salva, è solo per grazia divina; ma una grazia che non ha nulla a che fare con lui, un dono gratuito che egli non ha meritato e che non potrebbe mai meritare. Di per sé, l’uomo non merita che disprezzo e dannazione: è un grumo di malvagità, di peccato, di concupiscenza; però, pentendosi e confessando la propria nullità, questo aborto umano, questa miserevole creatura può, almeno, riconoscere tutta la propria impotenza, tutta la propria iniquità, tutto il proprio desiderio di essere salvato. Ma non è degno di collaborare alla propria salvezza, perché non è capace di amare: né Dio, né gli altri.
Cartesio, da parte sua, ha instaurato la tirannia della scienza: solo ciò che è scientificamente deducibile e misurabile ha rilevanza, il resto non conta nulla; e l’uomo è un angelo dominato dalla ragione, che nega valore e dignità a tutte le altre creature. Rousseau, infine, ha instaurato il culto della “natura”: tutto è buono quel che è secondo natura, l’unico male è il non seguire la natura. Strana innocenza, che non viene dalla scelta consapevole tra bene e male, ma dall’incapacità di vedere e di fare il male, purché si resti legati alla natura, madre buona infallibile.
Vale la pena di riprendere alcuni concetti svolti da Maritain in questo saggio (edizione italiana a cura di Antonio Pavan, Brescia, Morcelliana, 1974, pp. 53-55):
«Ciò che colpisce, innanzi tutto, nella fisionomia di Lutero, è l’egocentrismo: qualche cosa di molto più sottile, molto più profondo e molto più grave dell’egoismo; un egoismo metafisico. L’io di Lutero diviene praticamente il centro gravitazionale»do ogni cosa, e anzitutto nell’ordine spirituale. E l’io di Lutero non risulta soltanto dalle sue brighe e dalle sue passioni effimere, esso ha un valore rappresentativo, è l’io della creatura, il fondo incomunicabile dell’individuo umano. La Riforma ha sbrigliato l’io umano nell’ordine spirituale e religioso, come il Rinascimento […] ha sbrigliato l’io umano nell’ordine delle attività naturali e sensibili. […]
Dopo che Lutero ha deciso di rifiutare l’obbedienza al papa e di rompere la comunione con la Chiesa, il suo io, nonostante le angosce interiori che non fecero che aumentare fino alla fine, sarà al di sopra di tutto. […] “Io non ammetto – scrive nel giugno del 1522 – che la mia dottrina possa essere giudicata da alcuno, neanche dagli angeli. Chi non riceve la mia dottrina non può giungere alla salvezza”. L’io di Lutero, scriveva il Moheler, era a parer suo il centro attorno al quale doveva gravitare tutta l’umanità; egli si fece l’uomo universale, in cui tutti dovevano trovare il modello. Diciamolo pure egli si mise al posto di Gesù Cristo”. L’abbiamo già notato, la dottrina di Lutero non è che l’universalizzazione del suo io, una proiezione del suo io nel mondo delle verità eterne. A questo riguardo, ciò che distingue il padre del protestantesimo dagli altri eresiarchi, è che questi ultimi partivano innanzi tutto da un errore dogmatico, da una prospettiva dottrinale falsa; qualunque ne sia l’origine psicologica, causa delle loro eresie è una deviazione della loro intelligenza e le loro personali avventure non importano se non nella misura in cui esse hanno condizionato quella deviazione. Con Lutero, è tutto diverso. Sono la sua vita, la sua storia che contano. La dottrina viene per soprappiù. Il Luteranesimo non è un sistema elaborato da Lutero; è lo straripamento dell’individualità di Lutero. Così sarà con Rousseau: processo essenzialmente romantico. Questo spiega la immensa influenza del “riformatore” sul popolo tedesco.»
Lutero, dunque, è un uomo “demoniaco” – l’espressione è del luterano Seeberg, il quale le attribuisce, bravo lui, una valenza positiva -, che nessuno deve avere la pretesa di giudicare, perché è un superuomo al di sopra del livello dei suoi simili. «Io non ammetto che la mia dottrina possa essere giudicata da alcuno», dice Lutero. Ebbene, questa non è solo una frase eretica, nel significato tecnico e obiettivo della parola, ma è anche una frase demoniaca, ancora nel significato tecnico e obiettivo della parola: perché la parola di Lutero si pone come unica via alla salvezza, cioè come alternativa, anche se non osa confessarsi tale, a quella di Cristo. Ora che è arrivato Lutero, che bisogno c’è ancora di Cristo? Non basta leggere e mettere in pratica il Vangelo: bisogna farlo nella maniera prescritta da Lutero, nello spirito di Lutero. Che è spirito di orgoglio: «Nessuno mi può giudicare, io solo dico la verità». Questo è lo stile del’Anticristo.
Non solo. Lutero non si limita a rendere superflua l’incarnazione di Cristo, negando che l’uomo possa collaborare alla propria salvezza; egli pone le premesse perché anche Dio diventi superfluo. Per adesso, egli ha bisogno di Dio per rassicurare la propria paura dell’Inferno; ma il Dio di Lutero è un Dio che fa tutto, mentre l’uomo non fa nulla. Allora, a che serve un Dio del genere? A salvare i buoni, no: perché uomini buoni non ce ne sono, sono tutti cattivi. Dunque, a salvare alcuni e a dannare altri, i quali poi sono la stragrande maggioranza (come nell’antico ebraismo). Ma questo avviene nell’Aldilà; nell’aldiqua, siamo tutti peccatori, tutti immersi nel fango, tutti meritevoli di punizione eterna; nel frattempo, però, tanto vale che pecchiamo, visto che il peccato è la nostra condizione naturale, è invincibile e invitto.
Poniamo che gli uomini, a un certo punto, si guardino intorno e pensino che non c’è alcun Dio, che sono soli, assolutamente soli nell’universo: ebbene, allora dovranno arrangiarsi a fare da sé, dovranno organizzare la loro vita basandosi unicamente sulla realtà immanente. Si convinceranno che il senso della loro vita è tutto in quel che faranno o non faranno nel corso di essa, senza residui, senza aspettative, senza tensione verso una dimensione ulteriore. Tale è precisamente la posizione dell’uomo moderno post-luterano (e post-calvinista): stanco di aspettare un premio che non ha meritato o un castigo che è il frutto inevitabile della sua natura, decide di fare a meno di questo Dio incomprensibile che salva chi vuole, indipendentemente dai meriti; di questo Dio che non gli riconosce alcun merito, anche se lui si sforza di realizzare la santità; che lo fa sentire un niente, una perfetta nullità, e che gli tiene sempre sospesa sul capo la spada di Damocle dell’eterna dannazione.
Che differenza c’è, rispetto all’uomo luterano che ancora crede in Dio? L’uomo moderno si è emancipato dal terrore, oppure è divenuto indifferente a una minaccia e a un castigo troppo a lungo incombenti e contro i quali non resta altro da fare che cospargersi il capo di cenere e attendere il proprio annientamento, sperando di essere tra i pochi fortunati che saranno salvati, pur essendo indegni come tutti gli altri. L’uomo post-luterano ha deciso di fare come se un tale Dio non esistesse, perché di Lui, a sua volta, non sa che farsene. Si è stancato di chiudere gli occhi e attendere di sapere, col cuore che batte all’impazzata, se verrà preso e gettato nel fuoco, oppure no, come i compagni di Ulisse nella grotte del Ciclope attendevano tremanti di vedere quali di loro sarebbero stati afferrati e divorati da Polifemo. E proprio come Ulisse, l’uomo post-luterano ha deciso di portare la sua rivolta sino in fondo e di scrollarsi di dosso il peso di quel Dio spaventevole.
Ed eccoci al dottor Mabuse. In un mondo senza Dio, senza premi né castighi che non siano nell’aldiqua, l’uomo post-luterano e post-calvinista, quel particolare tipo umano che ha forgiato gli ultimi cinque secoli di storia europea e mondiale e che, persa la fede, tranne che a parole, ha conservato però il roccioso fanatismo, l’assolutizzazione del proprio io soggettivo, il vanto di essere stato “eletto” in mezzo alla marmaglia dei futuri dannati; in una parola: l’uomo che non ha più la carità, perché non ama nessun altri che se stesso, e vede intorno a sé solo strumenti per realizzare le proprie brame, è un concentrato di superomismo demonico, come il dottor Mabuse.
Di Mabuse, in particolare, possiede l’intima connotazione demoniaca: ossia la perdita assoluta, irreparabile, della dimensione della speranza e della carità; l’orgoglio di poter fare da solo, imponendo la propria signoria all’universo; di non curarsi del male che semina attorno a sé, arrivando al punto di chiamarlo bene, dopo averlo travestito con parole menzognere, come “progresso”, “libertà”, “emancipazione”. L’io ipertrofico di Lutero ha ceduto il passo a un io disgregato, che non crede più nemmeno a se stesso e che è costretto a indossare mille maschere per sembrare ancora qualcuno, per illudersi di essere: povero guscio vuoto, pieno d’ombra e di vento…
di Francesco Lamendola - 11/12/2012
Fonte: Arianna Editrice [scheda fonte]
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