RIFLESSIONI SU UN SAPIENTE STUDIO DI MONS. BRUNERO GHERARDINI
Il Concilio
Ecumenico Vaticano II è o non è un Concilio
di continuità, è o non è un
Concilio di rottura? La deduzione è shakesperiana: «Questo è il problema».
Si tratta di una questione che entra nei meandri non solo
intellettivi della Chiesa, ma della sua stessa coscienza. Dopo cinquant’anni di
amari frutti conciliari, in una società secolarizzata, “grazie” non solo ai
nemici della Chiesa, ma anche delle corrotte e corrompenti ideologie
filosofiche e teologiche che si sono in essa introdotte con mefistofelica
astuzia, la scottante problematica è finalmente affrontata, come dimostra da
alcuni anni il teologo Monsignor Brunero Gherardini. La rivista internazionale
e quadrimestrale di ricerca e di critica teologica «Divinitas», con sede nella
«Città del Vaticano», sul numero 3 del 2012, ha pubblicato un suo articolo dal
titolo Continuità o rottura?
Partendo dalla celebre allocuzione del Santo Padre alla
Curia del 22 dicembre del 2005, Gherardini sviluppa un pensiero teologico di
perfetta logicità e coerenza. Benedetto XVI quel giorno si soffermò su un
dramma, «mise a fuoco il problema dell’interpretazione dei testi conciliari,
contrapponendo l’ermeneutica della continuità a quella della
rottura, commentatori di varia estrazione e variamente autorevoli son
tornati più volte in argomento. E non senza ragione, trattandosi di risponder
al quesito se la Chiesa, oggi e domani, sarà quella di sempre o se, per
sopravvivere, dovrà darsi un assetto diverso»[1].
Benedetto XVI, parlando di ermeneutiche, dunque di interpretazioni, sottolinea
Gherardini, ha messo in luce un principio basilare: «un Concilio non sarà
mai di rottura, perché dipende dalla sua continuità con la dottrina di sempre»[2].
La quaestio non è una semplice e mera
speculazione intellettuale, essa scava in profondità questo dramma per aprire,
con il bisturi appropriato, il bubbone nel quale si sono annidati microbi infettivi.
Il Papa individuò due “litiganti”: i sostenitori
dell’ermeneutica della rottura e quelli dell’ermeneutica della continuità,
ovvero quelli della discontinuità e quelli della riforma, coloro che
propugnano il rinnovamento nella continuità del soggetto Chiesa. Due
fronti ben distinti, dove ognuno dichiara di avere ragione e che sono in
continua antitesi: ma i litigi sono destinati, prima o poi, a terminare, e uno
dei due dovrà sottomettersi umilmente alla ragione dell’altro, perché, come la
dottrina è portatrice della Verità, così la Chiesa è chiamata a trasmettere,
nel modo corretto (onde non contaminare o corrompere quella Verità), l’unica e
sola Rivelazione fatta da Cristo, quando s’incarnò nel tempo e nel mondo. «Se
si riesce ad impostare correttamente l’argomento, i lamentati “litigi” fra le
due ermeneutiche non avranno più motivo né occasione d’insorgere; anzi, non
potranno più esserci due ermeneutiche. Dal canto loro i pastori, teologi,
studiosi e lettori del Vaticano II troveranno, in questo stesso valore, la
chiave di volta per un’obiettiva e corretta interpretazione conciliare»[3].
La chiave è una (proprio come una è la Verità), si chiama Tradizione e l’Autore
della Tradizione è Cristo.
Monsignor Gherardini sviluppa un discorso che segue una
dialettica teologica ineccepibile. Primo scalino da affrontare risulta essere
quello del significato etimologico di Tradizione. Tradizione deriva dal
sostantivo traditio e dal verbo tradere, ossia «trasmettere,
tramandare». L’autore spiega come tali termini siano passati dalla religione
ebraica, dove veniva trasmessa, in ebraico/aramaico, la Tôrā, a
quella cristiana, attraverso la lingua greca e poi quella latina. Il concetto
era lo stesso ed è rimasto tale anche se immesso nelle lingue moderne: ricevere
e ritrasmettere gli insegnamenti di un preciso e medesimo contenuto.
La Tradizione racchiude il passato, si innesta nel presente
e si getta nel futuro, perennemente giovane, dai tratti che riconducono al “per
sempre”, seppur inserita nella storia. «In tal senso, la Tradizione non
è affatto una specie di predominio del passato sul presente e sul futuro, i
quali, se un tale predominio si verificasse – come vorrebbe il tradizionalismo
– ne verrebbero fagocitati e cesserebbe la storia; è tuttavia un valore […]
determinante-vincolante-obbligante per il senso che conferisce al presente,
preparando così il domani ed in esso proiettandosi»[4].
Benché molti cattolici e molti “falsi profeti” e falsi
maestri, non si facciano il benché minimo scrupolo (pensiamo a nomi come quello
di Enzo Bianchi, di Alex Zanotelli, di don Andrea Gallo, di don Luigi Ciotti),
nella Chiesa la Tradizione è: determinante (dunque fondante), vincolante
(quindi inderogabile), obbligatoria (assume un carattere di legge) e per tali
ragioni ad essa si deve massimo rispetto e massima obbedienza. Se la Tradizione
non viene soffocata e silenziata, non si annacqua, né si disperde nella storia,
«ma è generatrice di essa. Da qui l’idea della sua vera ed autentica vitalità»[5] che
fa da controcanto alla falsa «Tradizione vivente», espressione utilizzata da
coloro che vogliono giustificare un’innovazione sostanziale nella Chiesa,
incompatibile con la Tradizione «come una rosa o un giglio non fioriscono, di
per sé, organicamente, da una quercia o da un ciliegio»[6].
Dal significato etimologico, l’autore passa poi al concetto
teologico di Tradizione. Il pensiero si sofferma sull’azione di tale lemma: la
Divina Rivelazione va custodita gelosamente e deve essere trasmessa con fedeltà
ed ecco tre verbi che si richiamano l’uno dopo l’altro nel processo di
trasmissione: tradere-recipere-docere e ciò riguarda sia il
passaggio orale, sia la sua fissazione nella Scrittura.
L’organo che trasmette la Tradizione cristiana è stato
individuato e creato dallo stesso Rivelatore, il Figlio di Dio: la Chiesa,
fondata su san Pietro, una Chiesa formata da persone che hanno ricevuto una
precisa ed autorevole investitura e che va sotto il nome di consacrazione nella
successione apostolica. A questo punto la Tradizione porta con sé altri esercizi: predicare, insegnare, evangelizzare (la
Chiesa è di natura missionaria e mai potrà rinunciare al mandato del Redentore
di portare l’annuncio della Salvezza a tutte le genti, di qualsiasi religione
esse siano) e per compiere tali mansioni si affida proprio ai successori degli
Apostoli, responsabili della sana dottrina e garanti della Verità trasmessa. In
tal modo Tradizione e Successione sono due aspetti di una stessa realtà che
racchiude alcuni elementi costitutivi:
«a. quanto all’origine, il risalire agli
apostoli di successione in successione;
b. quanto al contenuto, la continuità
dell’insegnamento apostolico;
c. quanto all’autorità, quella stessa degli
apostoli, che perciò è normativa della Fede»[7].
Con onestà intellettuale si può affermare che nel Concilio
Vaticano II si sono dette cose nuove, che mai erano state contemplate nella
Tradizione della Chiesa; si sono pianificate proposte innovative, che mai si
sono delineate nella Tradizione; si sono intraprese strade temerarie, come
l’ecumenismo e la libertà religiosa, iniziative che hanno portato spesso ad una
sventurata ed infelice sottomissione all’opinione pubblica e alle ideologie
dettate dal momento storico in corso; si pensi, per esempio, al silenzio sul
Comunismo da parte dell’Assise apertasi 50 anni fa, all’Ostpolitik che
ne seguì e al corrispettivo martirio della Chiesa del silenzio nei Paesi
dell’Est.
Lo stesso Sommo Pontefice, ultimamente, ha pubblicato un
testo dove riserva due critiche e una sospensione di giudizio a tre
documenti conciliari: Gaudium et spes, Dignitatis humanae e Nostra
aetate[8].
È chiaro che nei testi conciliari il linguaggio di stampo
liberale si è imposto in maniera evidente, misconoscendo quello caratteristico
della Tradizione; anche per questa ragione, là dove esiste un richiamo
tradizionale, si riscontrano, senza neppure troppa fatica, contrasti,
scordature e talvolta vere e proprie contraddizioni che confondono il fedele
che ogni domenica pronuncia il Credo con seria e profonda convinzione, e non
solo per abitudine.
La Tradizione è la vita della Chiesa, non può essere
contraddetta ed è lei ad essere legittimata per giudicare le novità proposte e
non viceversa. Nella «storia ecclesiastica dagl’inizi alla fine, mai nessun
Papa e mai nessun vescovo avranno diritto all’ascolto qualora insegnino a
titolo personale o come privati dottori. Solo in quanto successori degli
apostoli, infatti, son Magistero autentico infallibile irriformabile, avendo
esso:
a. il suo oggetto nella dottrina
apostolica;
b. il suo compito, nel trasmetterla inalterata;
c. la sua autorità magisteriale, in quella delle
dottrine apostoliche autorevolmente insegnate in nome e come “voce” della
Chiesa»[9].
Da questo studio emerge plasticamente l’impossibilità da
parte della Chiesa di prescindere dalla Tradizione, altrimenti non sarebbe più
la Chiesa fondata dal Salvatore: in questo san Paolo è chiarissimo, l’antica
Tôrā è stata sostituita da Cristo, l’Apostolo delle genti l’accoglie e la
ritrasmette, invitando gli altri a fare altrettanto; se ciò non avvenisse
significherebbe commettere un tradimento, perciò la «Chiesa vive di questo
recepire Cristo e ritrasmetterlo nel tempo, fin al suo epilogo»[10].
Così parla Gherardini, così parla sant’Agostino: «“non nisi apostolica
auctoritate creditum”[11]:
non credo per altro motivo che per l’autorità apostolica con cui la Chiesa mi
dice di credere»[12].
Tutti coloro a cui è stato consegnato il deposito della Fede sono responsabili
dell’integrità di ciò che hanno ricevuto integralmente: da duemila anni, questi
chiamati-eletti hanno insegnato ciò che hanno appreso e hanno trasmesso ciò che
hanno ricevuto, «questa e soltanto questa è Chiesa viva!»[13].
Qui non c’è fumo, ma concretezza, infatti l’autore offre
delle prove con la sua analisi alla Costituzione apostolica Dei Verbum:
alcuni punti sono in corrispondenza perfetta con il Concilio di Trento e con il
Concilio Vaticano I a riguardo della tematica Tradizione; ma altri sono incongruenti
fino ad avere due prospettive diverse nello stesso documento: in DV 9
si parla esplicitamente di unità, come una cosa sola, come somma dell’intera
Rivelazione, fra la Scrittura Sacra e la Tradizione, le quali perseguono lo
stesso scopo; ma in DV 10 il concetto muta e viene introdotta,
invece, la distinzione fra Scrittura e Tradizione. A chi credere, dunque, al
principio enunciato prima o a quello successivo?
Inoltre, sempre nella Costituzione dogmatica non
è chiaro se Tradizione, Scrittura e Magistero (DV 10/e) sono
connessi e congiunti, tanto da non poter essere divisi, oppure se i tre
soggetti, pur lavorando nella comune finalità salvifica, hanno identità
autonome (DV10/c): «la Scrittura diventerebbe solo il ricettacolo
scritto, e come tale solennemente riconosciuto dal Magistero, della
predicazione ecclesiastica e quindi della Tradizione. Il Magistero
impersonerebbe l’una e l’altra, assumendone l’autorità e rendendo problematica
la sua condizione di loro “servo”.
Va detto con tutta franchezza che il giudizio del Magistero
è inappellabile e decisivo. Ma lo è solo se rimane nell’ambito del suo
“servizio”, quello stabilito dalla Rivelazione stessa: custodire cioè ed
esporre fedelmente le verità salvifiche, contenute nel deposito o come
“dette” o come “scritte”. Al di fuori di questi limiti, verrebbe meno a
se stesso. Pertanto, neanche al Magistero, così come a nessun cristiano, è
lecito esporre come contenute nel sacro deposito idee proprie o dottrine
desunte dalla dialettica filosofico-scientifica d’un determinato momento
storico; ancor meno è lecito vincolar ad esse la libertà della coscienza
individuale ed ecclesiale. Non saremmo, in tal caso, di fronte al Magistero, ma
al suo tradimento»[14].
Chiesa e Tradizione sono inscindibili e hanno lo stesso
fine: la salvezza delle anime; non così accade fra Chiesa e mondo, con esso ci
possono essere delle frequentazioni diplomatiche e di opportunità, ma mai di
comunione di intenti, perché il mondo può portare alla perdizione delle anime.
Ha scritto Benedetto XVI a proposito della Gaudium et Spes: «Tra i
francesi si mise sempre più in primo piano il tema del rapporto tra la Chiesa e
il mondo moderno, ovvero il lavoro sul cosiddetto “Schema XIII”, dal quale poi
è nata la Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo.
Qui veniva toccato il punto della vera aspettativa del concilio. La
Chiesa, che ancora in epoca barocca aveva, in senso lato, plasmato il mondo, a
partire dal XIX secolo era entrata in modo sempre più evidente in un rapporto
negativo con l’età moderna, solo allora pienamente iniziata. Le cose
dovevano rimanere così? La Chiesa non poteva compiere un passo positivo
nei tempi nuovi? Dietro l’espressione vaga “mondo di oggi” vi è la
questione del rapporto con l’età moderna. Per chiarirla sarebbe stato
necessario definire meglio ciò che era essenziale e costitutivo dell’età
moderna. Questo non è riuscito nello “Schema XIII”. Sebbene la
Costituzione pastorale esprima molte cose importanti per la comprensione del
“mondo” e dia rilevanti contributi sulla questione dell’etica cristiana, su
questo punto non è riuscita a offrire un chiarimento sostanziale»[15].
Occorre fare un distinguo: il Cristianesimo è Tradizione e
non conservazione: «Conservazione è chiusura al nuovo; tradizione è passaggio
da un’era ad un’altra»[16];
un grande inganno ed un’abissale infedeltà, poi, si verifica quando si muta la
prospettiva teologica di Tradizione, non considerandola più scrigno dell’unica
e sola divina Rivelazione, ma valutandola e misurandola alla luce della storia,
quest’ultima intesa come immanente forza evolutiva, dando, in tal modo, ampio
spazio alle soggettive “verità”, spesso in contrasto con quelle rivelate.
Quanti, appellandosi al Concilio Vaticano II, si sono permessi di proteggere
innovazioni, rivoluzioni, posizioni erronee? Se ne potrebbe scrivere
un’enciclopedia intera, ma, piuttosto che confezionare una simile opera,
sarebbe molto più benefico e salutare, come auspica Monsignor Gherardini e
tutti coloro che comprendono che la Tradizione è l’antidoto alle sostanze venefiche
che sono state inoculate nella Chiesa, sottoporre a verifica i documenti
conciliari, facendo emergere le novità moderne che sono in contrapposizione con
gli insegnamenti di sempre e che hanno prodotto quelle stesse ermeneutiche in
lite fra di loro.
[1] B.
Gherardini, Critica teologica-Continuità o rottura?, in
«Divinitas», Rivista internazionale di ricerca e di critica teologica, Città
del Vaticano, Anno LV, n. 3-2012, p. 321. (Il neretto è nel testo originale).
[2] Ivi,
p. 351.
[3] Ivi,
pp. 324-325.
[4] Ivi,
p. 329.
[5] Ibidem.
[6] Ivi,
p. 324.
[7] Ivi,
p. 331.
[8] Per
approfondire vedi di P. Pasqualucci, Sulle recenti critiche di
Benedetto XVI al Concilio Vaticano II:
http://www.conciliovaticanosecondo.it/2012/11/18/sulle-recenti-critiche-di-benedetto-xvi-al-concilio-vaticano-ii/
[9] Ivi,
p. 332.
[10] Ivi,
p. 333.
[11] Agostino, De
bapt. Cont. Donatum, 4,24 PL 43.174.
[12] B.
Gherardini, Critica teoligica-Continuità o rottura?, in
«Divinitas», art. cit., p. 334.
[13] Ibidem
[14] Ivi,
pp. 344-345.
[15] Benedetto
XVI racconta, in «L’Osservatore Romano», 11 ottobre 2012 (numero dedicato
al cinquantenario del Concilio Vaticano II), p. 6.
[16] B.
Gherardini, Critica teologica-Continuità o rottura?, in
«Divinitas», art. cit., p. 346.
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