Il Vangelo secondo Tolkien
Esce nelle sale “Lo Hobbit – Un viaggio inaspettato”, prima puntata della nuova trilogia con cui il regista Peter Jackson si cimenta nuovamente con il Legendarium tolkieniano. Ancora una volta Jackson si dimostra un grande regista: già nel precedente “Il Signore degli Anelli” era stato interprete fedele, non solo nella trama (anche se qualche “ritocchino” aveva fatto storcere il naso a qualche “purista”), ma soprattutto nello spirito, del grande scrittore inglese.
“Lo Hobbit” di Jackson non è una mera trasposizione dell’omonimo, stupendo libro, ma il regista sa inserire la vicenda nel contesto della “mitologia” elaborata da Tolkien e condensata ne “Il Silmarillion” e in uncorpus sterminato di scritti pubblicati postumi a cura del figlio Christopher. Il risultato è una soddisfazione enorme per chi, come me, ama Tolkien di un amore bruciante.
La scoperta di Tolkien ebbe poi il merito non secondario di portare molti seguaci di Julius Evola ed Alain de Benoist alla riscoperta del cristianesimo: la contrapposizione fra paganesimo e cristianesimo tipica di questi Autori veniva in Tolkien felicemente ribaltata. Il professore di Oxford, grandissimo studioso di antichi miti e leggende anglosassoni, ma anche conoscitore delle Sacre Scritture, era convinto che nei miti pre-cristiani ci fosse una prefigurazione delle Rivelazione e che la Rivelazione confermasse gli antichi miti. Non più una contrapposizione, quindi, ma una reciproca legittimazione. La profondità della sua concezione cristiana è ben esplicitata in diversi suoi saggi (raccolti in Italia nel volume “Albero e Foglia”, edito da Bompiani) e lettere (raccolte nel volume “La realtà in trasparenza”, sempre edito da Bompiani), ma in realtà è ben evidente a qualunque lettore non ottuso dei suoi romanzi.
L’intuizione tolkeniana era perfettamente in linea con quanto veniva sviluppato negli stessi anni dalla teologia neo-patristica, fra i cui esponenti il grandissimo teologo svizzero Hans Urs von Balthasar (un cui allievo oggi occupa la Cattedra di San Pietro) uscì entusiasta dalla lettura de “Il Silmarillion”, nella cui visione teologica trovava una sorprendente coincidenza con la sua monumentale “Teodrammatica”.
Cosa dire, nel dettaglio, de “Lo Hobbit”? Ci sarebbero, ovviamente, da riempire pagine e pagine, ma limitiamoci a poche linee. Intanto, l’inizio: Bilbo Baggins è uno hobbit, un mezzo-uomo, una creatura piccola e attaccata alla vita comoda a benestante, alle grandi dormite, alle mangiate e alle bevute. E, soprattutto, detesta una cosa su tutte: le avventure. “Brutte, fastidiose scomode cose! Fan fare tardi a cena!”. Un giorno, però, ecco presentarsi sul suo uscio il vecchio stregone Gandalf, venuto apposta a reclutarlo per un’avventura! Ecco qui, nascosto, l’elemento cristiano. Chi è Gandalf? Come si evince dal Silmarillion, Gandalf è uno degli Ainur, creature angeliche a cui Eru, l’Uno, chiamato anche Ilùvatar (in altre parole, Dio!) affidò Arda, la Terra. Ecco dunque, che un Angelo si presenta alla porta di questa piccola e fragile creatura, e la chiama al suo grande destino. E lo fa nella maniera più inaspettata, presentandosi sotto le spoglie di un anziano e stanco viandante. Subito dopo, ecco entrare in scena la Compagnia dei Nani, guidati da Thorin Scudodoquercia, in missione per liberare la Montagna dal terribile drago Smaug. Bilbo è destinato a reggere le sorti di questa missione. All’inizio non ne vuole sapere, ma qualcosa in lui, invece, brama l’avventura, e proprio questo qualcosa, alla fine, prende il sopravvento, fra l’incredulità dei Nani, che lo vedono inizialmente come un peso. Bilbo ha detto il suo “Sì” alla chiamata, un “Sì” dato liberamente e venuto dal cuore.
Il seguito della storia lo lasciamo alla visione del film ed alla lettura dello splendido libro. Basti però, sapere, che alla fine sarà proprio Bilbo a determinare la riuscita della missione e la sopravvivenza stessa dei Nani di cui si ritrova a portare sulle spalle la responsabilità. Bilbo non è Achille o Sigfrido, non è il Superuomo nietzschiano, è una piccola, fragile ed impaurita creatura trovatasi di fronte ad una responsabilità all'apparenza più grande di lui, ma che riesce, nel continuo sacrificio di sé, nell’accettazione delle difficoltà e delle prove che gli si parano davanti, a terminare un viaggio che si rivelerà, alla fine, un vero e proprio pellegrinaggio interiore. In Bilbo, così come, più tardi, nei quattro piccoli hobbit de “Il Signore degli Anelli”, si realizza una forma tutta nuova di eroismo: l’eroismo cristiano.
Ovviamente nulla sarebbe possibile senza l’aiuto invisibile della Provvidenza, che incombe su tutta la storia senza mai essere nominata, ma la cui presenza costante viene svelata da Gandalf nel finale. “Non crederai mica, spero, che ti sia andata bene in tutte le tue avventure e fughe per pura fortuna, così, solo e soltanto per il tuo bene? Sei una bravissima persona, Bilbo Baggins, ed io ti sono molto affezionato; ma in fondo sei solo una piccola creatura in un mondo molto vasto!”. “Grazie al cielo”, risponde Bilbo, chiudendo con le sue parole la narrazione. E non c’è un finale più cristiano di questo.
di Paolo Maria Filipazzi
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