Ecco perché il Concilio Vaticano II non condannò il comunismo
Negli anni ’60 il comunismo rappresentava una realtà che era impossibile ignorare: milioni di cattolici vivevano in stati guidati dal modello socialista subendo per questo dure repressioni,
e avvenimenti come l’innalzamento del muro di Berlino (1961) o
l’installazione dei missili sovietici a Cuba (1962) avevano
profondamente scosso l’opinione pubblica mondiale. Si aspettava perciò
un pronunciamento riguardante questo tema. Già nel lavoro di
preparazione vennero sottoposti al giudizio della commissione centrale
preparatoria due testi relativi al problema del comunismo e si era
deciso di trattare il dilemma ponendolo sotto la questione generale
dell’ateismo.
In realtà, in quel periodo si erano condotte delle trattative
tra il Vaticano e l’Unione Sovietica che dovevano permettere la
presenza a Roma di osservatori della Chiesa Ortodossa: nell’agosto del
’62 nella città francese di Metz era stato stipulato un accordo segreto
tra il cardinale Tisserant, rappresentante del Vaticano, e il nuovo
arcivescovo di Yaroslav, monsignor Nikodim, che si scoprirà in seguito
essere nientemeno che un agente del KGB. In base a questo accordo le autorità ecclesiastiche si impegnarono a non parlare di comunismo nel Concilio in cambio della presenza degli osservatori del Patriarcato di Mosca. Un appunto di papa Paolo VI
del 1965, conservato nell’archivio segreto del Vaticano, conferma
l’esistenza di questo accordo dato che cita tra gli impegni del concilio
quello di «non parlare di comunismo». Anche il bollettino del Partito comunista francese, «France Nouvelle», scriverà nel gennaio del 1963 che la Chiesa Cattolica «ha
preso l’impegno, in occasione del dialogo con la Chiesa ortodossa
russa, che nel concilio non ci sarebbe stato alcun attacco diretto
contro il regime comunista».
Non solo, ma grazie agli studi dello storico George Weigel si scoprirà che parecchi infiltrati sovietici riuscirono ad intrufolarsi in Vaticano:
il Collegio Ungherese divenne all’epoca una filiale dei servizi di
Budapest, mentre l’SB polacco cercò persino di falsificare la
discussione del concilio sui punti peculiari della teologia cattolica
come il ruolo di Maria nella storia della salvezza, per contrastare la
posizione “massimalista” del prelato polacco anticomunista Stefan
Wyszynski (Roberto de Mattei, Ecco perché il Vaticano II non contrastò il comunismo, Il Giornale, 09/10/2012).
Una petizione di condanna del comunismo presentata il 9 ottobre del ’65 da 454 padri conciliari di 86 paesi non venne neppure trasmessa alle Commissioni che stavano lavorando sullo schema. Azione questa che desterà grande scandalo. Il cardinale Giacomo Biffi scriverà a tal proposito: «Negli
stessi anni in cui si svolgeva l’assise ecumenica, le prigioni
comuniste erano ancora luogo di indicibili sofferenze e umiliazioni
inflitte a numerosi “testimoni della fede” (…) e il Concilio non ne
parla. Altro che i supposti silenzi nei confronti delle aberrazioni del
nazismo, che persino taluni cattolici (anche tra quelli attivi al
Concilio) hanno poi rimproverato a Pio XII».
Papa Roncalli aveva deciso inoltre di modificare la politica del suo predecessore. Mentre infatti sotto Pacelli v’era stata una condanna totale dei regimi comunisti, sotto Giovanni XXIII si tentò invece la strada del dialogo aprendo contatti attraverso la mediazione di monsignor Agostino Casaroli. Politica che anche il suo successore, Paolo VI, deciderà di continuare: in quegli anni si ebbe la cosiddetta “Ostpolitik vaticana” dove
allo scontro aperto si preferì la normalizzazione dei rapporti. Paolo
VI ricevete perciò negli anni ’70 alcuni dittatori comunisti come Josip
Broz Tito e Nicolae Cesauescu, rimosse dalla responsabilità della sua
diocesi il cardinale Jozsef Mindszenty (stabilitosi a Vienna grazie alla
mediazione del presidente americano Nixon e del cardinale König) e accettò la nomina di alcuni vescovi approvati dai regimi marxisti. Indubbiamente Montini agiva in buona fede per cercare di fermare la persecuzione dei cattolici oltre la cortina di ferro: «La Chiesa non cerca un modus vivendi, ma un modus non moriendi» disse all’epoca giustamente un cardinale. Tuttavia, i risultati ottenuti grazie a questa politica furono assai scarsi e si ebbero molte critiche provenienti anche dai cristiani orientali: Stefan Wyszynski dirà intervenendo ad un sinodo “vir casaroliensis non sum”” (“non sono un uomo di Casaroli”) per segnare il suo dissenso nei confronti dell’Ostpolitik, mentre il cardinale ucraino Josif Slipyi affermerà nel 1974: «Abbiamo
sentito nei discorsi precedenti solo riferimenti a quei paesi in cui
c’è libertà religiosa e in cui si può predicare il Vangelo; niente è
stato detto su quei paesi in cui non c’è libertà di religione e in cui
la Chiesa è perseguitata» (A. Tornielli, Paolo VI, Milano 2009 p. 582-584).
Solo con la salita al soglio pontificio di Giovanni Paolo II (che ben conosceva la repressione comunista) si assistette alla modifica di questo approccio
che considerava i regimi comunisti come espressioni immutabili
destinate a durare a lungo, e il papa polacco darà un contributo
fondamentale alla caduta dell’Unione Sovietica.
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