Requiem per un vecchio parroco
Se n’è andato in punta di piedi, all’improvviso, lasciando tutti di stucco.
Sì, aveva una bella età; ma godeva di una salute invidiabile, dimostrava vent’anni di meno e tutti, in paese, si erano abituati a considerarlo eterno. Era arrivato quarant’anni prima: e quarant’anni sono parecchi, in un mondo che corre a ritmo febbrile.
Ormai la parrocchia si identificava con lui: andare in chiesa, ricevere la benedizione domestica, recarsi allo spettacolo teatrale per la sagra annuale del santo patrono: ciascuna di queste cose si identificava con la sua persona, con il suo volto, con il suo caratteristico modo di parlare: chiaro, netto, ponderato.
Molti, in paese, erano stati battezzati da lui; molti erano stati sposati da lui; molti erano stati accompagnati da lui al campo santo. I meno giovani lo ricordavano quando, tanti anni prima, insegnava la religione cattolica nella scuola superiore del capoluogo di comune; poi, gli impegni della parrocchia, nella frazione ai piedi delle colline, e quelli dell’asilo infantile, lo avevano completamente assorbito.
Aveva già passato i settant’anni e ancora accompagnava personalmente, in corriera, i bambini delle elementari alle gite in qualche lontano parco giochi; così come, fin oltre gli ottanta, continuava a seguire personalmente la sua creatura forse più cara, il teatrino parrocchiale, partecipando alle prove e distribuendo consigli e suggerimenti ai giovani attori.
Era un prete all’antica.
Portava la tonaca lunga fino ai piedi, estate e inverno; non biascicava dubbi, esprimeva certezze; era piuttosto autoritario, ad esempio nell’ambito del consiglio parrocchiale; non capiva o non approvava molte cose della società moderna e anche, forse, alcune cose della Chiesa postconciliare. Aveva un alto concetto della vocazione sacerdotale: non si tirava mai indietro davanti a un impegno, a una responsabilità; tappava tutti i buchi, anche quelli più umili, suppliva a tutte le deficienze; non mendicava aiuto, anche se lo domandava: poi, però, si rimboccava le maniche e faceva, fosse pure da solo.
La sua formazione sacerdotale era molto tradizionale, antecedente al Vaticano II; però sapeva dialogare con i giovani, sapeva ascoltarli e credeva in loro. Non era mai negativo, non era mai polemico, non era mai amaro. Non sottolineava ciò che non va come dovrebbe andare, ma metteva sempre l’accento su quel che si può fare e che va fatto, con l’aiuto di Dio.
Lavorava molto ed era pieno di preoccupazioni, anche economiche, specialmente per la scuola materna, ma nessuno lo sapeva; lui non ne parlava, non si compativa. Cercava di non dare disturbo ad alcuno, di fare ogni cosa in punta di piedi. Anziano com’era, chiudeva da solo il pesante portone della chiesa, finita la messa; e ce la faceva a stento. Da fuori, si sentivano i colpi secchi, ripetuti, del chiavistello che batteva a vuoto.
Aveva un po’ viziato i suoi parrocchiani. Diceva quattro messe alla domenica, a tutte le ore; solo alla fine aveva tagliato quella delle sette del mattino, frequentata appena da qualche vecchietta; e ogni anno faceva il giro delle famiglie, visitandole tutte, una per una. Aveva pazienza con tutti: coi bambini, coi catechisti, coi chierichetti.
Solido, asciutto, dignitoso, parlava con misura, esprimendo sempre concetti chiari; non concepiva distanza tra il dire e il fare; non si nascondeva mai dietro il “vorrei, ma non posso”. Eppure aveva le sue debolezze, i suoi momenti di sconforto; anche se pochissimi lo sanno. Pochissimi sanno che una volta era uscito, quasi piangente, dall’aula di dottrina, sconfitto dalla baraonda e dalla mancanza di rispetto dei quindicenni cresimandi, presi soltanto dal pensiero dei regali che avrebbero ricevuto per la cerimonia. Era andato a sfogarsi dalla anziana perpetua, la quale, più energica, aveva ripreso in mano le redini della situazione; ed era rimasto fra loro.
Era un uomo di Dio, non un superuomo.
Non mancavano le chiacchiere, le voci, le insinuazioni: succede nei piccoli paesi, come succede nei quartieri cittadini, che sono, in fondo, dei piccoli paesi anch’essi. Non si sa cosa ci fosse di vero. Che gli piacessero le donne, o che gli fossero piaciute in gioventù, non è cosa che ne possa sminuire il ricordo, anche se fosse comprovata. Era un uomo, appunto.
Essendo una persona retta, se pure quelle voci hanno un fondamento, egli avrà accusato la propria debolezza e avrà cercato di combatterla: talvolta nulla trapela, all’esterno, delle lotte che sostiene l’anima altrui; prima di giudicare, dovremmo avere rispetto per il grande mistero che vi è al fondo di ognuno di noi, nessuno escluso: il mistero delle persone migliori che vorremmo essere, e che tuttavia facciamo una così gran fatica a diventare.
Che fosse seriamente impegnato per il bene della sua parrocchia, però, questo nessuno arriva a metterlo in dubbio: ed è ciò che più conta. Che non si risparmiasse, che fosse esigente con se stesso assai più che con gli altri, era sotto gli occhi di tutti. Non sono molte le persone delle quali si possa affermare una cosa del genere.
Il fatto che fosse in paese da così tanti anni e che fisicamente fosse, o apparisse, sempre uguale a se stesso, come se il tempo, per lui, sembrasse aver fatto una eccezione e corresse più lentamente che per gli altri, aveva suggerito un po’ a tutti, inconsapevolmente, l’idea che sarebbe durato in eterno, come la chiesa e come il campanile eretto da un conte quando questa regione era ancora sotto l’Impero austriaco.
Invece non è stato così: ovviamente.
Se n’è andato nel sonno, senza un lamento, senza un testimone, senza un dolore o un segno premonitore. Ultimamente era piuttosto affaticato, ma pochi se n’erano accorti. E quei pochi attribuivano la sua stanchezza semplicemente al troppo lavoro e allo sfibramento di un’estate particolarmente torrida, lui che soffriva il caldo.
Una bella morte, una morte serena. È passato dalla quiete del pisolino pomeridiano al grembo dell’eternità, quasi senza malanni e senza medicine. Niente terapie, niente ospedali, niente di niente: se n’è andato ancora nel pieno delle forze, lucido, come per un lungo sonno.
La gente lo ha accompagnato in cimitero, intontita, lui che ne aveva accompagnati tanti: pareva impossibile che la domenica successiva, al suono della campana, non lo avrebbe rivisto sul pulpito, dritto, pacato, rassicurante, come lo aveva visto per otto lustri; che la sua voce, dal timbro chiaro e quasi ritmato, non sarebbe più risuonata per la navata.
Strano questo senso di vuoto, che è subentrato in paese.
Non è solo il fatto che un parroco nuovo non è arrivato in paese e chissà quando arriverà, ammesso che arrivi; non è solo il fatto che le messe sono diminuite di frequenza e che, a celebrarle, vengono dei preti da fuori; e neanche il fatto che alcune piccole abitudini, da lui instaurate o tollerate, sono state rapidamente cancellate, magari cose da poco, che davano però il senso della continuità, quasi la sensazione di essere in una famiglia.
No, non è solo questo; e nemmeno il fatto che tutto sembra andare, almeno in apparenza, come prima, ad eccezione della porta della chiesa che, adesso, rimane sempre chiusa, tranne alla domenica, per le celebrazioni, mentre prima era sempre aperta, perché lui, fiducioso nel prossimo, non la voleva chiudere durante tutto il giorno, anche se magari era vuota, anche se ad entrarci erano in pochi sismi durante la settimana e anche se, così facendo, si esponeva al rischio dei furti, rischio purtroppo tutt’altro che improbabile o remoto.
Anche quella porta sempre aperta era un segno, che trasmetteva un senso di familiarità e di accoglienza e che diceva pure qualcosa sul carattere dell’uomo.
È difficile dire cosa sia questo senso di stranezza, che ora aleggia e si respira in paese: sta di fatto che ci si sente un po’ smarriti, un po’ confusi, un po’ più soli. Una presenza se n’è andata, che infondeva sicurezza e un confortante senso di stabilità.
Egli era un po’ come uno di quegli antichi fari che brillano nel buio da lontano: e, anche se nell’epoca del radar e dei computer le navi non hanno quasi più bisogno di fari, perché la loro rotta è tracciata dagli strumenti automatici, nondimeno è rassicurante vedere quella luce brillare nella notte: lo è per tutti e non solo per i naviganti, anche per quelli che se ne stanno con i piedi ben piantati sulla terraferma.
Ancora una volta ci si deve confrontare con l’antica verità, che ci si accorge delle cose importanti e benefiche solo quando esse vengono a mancare; ma, finché ci sono, le si dà per scontate, non le si apprezza al loro giusto valore. Il fatto di averle sempre a portata di mano, chissà perché, induce a sottovalutarle, a notarle poco e a non ringraziare mai, neanche col pensiero.
Così, dal punto di vista umano, è un’altra presenza familiare che se n’è andata senza far rumore, aggiungendosi ad altre, spesso altrettanto discrete: come quella della nonna della casa accanto, persona fine, delicata, modesta; come quella del negoziante della bottega di alimentari, che aveva sempre un sorriso e un cioccolatino per i bambini che entravano coi genitori a fare la spesa; come quella del vecchio poeta, che passeggiava solitario e intabarrato, anche nella buona stagione, contemplando pensoso il fiume e le colline.
Ma il punto di vista umano, per quanto importante, è un punto di vista limitato e imperfetto: quello che il vecchio prete ha voluto dire, con l’esempio oltre che con la parola, nel corso della sua lunga vita operosa, è che non si muore, si nasce due volte: perché la morte non è una porta sul nulla, ma una porta sulla dimensione piena e luminosa dell’Essere.
Un ritorno a casa, dunque; che non deve far paura. Specialmente se si è degnamente impiegata la propria vita, se ci si è sforzati di portare a buon fine il proprio compito, rispondendo generosamente alla chiamata e scegliendo non la strada più comoda, ma quella più giusta.
La strada giusta, in realtà, è una ed una sola: non ce ne sono due; però è vero che la strada giusta è anche la meta e che, pertanto, non è tracciata in anticipo, bisogna provare e anche sbagliare, senza mai perdersi d’animo, ricominciando sempre daccapo, con rinnovato slancio: perché sbagliare strada è come sbagliare la propria vita, e ogni giorno sbagliato è un giorno perso.
Brutta cosa, arrivare a una certa età e rendersi conto di aver sbagliato la propria vita. Meglio starci attenti e cercare di accorgersene in tempo, finché di tempo ce n’è ancora: per quanto possa essere frustrante dover ammettere lo sbaglio e ritornare indietro, è sempre meglio che perseverare nella strada sbagliata, solo per malinteso orgoglio o per forza d’abitudine.
È da uomini e donne forti saper ammettere il proprio sbaglio, per quanto doloroso possa essere, e ritornare indietro; è da deboli volersi mostrare forti e sicuri, quando si è semplicemente fuori strada e perseverare in una direzione sbagliata, che non porta in alcun luogo.
* * *
La giornata è stata fredda e ventosa, ieri la neve è caduta in abbondanza sulle montagne vicine, imbiancando tutto il paesaggio come in pieno inverno; invece siamo appena al principio dell’autunno.
Ora, improvvisamente, le nuvole si sono squarciate e la luna piena appare nel limpido cielo della sera, grande, luminosa, prima di rituffarsi in mezzo ad esse, i cui margini ne sono illuminati e come trasfigurati.
Così è la nostra vita: brilla per un poco, uscendo fuori dalle tenebre; poi si immerge nuovamente nel buio e nel mistero. E così è la vita di coloro che ci corrispondono: ci accompagna per un tratto, a volte breve, a volte un po’ più lungo; e quando, infine, se ne vanno, ci sentiamo sempre come orfani, inaspettatamente defraudati d’una sicurezza.
Eppure, anche quel senso di vuoto è benefico: ci ricorda la nostra mortalità, ci fa porre la nostra vita in una prospettiva seria. Ci induce a domandarci dove stiamo andando e se stiamo percorrendo la strada giusta, la strada buona; ci ricorda che siamo viandanti e pellegrini, in cammino lungo la nostra personale Via Lattea.
Qualche volta siamo stanchi, e allora apprezziamo il calore di chi ci cammina accanto, per un tratto; così come egli, forse, apprezza il nostro. Non siamo qui per odiare, dopotutto, ma per offrirci una spalla lungo le asperità del cammino, pur sapendo che nessuno può sostituirci sulla strada e che dobbiamo percorrerla noi stessi, fino in fondo, a costo di veglie e sacrifici. Ma ne vale la pena…
di Francesco Lamendola - 18/01/2013Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it
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