Il
dibattito sul Concilio Vaticano II è entrato nel vivo e mentre gli argomenti
declamatori hanno perso consistenza di fronte all’anacronismo degli ottimistici
entusiasmi di un’utopica primavera della Chiesa degli anni Sessanta (quando si
volle gettare la Chiesa in un imprudente dialogo con il mondo), chi osa, con
coraggio, profonda Fede e amore per la Chiesa, mettere sotto esame il più
problematico Concilio della storia offre l’opportunità ai credenti di
comprendere le mosse di una rivoluzione che ha reso sismica la zolla su cui
poggia la cattolicità.
In questi giorni, dal 4 al 6 gennaio 2013, si è tenuto,
fra Versailles e Parigi, l’XI Congresso Teologico Internazionale, organizzato
dalla dotta e valorosa testata Courrier de Rome, in collaborazione
con D.I.C.I., sotto la Presidenza di S.E. Monsignor Bernard Fellay, Superiore
Generale della Fraternità Sacerdotale San Pio X. Al Congresso erano presenti,
oltre a Monsignor Fellay, molti sacerdoti, suore e laici francesi,
statunitensi, belgi, italiani, tedeschi, svizzeri. Tema della tre giorni
è stato: Vatican
II, 50 ans après: quel bilan pour l’Église? Ossia: «Vaticano II, 50 anni
dopo: quale bilancio per la Chiesa?».
I relatori che si sono susseguiti al tavolo dei lavori hanno
offerto una disamina ampia e approfondita sulle diverse problematiche sorte nel
XXI Concilio. Le tesi proposte hanno realisticamente affrontato, sia da un
punto di vista storico, che filosofico, che dottrinale, il problema dello
scollamento fra la Chiesa della Tradizione e coloro che si sono lasciati
trascinare dalle seduzioni filosofico-culturali del mondo moderno.
Il primo giorno del Congresso, quando è stato proposto il
punto di vista storico, l’Abbé François Knittel, priore di Strasburgo, ha
compiuto una panoramica in merito ai rapporti fra la FSSPX e la Santa Sede, Accettare
il Vaticano II e la Nuova Messa: da Paolo VI a Benedetto XVI. I problemi di
carattere disciplinare della Fraternità Sacerdotale San Pio X sorti sotto i
pontificati di Paolo VI e di Giovanni Paolo II vengono ad assumere, secondo la
spiegazione di Knittel, una prospettiva nuova sotto Benedetto XVI, il quale
chiede alla FSSPX una regolarizzazione mentre si compiono alcuni importanti
passi: liberalizzazione della Messa di sempre del 2007 e revoca delle
scomuniche dei quattro Vescovi consacrati da Monsignor Marcel Lefebvre nel
1988.
Il problema, dunque, si è spostato dal punto di vista
disciplinare a quello dottrinale; infatti vengono aperti i colloqui dottrinali
tra la Santa Sede e la FSSPX nell’ottobre 2009, che si chiuderanno nell’aprile
2011.
«Sembra chiaro che, le proposte romane si sono gradualmente
spostate dalla materia canonica e disciplinare», esistenza della Fraternità,
dei seminari, dei priorati..., «a quella dottrinale. Ma l’accettazione del
Concilio e la Messa di Paolo VI, come richiesto dalle attuali autorità della
Chiesa, sono prerequisiti non negoziabili». Dunque per avere un riconoscimento
canonico ed un ritorno “alla piena comunione” le autorità romane chiedono, per
il momento, l’accettazione sine qua non del Vaticano II e
della Nuova Messa.
Padre Knittel ha spiegato che non si tratta di una lotta
statica, ma dinamica e in divenire e, pertanto, diviene basilare gettare uno
sguardo sia al passato più lontano che a quello più vicino, restando «fedeli a
ciò che Dio si aspetta da ciascuno di noi hic et nunc. Tuttavia,
col trascorrere del tempo, siamo esposti a molti pericoli: pericolo per i
giovani di ignorare il passato, quando essi non erano né attori né testimoni;
pericolo per i più adulti di dimenticare il passato e di limitare la
valutazione o, al contrario, di congelare il passato che si dissocia dai più
recenti sviluppi».
A volte c’è bisogno di fermarsi, di esaminare tutto il
“dossier”, di abbracciare in un colpo d’occhio il passato e il presente per
cogliere le sfumature, il progresso, le battute d’arresto, le accelerazioni, le
decelerazioni, la logica. Questo è ciò che ci proponiamo di fare oggi circa
l’accettazione del Concilio Vaticano II e la riforma liturgica. Per fare un
simile esame ci si può avvalere di varie fonti, fra le quali: i discorsi di
Paolo VI e di Benedetto XVI sulla riforma liturgica e l’accettazione del
Concilio; le proposizioni presentate alla Fraternità San Pio X dal 1975 fino a
giugno 2012; le iniziative relative alla celebrazione romana della Messa
tradizionale dal 1980 al 2011.
Per la Fraternità, ha detto Knittel, come per la Chiesa fino
al Concilio Vaticano II, la Tradizione è il Depositum Fidei, vale a
dire l’insieme di verità che costituiscono la Rivelazione, chiusasi con la
morte di san Giovanni Evangelista. Pertanto la Tradizione è un insieme di
verità intellettualmente accettabili ed eterne, la cui mutabilità consiste
nell’immutabilità dell’oggetto, benché possano essere approfondite. In questa
concezione la Tradizione è la continua ripetizione dell’esperienza di fede
fatta dalla Chiesa apostolica. Ma la prospettiva ha avuto un mutamento: la continuità
non risiede più nell’oggetto eterno ed immutabile, ma nel soggetto che prova e
produce l’esperienza religiosa. Così il solo ricercare, tramite l’esegesi dei
testi conciliari, la continuità o meno con la Tradizione viene ritenuto da
alcuni un metodo che mette in discussione l’assistenza dello Spirito Santo.
Tuttavia, rimane questa la via lecita da praticare per comprendere le
sfasature, le ambiguità e fare spazio alla chiarezza.
«Il Vaticano II e la Messa nuova sono stati la nuova anima
della Chiesa conciliare e l’accettazione dell’uno e dell’altro erano la conditio
sine qua non per una regolarizzazione canonica. Sono passati dieci
anni e le cose non sono cambiate. Il ragionamento delle autorità romane è
sempre lo stesso: da quando c’è stato il nuovo Concilio e la promulgazione
della nuova Messa ogni cattolico deve accettare l’uno e l’altra.
Senza mettere in discussione l’autorità, la Fraternità
afferma che la correttezza di una legge dipende anche dalla ragione
finale del bene comune. Ma oggi non c’è dubbio sulla crisi universale che
affligge la Chiesa dopo il Concilio. Dottrina, catechismo morale, liturgia,
educazione cattolica, università, disciplina ecclesiastica: tutto è sconvolto».
Non è forse perché gli insegnamenti delle riforme conciliari e post-conciliari
hanno errato qualcosa? Dunque, si è chiesto l’Abbé Knittel, come «lavorare alla
salvezza delle anime in questo contesto?». In primo luogo, rifiutando di
aderire alle questioni controverse del Concilio e rifiutando di riconoscere la
legittimità della nuova Messa. Questo rifiuto rispettoso cerca e spera
correzioni nella dottrina, nella disciplina canonica e tradizionale. «A coloro
che sono stati sedotti dal miraggio delle novità e che dubitavano dei principi
tradizionali, è importante mostrare, non da un ragionamento, ma dai fatti, la
fertilità inesauribile di questi principi tradizionali. Non bisogna infatti
dimenticare che questo era e rimane la missione della Fraternità Sacerdotale
San Pio X nella Chiesa».
Con l’intervento del Professor Roberto de Mattei si è preso
atto che la storia è una scienza che dovrebbe essere tenuta in maggiore
considerazione nelle discipline ecclesiastiche. Certamente il pensiero
cattolico del Novecento annovera grandi teologi, grandi filosofi, grandi
moralisti, grandi maestri di vita spirituale, ma nessun grande storico ha
saputo unire la vastità della scienza e dell’erudizione alla pienezza della
fede ortodossa.
«Eppure la storia - mi riferisco soprattutto alla storia
della Chiesa - può portare immensi benefici alla restaurazione culturale e
morale di un popolo. Basti pensare alla benefica influenza, nel XIX secolo,
della monumentale Histoire universelle de l’Eglise catholique di
René Francois Rohrbacher in 28 volumi, con sette edizioni dal 1842 al 1901, e
traduzioni in italiano, inglese e tedesco. Quest’opera ha avuto una influenza
sul pensiero cattolico dell’Ottocento non minore delle opere del conte Joseph
de Maistre. Il presidente dell’Ecuador Garcia Moreno la lesse due volte durante
il suo soggiorno a Parigi e anche grazie ad essa si fece definitivamente e
irrevocabilmente cattolico.
Opere di questo genere oggi mancano e la ragione principale
di quest’assenza dall’orizzonte culturale ecclesiastico sta, a mio avviso,
nella perdita del senso storico, che è la comprensione delle vicende umane,
nelle loro cause e nelle loro conseguenze, da un punto di vista innanzitutto
soprannaturale. Dom Guéranger, il grande abate di Solesmes, che appartiene alla
stessa scuola ultramontana di Rohrbacher, definisce lo storico cattolico come
colui che “juge les faits, les hommes, les institutions au point de vie de
l’Eglise; il n’est pas libre de juger autrement, et c’est là qui fait sa
force”».
Con il Modernismo si fece strada una nuova concezione della
storia, la quale ha capovolto la prospettiva di dom Guéranger, affermando che
sono le scienze umane, la storia e le sue discipline ausiliari, come la
filologia, l’archeologia, la sociologia, ad illuminare la fede e ad offrire una
migliore comprensione di essa. Mons. Louis Duchesne, maestro di Alfred Loisy
all’Institut Catholique, è stato l’iniziatore di un nuovo metodo che si è
progressivamente esteso all’esegesi e a tutte le discipline ecclesiastiche. «È
il cosiddetto metodo storico-critico, a cui oggi tutti si rifanno,
contrapponendolo al metodo apologetico tradizionale». Il professor de Mattei ha
proseguito spiegando che il metodo storico-critico, ovvero la ricerca accurata
delle fonti, il rigore filologico e la obiettività nell’accertamento dei fatti,
venne già utilizzato da Eusebio di Cesarea e ha avuto eccellenti rappresentanti
fino al barone Ludwig von Pastor, al Cardinale Hergenrother, all’eccellenza
degli Annali Ecclesiastici del Cardinale Baronio. «Oggi però, con questo
termine, si intende affermare una concezione secolarizzata della storia:
proprio quella che dom Guéranger criticava nella sua polemica con Albert de
Broglie e che san Pio X ha condannato nella Pascendi».
Lo storico cristiano deve manifestare la propria fede, deve
leggere i fatti alla luce di essa e dell’intervento della Divina Provvidenza
nelle falde della storia umana oppure deve scimmiottare gli scienziati
acattolici? Per essere veramente cristiano deve respingere l’approccio
naturalista che allontana la presenza del soprannaturale dalla storia e riduce
la realtà ad una pura dimensione fenomenica e sensibile. «Lo storico cattolico
non è colui che va a Messa la domenica e poi nella sua professione si adegua
alle regole imposte dalla corporazione universitaria. È invece colui che nella
sua opera cerca la verità dei fatti, e di questi fatti dà un’interpretazione
unitaria, alla luce della fede cattolica».
La perdita del senso soprannaturale fa smarrire la teologia
della storia cristiana, conducendo a derive protestantizzanti con conseguenze
disastrose, come è accaduto, per esempio, a Jacques Maritain, il quale fonda il
suo «“umanesimo integrale” su di un postulato storico radicalmente erroneo:
quello della irreversibilità del mondo moderno, nato dalla Rivoluzione
francese. Lo storico cattolico sa che nulla è irreversibile nella storia e
soprattutto che la storia non crea i valori, ma è sottomessa e giudicata da
essi. Il pensiero cattolico del Novecento ha fatto propria invece la concezione
hegeliana della storia come Weltgeist”, “il cammino razionale,
necessario dello spirito del mondo”. La storia si trasforma in un percorso
irreversibile, in cui il dato cronologico del novum coincide
con quello qualitativo del melius». L’idea immanentista provoca uno
sconcertante ribaltamento di superbia umana: la Chiesa non ha più un ruolo
guida, ma deve accompagnare e, dunque, adeguarsi, al cammino della storia. «È
questa la concezione della storia espressa dal cardinale Martini quando, nella
sua ultima intervista, ha affermato che la Chiesa “è indietro di 200 anni”,
ovvero l’arco di tempo che la separa dall’evento fondatore della Rivoluzione
francese». Ecco che l’essenza del Concilio Vaticano II sta nel tentativo di
conciliare la Chiesa con il mondo moderno nato proprio dalla Rivoluzione
francese; tentativo fallimentare «perché fondato su di un postulato erroneo,
smentito dalla stessa storia: la tesi della irreversibilità della modernità».
De Mattei, come d’altra parte nel suo libro Concilio
Vaticano II. Una storia mai scritta, formula un giudizio
storico sull’Assise nel suo insieme, a differenza del giudizio teologico di
Monsignor Brunero Gherardini che, in qualità proprio di teologo, separa i
documenti del Concilio dall’evento, considerandoli nella loro formulazione, «sicut
litterae sonant ed ognuno ha una diversa portata teologica e un
diverso grado di autorità e di cogenza. Se la grandezza del teologo sta nella
sua capacità di distinguere, il valore dello storico sta nella sua capacità di
ridurre ad unum, cioè di cogliere l’essenza, il momento unitario,
della molteplicità degli eventi nel loro fluire. La confusione dei due livelli,
quello storico e quello ermeneutico, sarebbe un grave errore di ordine
epistemologico.
Concordo con la scuola di Bologna, quando afferma che il
Concilio Vaticano II non può essere ridotto alle sue decisioni dottrinali, ma
la mia distinzione tra la dimensione fattuale e quella dottrinale del Concilio,
non ha nulla a che vedere con quella proposta da Giuseppe Alberigo nella sua
Storia del Concilio Vaticano II: Mentre io distinguo tra storia e teologia, e
affermo il primato della teologia sulla storia, Alberigo, sulla scia della
scuola di Le Saulchoir, assorbe la teologia nella storia e fa della storia
stessa un locus theologicus. Per lo storico bolognese, come per il
suo maestro Chenu, l’essenza della Chiesa si attua in forma storica e il
compito di individuare la mutevolezza delle forme spetta agli storici. L’atto
magisteriale è destinato ad essere storicizzato e relativizzato, all’interno di
un processo dialettico in cui l’ “evento” prevale sulla dottrina, lo “spirito”
sul documento. Lo “Spirito” non è la terza persona della Santissima Trinità, ma
una sua versione secolarizzata: è lo spirito del mondo, immanente alla storia.
Il principio di immanenza sostituisce quello di trascendenza, perché la
trascendenza impedisce all’uomo di vivere la propria fede all’interno del
mondo».
Il Concilio Vaticano II è stato presentato come una «nuova
Pentecoste» che ha sostituito la metafisica alle leggi della pastoralità e
dell’aggiornamento, divenute così fondanti da accantonare la dimensione
dottrinale e provocando delle aspettative psicologiche entusiastiche già nella
costituzione apostolica Humanae salutis (25 dicembre 1961),
con la quale Giovanni XXIII convocò il Concilio al fine di interpretare
«i segni dei tempi» (Mt. 16,3) e come rivelò nel discorso Gaudet Mater
Ecclesia dell’11 ottobre 1962, il Papa si oppose a quei «profeti di
sventura» che «annunziano sempre il peggio quasi incombesse la fine del mondo»
e fra le «“profezie di sventura” Papa Roncalli considerava il Terzo segreto di
Fatima, di cui, dopo averlo letto, vietò la diffusione giudicandolo certamente
inadatto a comprendere i segni dei tempi», tempi moderni nei quali venne
bandita la parola «inferno», un concetto che, nello spirito di «balzo in
avanti», appariva a teologi come Küng, Rahner, von Balthasar, Schillebeeckx una
rappresentazione nefasta, mitologica «o, pur ammettendone la realtà, lo
considerarono “vuoto”. La negazione o il ridimensionamento dell’inferno era
peraltro la conseguenza di una concezione implicita nella Gaudet Mater
Ecclesiae, secondo cui: “Quanto al tempo presente, la Sposa di Cristo
preferisce usare la medicina della misericordia invece di abbracciare le armi
del rigore”». La medicina si è dimostrata mortifera sia per la fede che per la
morale.
La pianificazione di carattere strettamente umano e non
soprannaturale che è stata compiuta durante il Concilio Vaticano II ha prodotto
cattivi frutti anche a causa di ciò che è stato volutamente omesso: Jean
Madiran fu il primo a portare alla luce, sulla rivista «Itinéraires» del
febbraio 1963, l’esistenza di un accordo segreto, avvenuto a Metz, nell’agosto
1962, tra il Cardinale Tisserant, rappresentante del Vaticano e il nuovo
Arcivescovo ortodosso di Yaroslav, Monsignor Nikodim, i quali decisero che
durante il Vaticano II non si sarebbe parlato del tema principe di quegli anni:
il Comunismo. E l’Ostpolitik venne a patti proprio con le autorità
sovietiche. De Mattei ha ricordato, a questo proposito, la bella figura del
Cardinale Alois Stepinac che, anche nelle ore più buie della sua prigionia e
del suo isolamento, non dubitò mai del crollo del Comunismo. Scrisse: «Io
probabilmente non vedrò la caduta del comunismo nel mondo, a motivo della mia
salute scossa, ma sono assolutamente certo di questa caduta. Tutto ciò che
viene costruito contro la natura che Dio ha creato e istituito, deve crollare
per intrinseca necessità. Anche qui si potrebbe dire ciò che Gesù dice nel
Vangelo: “Ogni piantagione che non ha piantato il Padre mio celeste, sarà
sradicata”. Poiché il comunismo nega Dio e lo espone al ridicolo, è ben certo
che non lo ha piantato Dio, ma satana. E satana ha perduto la battaglia sul
Calvario, e perciò sono sicuro che la perderà anche sul Calvario del Corpo
mistico di Cristo, che è la Chiesa, la quale oggi sale sul suo Golgota». Ha
domandato lo storico italiano a Versailles: «Ma oggi dobbiamo chiederci: erano
profeti coloro che ritenevano, come gli artefici dell’Ostpolitik, che occorreva
trovare un compromesso con la Russia sovietica, perché il comunismo
interpretava le ansie di giustizia dell’umanità e avrebbe portato a compimento
il progetto della modernità; o era profeta il Beato Stepinac e tutti coloro che
in Concilio denunciavano l’oppressione brutale del comunismo reclamando una sua
solenne condanna? La caduta del Muro di Berlino è la risposta a questa domanda.
Condivido il giudizio di Plinio Corrêa de Oliveira sulla
mancata condanna del comunismo: “È’ duro dirlo. Ma l’evidenza dei fatti indica,
in questo senso, il Concilio Vaticano II come una delle maggiori calamità, se
non la maggiore della storia della Chiesa”».
Propizio il paragone che ha poi fatto fra il paganesimo del
IV secolo e quello di oggi: «A Ponte Milvio Costantino aveva sconfitto, in nome
della Croce, il paganesimo morente. A Roma, il Concilio Vaticano II abbraccia
il neo-paganesimo del XX secolo, senza rendersi conto che è anch’esso morente.
Sotto questo aspetto il Concilio Vaticano II può essere definito come il ralliement della
Chiesa a quel mondo moderno che il suo Magistero aveva sempre condannato».
Il 12 ottobre 1963, Monsignor Franić, vescovo croato di
Spalato, suggerì ai Padri conciliari che, nello schema De Ecclesia,
al nuovo titolo di Chiesa «pellegrinante» fosse aggiunta la denominazione
tradizionale di «militante», ma la sua proposta fu rifiutata. «L’immagine che
la Chiesa avrebbe dovuto offrire di sé al mondo non era quella della lotta,
della condanna o della controversia, ma del dialogo, della pace, della
collaborazione ecumenica e fraterna con tutti gli uomini. La minoranza
progressista ottenne non tanto un cambiamento della dottrina della Chiesa,
quanto una sostituzione dell’immagine gerarchica e militante della Sposa di
Cristo con l’immagine di un’assemblea democratica, dialogante e immersa nella
Storia».
La Chiesa, dopo il Concilio Vaticano II, ha rinunciato alla
sua dimensione militante, così alla «teologia agostiniana e ignaziana delle due
città, che si combattono nella storia, quella di Dio e quella di Satana, è
succeduta una teologia vittimista e catacombale, per la quale si deve cessare
di difendere le verità in cui si crede: ma cessando di combattere per queste
verità, si cessa di credere in esse, si cessa di amarle, perché chi ama
combatte per difendere ciò in cui crede. In realtà la Chiesa che soffre in
purgatorio e trionfa in Paradiso, combatte in nome di Cristo sulla terra e
perciò è chiamata “militante”. Il ritrovamento di questo spirito mi sembra essere
una delle urgenze della Chiesa del nostro tempo». Tuttavia il combattente
cattolico continua ad esistere perché la Chiesa militante non può essere
soffocata: è la verità che avanza coraggiosamente di fronte alle menzogne che
arretrano miseramente, nonostante l’apparente successo di numeri. «La gioia
nella lotta caratterizza il combattente cattolico del XXI secolo, un
combattente che guarda al futuro senza dimenticare il passato; che nei momenti
di difficoltà ricorre al Magistero vivente della Tradizione; quella Tradizione
che oggi illumina i nostri passi, come illuminò i passi di Atanasio l’invitto
campione della fede durante la terribile crisi ariana del IV secolo. Atanasio
era mosso soprattutto dal suo sensus fidei che, come ci
ricorda il beato Newman, durante i settant’anni della crisi ariana fu mantenuto
dai semplici fedeli più che dai vescovi i quali, tranne poche eccezioni, quali
Atanasio, Ilario di Poitiers, Eusebio di Vercelli, non testimoniarono la fede
ortodossa».
Roberto de Mattei ha chiuso la sua conferenza auspicando
l’intervento di protettori della Tradizione come sant’Atanasio e come santa
Teresa d’Avila, la quale affermava che avrebbe affrontato mille morti per la
più piccola cerimonia della Chiesa. Il suo insegnamento possa, quindi, essere
di sprone per coloro che non si arrendono e sanno che tutto ciò che non è di
Dio è destinato a perire, proprio come la santa dichiarava: «Nulla ti turbi,
nulla ti spaventi. Chi ha Dio di nulla manca. Tutto passa, solo Dio non muta».
La Tradizione è ciò che non passa, è ciò che del passato vive nel presente, ciò
che deve vivere perché il presente abbia un futuro e «noi siamo convinti che
nel nostro futuro sia scritta, grazie all’intervento di Dio, la restaurazione
della Chiesa e della Civiltà cristiana. La nostra presenza, la nostra voce, la
nostra testimonianza ne è la prova».
resoconto di Cristina Siccardi
(prima parte) (continua)
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