ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

giovedì 21 marzo 2013

Chiesa e civiltà (in illo tempore..)

L’impero della Chiesa
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Nella festa di San Giuseppe, patrono della Chiesa Universale, segnaliamo uno scritto di mons. Umberto Benigni (già pubblicato dal nostro centro studi il 27/2/2005), tratto dall’introduzione generale alla monumentale Storia Sociale della Chiesa. Si tratta di un inno al più autentico cattolicesimo romano, in questi giorni in cui la Chiesa è umiliata dal modernismo e dalla demagogia pauperista di Jorge M. Bergoglio.
L’impero della Chiesa
La Chiesa e la civiltà hanno, senza dubbio, un loro elemento proprio, indifferente all’altra: la questione dommatica se lo Spirito Santo proceda da o per il Figlio, è estranea alla civiltà; lo stabilimento del telefono internazionale è estraneo alla Chiesa. Ciò avviene perchè in questa avvi un elemento dommatico, assoluto e trascendente; e nella civiltà entra un elemento semplicemente tecnico.

Peraltro tutto ciò non toglie nè diminuisce affatto il grande principio: la vera religione è la base ed il presidio della vera civiltà, perchè la vera religione è la vera moralità senza di cui la civiltà non può essere che parziale e materiale, quindi manchevole nel più e nel meglio della vita sociale.
La civiltà vera e perfetta risulta da un insieme organico di principii e di fatti morali e materiali: insieme oltremodo complesso e molteplice, che va dal retto funzionamento dell’autorità politica e domestica sino alla rete delle pubbliche comunicazioni ed al buon servizio della nettezza urbana. Ma quanto varrebbe per meritare il titolo di civile ad un popolo, che in esso l’igiene e l’agiatezza raggiungessero la perfezione esistente nel palazzo di un miliardario nord-americano, se in quel popolo mancasse la moralità; sicchè le sue istituzioni, leggi ed usanze fossero immorali od anche amorali, cioè facessero o lasciassero trionfare l’immoralità? Un tal popolo darebbe lo spettacolo di una di quelle stalle signorili, dove ammiransi la pulizia, la comodità, il lusso in cui vivono eleganti e costose bestie da tiro e da corsa.
Dunque la parte più nobile della civiltà, che è la vita morale dei popoli e degli individui, perchè sia logica e stabile, deve fondarsi su di un principio superiore al devenire ed al volere umano, alla vece assidua di partiti e di sistemi che si succedono al governo di una società civile. E ciò solo può darlo la religione la di cui moralità parte direttamente da Dio, verità e giustizia assoluta, immanente, immutabile, a cui ogni uomo, ogni popolo, ogni tempo debbono inchinarsi e sottostare.
Il naturale sentimento dei popoli fu sempre concorde nel riconoscere questa verità fondamentale della civiltà; onde l’età antichissima, l’antica, la media lo riconobbero solennemente e stabilmente lo praticarono; e la stessa età moderna, che ha voluto eliminare la religione come una base dal suo sistema sociale, e così spesso la combatte, pure non può esimersi di fatto da tutta la tradizione e da tutta la coscienza umana; onde ancor oggi i sovrani trovano indispensabile di fondare il loro principio di autorità non solo sulla volontà — spesso cotanto ondulatoria e sussultoria — delle nazioni, ma anche, e prima, sulla grazia di Dio.
Ecco perchè la religione è l’anima della civiltà, e tutto il resto non è che il corpo. E se questo vale in genere per la religione, tanto più vale per il cristianesimo e per la sua storica organizzazione, la Chiesa.
La Chiesa — in uno spazio che dura almeno, da Costantino alla rivoluzione francese, quindici secoli — è stata ufficialmente e realmente la madre, la nutrice, la tutrice della civiltà europea, cioè della più alta civiltà umana.
Ed oggi, dopo più di un secolo di fiera lotta mossa dal paganesimo (già morto e sepolto in una sua forma storica, nè morto nè sepolto nella sua essenza) dell’ultima forma, il “laicismo”, — oggi, nonostante la crisi anticristiana della nostra società, l’anima del cristianesimo (giova ripeterlo) sopravvive indomita in cento criterii, in cento fatti sociali, e non solo nelle formole ufficiali cui or ora accennavamo.
Oggi, la grande lotta sta, appunto, tra il principio cristiano ed il pagano che dividono le menti e i cuori, ed agitano i consigli dei politici, gli studi dei filosofi, le tendenze delle folle. A noi cattolici sta dinanzi il radioso programma così opportunamente rievocato da Pio X: restaurare tutto in Cristo, tutta quanta la società, tutta quanta la civiltà. Questo significa la ripresa efficace dell’antica intuizione cristiana, che fece dire genialmente al vetusto autore della lettera a Diogneto: “quel che nel corpo è l’anima, lo sono nel mondo i cristiani”; significa la speranza di rialzare nella pienezza della verità il grido trionfale: Cristo vince, Cristo regna, Cristo impera. Ciò vuol dire che la vita sociale della Chiesa deve tornare ad essere il fondamento morale della società, il criterio fondamentale della civiltà.
Ad ottenere questa restaurazione cristiana, senza dubbio è indispensabile una duplice restaurazione: — della vita religiosa presso i fedeli, il che costituisce la vita interna e spirituale, il regno della Chiesa — e dell’influenza sociale della Chiesa stessa, il che forma la sua vita esterna, sociale propriamente detta, il suo impero.
Oggi che tanto si parla e si fa dell’imperialismo, è bene intendersi sulla questione che le parole “regno” ed “impero” della Chiesa ci sembrano esprimere esattamente.
Già da tempo si è usata l’espressione “impero della Chiesa” od “impero di Cristo”; ma in senso affatto relativo con cui si è inteso dire che Cristo e la Chiesa sua regnano su varie genti, sparse per tutto il mondo.
Ma il senso proprio d’impero indica il dominio (comando: imperium) su “altre genti”, non il totale dei “cittadini” per quanto sparsi nel mondo, che insieme forma la civitas, e quando questa civitas è monarchica come nella Chiesa cattolica, forma il regno. I cinesi cattolici, gli esquimesi cattolici, gli zulù cattolici non formano, a ver dire, l’impero della Chiesa, ma solo fan parte del suo regno, nè più e nè meno dei latini, dei germani, degli anglo-sassoni cattolici: imperocchè le genti più strane dell’etnologia non sono differenziate da altre nel regno della Chiesa. In una parola i cattolici, qualsiansi, formano la “città”, il “regno”, della Chiesa.
L’ “impero” di lei deve perciò riguardare i non cattolici, e la società e civiltà in genere; come l’imperium della Roma classica era costituito dai non romani.
L’impero della Roma cristiana, della Roma cattolica e papale, si è esplicato e si esplica in tutta la irradiazione della sua vita esterna. La sua forza e il suo prestigio intellettuale e morale, la sua influenza diretta e indiretta nel mondo, il suo peso che preme, vogliano o no, nella bilancia de’ suoi stessi nemici: ecco, propriamente, l’impero della Chiesa.
Tale impero rimonta sin dall’inizio del trionfo costantiniano. I vescovi dell’impero bizantino che peroravano presso il governo per l’alleviamento delle insopportabili tasse, e scongiuravano od almeno condannavano la vendetta imperiale sugl’insorti d’Antiochia e di Tessalonica (IV sec), – Il Crisostomo che, mentre l’imbelle Bisanzio tremava di fronte alle minaccie del goto Gainas, andava incontro come un Attilio Regolo cristiano, al barbaro alla cui ira egli aveva dato occasione (fine del IV sec:9, – i feroci soldati di Alarico, che padroni e predoni di Roma, terrorizzati dalla maestà apostolica, riportano processionalmente a San Pietro i suoi tesori (410) – Agostino d’Ippona, l’ultimo patriota dell’Africa romana, il quale alza la voce verso il vendicativo Bonifacio affinchè perdoni la corte e difenda l’Africa invasa dai barbari (429), – Leone Magno che ferma Attila al Mincio (452), – ecco già fondato l’impero dell Chiesa, ed ancora non è caduto l’impero fondato da Augusto.
E quando, nella rovina finale di questo (476), l’Occidente civile corse il pericolo supremo di naufragare nella tempesta barbarica, l’impero della Chiesa si stabilì e si estese fino ad una vera egemonia politica. Nell’anarchico periodo barbarico-bizantino che corse tra Augustolo (476) e Carlomagno (800), una grande figura veramente imperiale dominò il suo tempo: Gregorio Magno, l’ “ultimo romano”, come fu, a buon diritto, chiamato. Egli è l’imperatore della civiltà: dai continui insistenti reclami a Bisanzio e presso la corte longobarda per la difesa della misera Italia, alla civilizzazione cristiana della lontana Inghilterra e de’ nuovi suoi conquistatori, dal salvataggio del jus e del mos nel cozzo della falsa civiltà bizantina e della barbarie germanica, a quello delle lettere e delle arti, egli nel pauroso diluvio sconfinato appare il provvidenziale Noè che nell’arca della Chiesa slva la civiltà romana.
Che dire, poi, di tutto l’alto medioevo, quando il papa, il vescovo, l’abate, ampliando la tradizione civile di Leone e di Gregorio, salvano dapprima la civiltà; poi la impongono ai barbari, e con questi formano la nuova Europa, la civiltà nuova che giunge ad insperate altezze in tutte forme della vita sociale?
Attraverso gli annali della Chiesa che imprendiamo a scrutare, noi vedremo chiaramente, insistentemente, dominare una legge storica per cui i successi e i disastri dell’impero della Chiesa segnano i successi e i disastri del suo regno; cioè la sua maggiore o minore vitalità esterna va di pari passo con quella interna: e ciò è naturale, perchè una è la forza che agisce dentro e fuori, ed una è l’umanità in cui si esplica.
I tempi moderni ce ne danno una conferma altamente suggestiva. La decadenza estrema dell’influenza “imperiale” della Chiesa nel secolo XVIII (quando l’Europa si rimaneggiava, la Polonia andava a pezzi, i centri politici spostavansi, e Roma non vi aveva più braccio, non più voce; onde Clemente XIV doveva subire i ministri massoni nelle corti borboniche, e Giuseppe II tentava impunemente l’ultimo avvilimento della Chiesa e del papato), preludeva allo sfacelo spirituale che incombeva nell’imminente rivoluzione francese; mentre il risorgere della vita religiosa del cattolicesimo sotto Pio IX e Leone XIII venne segnato dalla ripresa dell’azione “imperiale”, nel ritorno alla tradizione guelfa e del “papa e popolo”, nell’interessamento del romano pontificato per il movimento d’idee e di fatti.
Da tali solenni lezioni della storia, una pratica conseguenza s’impone indiscutibile: per assecondare, rafforzare e diffondere la restaurazione religiosa, spirituale, della società, cioè il regno della Chiesa, bisogna rafforzare e diffondere la sua azione esterna, la sua vita sociale, il suo impero. Il che è quanto dire: bisogna così infondere coraggio ai nostri, e rispetto ai nemici, nel terreno comune della vita sociale; bisogna che i cattolici, clero e popolo, non si lascino sorpassare, nel loro complesso, dal complesso degli avversarii nelle manifestazioni multiformi della civiltà, dalle scienze astratte alle amministrazioni locali.
È necessario che ci facciamo forti anche al di là dei muri dei nostri templi, se vogliamo che questi siano sicuri e rispettati; — che il clero sia stimato anche come dotto, pratico, diligente, civile, se vogliamo più libero ed efficace il suo ministero religioso; — che, sotto la nuova forma dei tempi nuovi, si torni a convincere i nostri avversari come, nella vita sociale, senza di noi cristiani essi valgano a far ben poco, e contro di noi anche meno. La restaurazione di questo “impero” sociale è una necessità pratica per restaurare il regno spirituale della religione: tale “impero” — come una corazza ed una corona, difesa e gloria degli antichi eroi — deve cingere il corpo mistico di Cristo, la sua Chiesa.
Tale è l’insegnamento che ci dà la storia ecclesiastica, doppiamente “maestra della vita”, perchè storia, e perchè della Chiesa.
(Da: Storia Sociale della Chiesa, vol. I, La preparazione. Dagli inizi a Costantino, Casa Editrice Vallardi, Milano 1906, pagg. XIII-XVIII)

Centro studi Giuseppe Federici – Per una nuova insorgenza 
Comunicato n. 30/13 del 19 marzo 2013, San Giuseppe
_______________http://federiciblog.altervista.org/2013/03/20/limpero-della-chiesa/

L'ultima incoronazione

~ LA PIÙ SOLENNE CERIMONIA DELLA CHIESA DI ROMA
NEL RACCONTO DI TADEUSZ BREZA ~

«Vivo un papa, se ne fa un altro»: c’è chi, deformando un proverbio, prova a mettere in evidenza il carattere enigmatico degli avvenimenti cui assistiamo in questi giorni. Distante anni luce dalla cerimonia odierna, «senza forza né splendore, sciatta e un po’ piagnucolosa», come scrive Pietro De Marco in un eccellente commento sull’edizione fiorentina del «Corriere della Sera» (nei prossimi giorni lo troverete online sul «Covile» n. 744), quella che qui rievoca Tadeusz Breza (1905-1970), scrittore polacco e direttore dell’Istituto polacco a Roma negli anni pacelliani, era il trionfo della forma. Seguiva la morte di Pio XII e per l’ultima volta si chiamò rito dell’incoronazione. Dopo il Concilio, pagine come queste potrebbero suscitare brividi di orrore negli animi semplici che se la prendono con la mondanità, con la sua appariscenza, piuttosto che con il mondo. La lotta cristiana al mondo, del resto, si presenta ben più complicata.
Scriveva dunque Breza, rappresentante diplomatico di un paese a quei tempi comunista, nel suo diario che si permette qualche accenno polemico e politico:

«Roma, 3 novembre ‘58
L’incoronazione del papa è fissata per domani. F. dice che il Sacro Collegio dei Maestri delle Cerimonie Apostoliche al completo ha supplicato un piccolo rinvio, non sentendosi la forza di allestire nello spazio di una sola settimana una cerimonia di quella mole, la più solenne di quante la Chiesa conosca. Ma Giovanni XXIII si è impuntato: vuole lasciarsi quanto prima alle spalle questo periodo di transizione, questa specie di tappa che si conclude soltanto con l’incoronazione. Per la curia essa rappresenta uno sforzo inumano, sia dal lato liturgico che da quello cerimoniale, a causa dell’enorme afflusso a Roma di delegazioni e di personalità, tra cui molte ex-teste coronate e pretendenti al trono che vengono a rendere omaggio al nuovo papa.

Le cose sarebbero un po’ più semplici per quel che riguarda i patriarchi, i vescovi e i metropoliti giunti a Roma, se non fosse per il loro numero che è enorme. Bisogna dividerli tutti gerarchicamente, assegnando a ciascuno il suo posto preciso nella Basilica e nel corteo, poiché si tratta di un mondo terribilmente suscettibile in fatto di prestigio. Basta un piccolo sbaglio, ed ecco crearsi dei rancori che si trascinano per anni e anni. [...]

Roma, 5 novembre ‘58
Una cerimonia fantastica! Ci alziamo alle cinque del mattino per essere in S. Pietro il più presto possibile: abbiamo dei biglietti per una tribuna piuttosto buona ma siccome i posti non sono numerati, chi arriva prima si prende i migliori, vicino alla ringhiera. Entriamo dall’Arco delle Campane con in mano il nostro permesso personale per assistere alla Coronazione. Il servizio d’ordine è perfetto. C’è un’infinità di Svizzeri, di Guardie e di Gendarmi, e noi passiamo in continuazione dagli uni agli altri. Sono appunto le sei e mezzo, ma tutte le piazze, piazzette, stradine e passaggi dietro alla Basilica sono già gremiti di macchine. Ne scendono magnifici prelati, signori dalle uniformi e dai frac costellati di decorazioni, e signore dalle toilettes con velo cosparse di brillanti. Corrono tutti come matti, incalzati dai ciambellani e dai monsignori del cerimoniale, che in questo momento badano più al fatto che non si creino ingorghi che al protocollo.

La cerimonia comincia con una messa, intercalata dall’omaggio reso al nuovo papa dai cardinali e dai canonici di S. Pietro; poi viene l’incoronazione e infine il corteo e la solenne benedizione dalla loggia esterna alla folla accalcata nella piazza. L’intera cerimonia dura cinque ore, ed è qualcosa di assolutamente unico nel suo genere: una solennità grandiosa, travolgente. Ne usciamo intontiti, accecati e assordati dai torrenti di luci, di suoni e di colori. Migliaia di luci, fanfare, inni: le pareti della basilica sono parate di chilometri di stoffa purpurea, resa cangiante dai galloni dorati; cortei sempre più straordinari avanzano nei loro costumi multicolori. Ogni particolare ha un suo preciso significato liturgico molto antico e, la maggior parte delle volte, estremamente complesso. Ad illustrarcelo è un monsignore con il quale Zosia e io abbiamo attaccato discorso, e che ci spiega volta per volta questa o quella finezza. Ma il frastuono delle trombe e dei brani di musica sinfonica, ora di Palestrina ora di Gounod, il quale tra l’altro è l’autore dell’inno dello stato vaticano dalla melodia vagamente operistica, ci impedisce di afferrare il significato mistico degli avvenimenti che si stanno svolgendo sotto i nostri occhi. Penso però che anche se mi riuscisse seguire tutte le spiegazioni, e anche se non mi sentissi frastornato dalla stanchezza, la proporzione tra l’ammirazione che provo per la forma e l’indifferenza che sento per il contenuto non ne uscirebbe affatto alterata. Non perché il contenuto mi sia estraneo: a Roma si impara ad ammirare ogni specie di antichità, non soltanto quella etrusca e latina. Se parlo di indifferenza, quindi, è solo perché qui la forma sovrasta imperiosamente il contenuto. Una forma travolgente, splendida, prepotente. Zosia, sempre più controllata, spalanca tanto d’occhi: le torna in mente una frase di Emerson, che ripete sottovoce: “La religione di un’epoca è la poesia di un’altra”.

Ma subito tace, perché in quello stesso momento da dietro l’altar maggiore spunta il corteo culminante della cerimonia, che si dirige verso la porta della Basilica. La folla non capisce più nulla: urla, batte le mani. Il papa la benedice dall’alto della sedia gestatoria, portata a spalla dai bussolanti in tunica rossa. Il corteo avanza lento, splendente, cangiante. Sfilano gli ordini, i capitoli, i cardinali, i grandi Maestri degli ordini cavallereschi, i dignitari vaticani dal costume diverso a seconda dell’epoca in cui fu creata la loro carica. Poi per mezz’ora sotto i nostri occhi sfila un interminabile fiume di mitre. Alcuni la portano in testa: sono i vescovi assistenti al Soglio, altri invece la portano in mano stretta contro il petto: sono quelli privi del titolo di assistenti al Soglio.
Ma portate in mano o sulla testa, di mitre ce ne sono non so più di quante specie diverse. Il monsignore ci indica quale mitra è preziosa, quale aurifregiata, e quale semplice, spiegandoci chi, quando e in quali circostanze vi abbia diritto. Poi, toccando le infule col dito, tanto ci passano vicino, ci inizia ai misteri della forma di questi solenni copricapo vescovili che, secondo le parole della formula consacrativa, devono servire ai vescovi, veri soldati, “da elmo protettivo… in modo che chi se ne adorna e la testa che se ne riveste appaiano terribili ai nemici della verità”. Terribile, a dire il vero, non ce ne sembra nessuna: alcuna hanno una forma insolita, e sono le mitre dei metropoliti e dei patriarchi di riti diversi da quello romano, come il rito melchita, copto, maronita, caldeo o armeno.

Anche il fiume di mitre finisce, al pari delle altre sezioni del corteo, composto prima dei porporati, dei cavalieri e dei dignitari, poi dei delegati ufficiali di sessanta stati e governi che hanno inviato delegazioni ufficiali per la cerimonia, e infine di altre due sezioni, le ultime ormai, scortate dai monsignori del cerimoniale e dagli ufficiali della Guardia Palatina. Quando è apparsa la prima di queste sezioni ho provato una sensazione strana. Fino a quel momento i membri del corteo erano persone vive, semplicemente rivestiti di costumi storici per l’occasione; ma questa nuova ondata di personaggi vestiti in abiti normali, di foggia odierna, sembrava una processione di fantasmi sbucati fuori da qualche ripostiglio: si sarebbe detto il finale di La Pazza di Chaillot. Per prima avanzava l’imperatrice austro-ungarica Zita, detronizzata quarant’anni fa. Poi nell’ordine secondo il quale furono spodestati, Ruprecht di Baviera, Federico di Sassonia, Giovanna di Bulgaria e altri ancora. Dopo di loro venivano i pretendenti al trono, seguiti dalle loro famiglie.

Il nostro monsignore ne riconosceva solo uno ogni tanto. Volta per volta lo sentivamo ripetere: Aosta, Asburgo, Borbone, Bonaparte, Braganza, Coburgo-Gotha, Savoia, e una volta persino Hohenzollern. Dopo questa sezione storica ne è sfilata un’altra, particolarmente curata dal protocollo vaticano, e composta di soli uomini: altri frac, altre decorazioni. Si trattava delle delegazioni ufficiali inviate a Roma dai grandi organismi internazionali come l’Onu e le varie derivazioni, e dai grandi enti europei: Mercato Comune d’Europa, Consiglio d’Europa, Comunità del Carbone e dell’Acciaio e Pool Atomico europeo.

Usciamo. Sulla piazza della Basilica ci troviamo circondati da ogni parte da un mare di gente. Alla luce del sole i colori delle divise e dei paramenti sacri si accendono, facendosi ancora più vividi. Una parte del corteo con il papa e i cardinali si reca nella Sala delle benedizioni, mentre il resto, tra cui anche il fiume di mitre, di cavalieri di Malta, di signori decorati e di Svizzeri in elmo e corazza scintillante, si schiera sulla scalinata monumentale della Basilica. Passa un altro quarto d’ora: adesso si ha veramente l’impressione di assistere a una colossale scena di massa di un’opera lirica, a un tutti di proporzioni gigantesche» (da Il portone di bronzo, Feltrinelli, 1962, pp.429-430; 432-434).

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