ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

giovedì 7 marzo 2013

Deus avertat obaminides!

Un americano a Roma, verso la cattedra di Pietro
Forse l'arcivescovo di New York. Oppure quello di Boston. Nel solco di Benedetto XVI, con in più la frusta contro il malgoverno. Ma la curia resiste e contrattacca, spingendo avanti un cardinale brasiliano di sua fiducia

di Sandro Magister
ROMA, 7 marzo 2013 – La scommessa più facile è che il prossimo papa non sarà italiano. Ma nemmeno europeo, africano, asiatico. Per la prima volta nella bimillenaria storia della Chiesa il successore di Pietro potrebbe venire dalle Americhe. O a voler azzardare una previsione più mirata: dalla Grande Mela.

Timothy Michael Dolan, arcivescovo di New York, 63 anni, è un omone del Midwest dal sorriso radioso e dal vigore straripante, proprio quel "vigore sia del corpo che dell'animo" che Joseph Ratzinger ha riconosciuto di aver perduto e ha definito necessario per il suo successore, al fine di bene "governare la barca di Pietro e annunciare il Vangelo".

Nell'atto di rinuncia di Benedetto XVI c'era già il titolo del programma del futuro papa. E a molti cardinali tornò presto in mente la vivacità visionaria con cui Dolan sviluppò proprio questo tema, col suo italiano "primordiale", parola sua, ma spumeggiante, nel concistoro di un anno fa, quando egli stesso, l'arcivescovo di New York, si apprestava a ricevere la porpora:

> L'annuncio del Vangelo oggi


Fu un concistoro molto criticato, quello del febbraio 2012. Da settimane, documenti scottanti prendevano il volo dalle stanze vaticane e persino dalla riservatissima scrivania del papa per rovesciare in pubblico avidità, contrasti, malefatte di una curia alla deriva.

Eppure, tra i nuovi cardinali creati da Benedetto XVI, un buon numero erano italiani, erano di curia e, peggio, erano legati a filo doppio al segretario di Stato, Tarcisio Bertone, universalmente ritenuto il principale colpevole del malgoverno.

Papa Joseph Ratzinger aggiustò il tiro qualche tempo dopo, in novembre, con altre sei nomine cardinalizie tutte extraeuropee, compresa quella dell'astro nascente della Chiesa d'Asia, il filippino con madre cinese Luis Antonio Gokim Tagle.

Ma la frattura rimaneva intatta. Da una parte i feudatari di curia, in strenua difesa dei rispettivi centri di potere. Dall'altra l'ecumene di una Chiesa che non tollera più che l'annuncio del Vangelo nel mondo e il luminoso magistero di papa Benedetto siano oscurati dalle tristi narrazioni della Babilonia romana. 

È la stessa frattura che caratterizza l'imminente conclave. Dolan è il candidato tipo che rappresenta la svolta purificatrice. Non l'unico ma certamente il più rappresentativo e audace.

Sul fronte avverso, però, i magnati di curia fanno muro e contrattaccano. Non spingono avanti qualcuno di loro, sanno che così la partita sarebbe persa in partenza. Fiutano l'aria che tira nel collegio cardinalizio e puntano anch'essi lontano da Roma, al di là dell'Atlantico, non al nord ma al sud dell'America.

Guardano a San Paolo del Brasile, dove c'è un cardinale nato da emigrati tedeschi, Odilo Pedro Scherer, 64 anni, che in curia conoscono bene, che è stato per anni a Roma a servizio del cardinale Giovanni Battista Re, quando questi era prefetto della congregazione per i vescovi, e che oggi fa parte del consiglio cardinalizio di vigilanza sullo IOR, la "banca" vaticana, riconfermato pochi giorni fa, con Bertone suo presidente.

Scherer è il candidato perfetto di questa manovra tutta romana e curiale. Non importa che in Brasile non sia popolare, nemmeno tra i vescovi, che chiamati ad eleggere il presidente della loro conferenza, due anni fa, lo bocciarono senza appello. Né che non brilli come arcivescovo della grande San Paolo, capitale economica del paese.

L'importante, per i magnati curiali, è che sia docile e grigio. L'aureola progressista che ammanta la sua candidatura è di derivazione puramente geografica, ma giova anch'essa per accendere in qualche ingenuo porporato il vanto di eleggere il "primo papa latinoamericano".

Come nel conclave del 2005 i voti dei curiali e dei sostenitori del cardinale Carlo Maria Martini si riversarono assieme sull'argentino Jorge Bergoglio, nel tentativo fallito di bloccare l'elezione di Ratzinger, anche questa volta potrebbe avvenire un analogo connubio. Curiali e progressisti uniti sul nome di Scherer, con quel pochissimo che resta degli ex martiniani, da Roger Mahony a Godfried Danneels, entrambi oggi sotto tiro per la cedevole loro condotta nello scandalo dei preti pedofili.

Il papa che piace ai curiali e ai progressisti è per definizione debole. Piace ai primi perché li lascia fare. E ai secondi perché dà spazio al loro sogno di una Chiesa "democratica", governata "dal basso".

Non deve stupire che un esponente di grido del cattolicesimo progressista mondiale, lo storico Alberto Melloni, abbia auspicato sul "Corriere della Sera" del 25 febbraio che dal prossimo conclave esca non un "papa sceriffo" ma "un papa pastore", abbia deriso il cardinale Dolan e abbia indicato proprio in quattro magnati di curia i cardinali a suo giudizio più "capaci di comprendere la realtà" e di determinare "l'esito effettivo del conclave": gli italiani Giovanni Battista Re, Giuseppe Bertello, Ferdinando Filoni "e ovviamente Tarcisio Bertone".

Cioè esattamente quelli che stanno orchestrando l'operazione Scherer. Ai quattro andrebbe aggiunto l'argentino di curia Leonardo Sandri, del quale si fa correre voce che sarà il futuro segretario di Stato.

Per una curia siffatta, la sola ipotesi dell'elezione di Dolan è foriera di terrore. Ma Dolan papa imprimerebbe una scossa anche a quella Chiesa fatta di vescovi, di preti, di fedeli che non hanno mai accettato il magistero di Benedetto XVI, il suo ritorno energico agli articoli del "Credo", ai fondamentali della fede cristiana, al senso del mistero nella liturgia.

Dolan è, nella dottrina, un ratzingeriano a tutto tondo, con in più la dote del grande comunicatore. Ma lo è anche nella visione dell'uomo e del mondo. E nel ruolo pubblico che la Chiesa è chiamata a svolgere nella società.

Negli Stati Uniti è alla testa di quella squadra di vescovi "affermativi" che hanno segnato la rinascita della Chiesa cattolica dopo decenni di soggezione alle culture dominanti e di cedimenti al dilagare degli scandali.

In Europa e nel Nordamerica, cioè nelle regioni di più antica ma declinante cristianità, non esiste oggi una Chiesa più vitale e in ripresa di quella degli Stati Uniti. E anche più libera e critica rispetto ai poteri mondani. È svanito il tabù di una Chiesa cattolica americana che si identifica con la prima superpotenza mondiale, e quindi non potrà mai esprimere un papa.

Anzi, ciò che stupisce di questo conclave è che gli Stati Uniti offrono non uno, ma addirittura due "papabili" veri. Perché oltre a Dolan c'è l'arcivescovo di Boston, Sean Patrick O'Malley, 69 anni, con barba e saio da bravo frate cappuccino.

Il suo appartenere all'umile ordine di san Francesco non è d'ostacolo al papato né è senza precedenti illustri, perché anche il grande Giulio II, il papa di Michelangelo e di Raffaello, era francescano.

Ma ciò che più conta è che Dolan e O'Malley non sono due candidati tra loro contrapposti. I voti dell'uno possono convergere sull'altro, se necessario, perché sono entrambi portatori di un unico disegno.

Rispetto a Dolan, O'Malley ha un profilo meno risoluto per quanto riguarda le capacità di governo. E ciò potrebbe renderlo più accettabile ad alcuni cardinali, consentendo a lui di varcare quella soglia decisiva dei due terzi dei voti, 77 su 115, che potrebbe essere invece preclusa al più energico, e quindi molto più temuto, arcivescovo di New York.

Lo stesso ragionamento si potrebbe applicare a un terzo candidato, il cardinale canadese Marc Ouellet, anche lui di salda matrice ratzingeriana e ricco di talenti simili a quelli di Dolan e O'Malley, ma ancor più incerto e timido di quest'ultimo nelle decisioni operative. In un conclave che sul riordino del governo della Chiesa punta molte sue aspettative, la candidatura di Ouellet, pur presa in considerazione dai cardinali elettori, appare la più debole fra le tre nordamericane.

Col suo guardare da Roma al di là dell'Atlantico, l'imminente conclave prende atto della nuova geografia della Chiesa.

Il cardinale Ouellet è stato da giovane missionario in Colombia. Il cardinale O'Malley parla alla perfezione spagnolo e portoghese e ha sempre avuto come sua attività preminente la cura pastorale degli immigrati ispanici. Il cardinale Dolan è il capo dei vescovi di un paese che ha raggiunto le Filippine al terzo posto nel mondo per numero di cattolici, dopo Brasile e Messico. E sono "latinos" un terzo dei fedeli degli Stati Uniti, anzi, già la metà tra quelli sotto i 40 anni.

Non sorprende che i cardinali dell'America latina siano pronti a votare questi loro confratelli del nord. E con loro altri porporati di peso come l'italiano Angelo Scola, l'arcivescovo di Parigi André Vingt-Trois, l'australiano George Pell.

Chiuse le porte del conclave, nel primo scrutinio potrebbero cadere su Dolan già molti voti, forse non i 47 di Ratzinger nella prima votazione del 2005, ma pur sempre parecchi.

Il seguito è ignoto.

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LA LEZIONE DEL CONCLAVE CHE VOTÒ RATZINGER



Il detto "Chi entra papa esce cardinale" è stato quasi sempre smentito dai conclavi dell'ultimo secolo.

Per bruciare la sicura elezione a papa del cardinale Mariano Rampolla del Tindaro, nel 1903, ci volle un veto dell'imperatore d'Austria-Ungheria.

Nel 1939, a Eugenio Pacelli bastarono tre votazioni per essere eletto papa col nome di Pio XII.

Un po' più incerta fu l'elezione del suo successore Giovanni XXIII, nel 1958, con i voti, confidò poi lui stesso, "che andavano su e giù come ceci che bollono in pentola".

Ma Paolo VI non ebbe contendenti, nel 1963. E così Giovanni Paolo I nel 1978, eletto in un conclave fulmineo.

Su Karol Wojtyla non c'è certezza, ma c'è chi sostiene che anche lui partì forte fin dal primo scrutinio.

Joseph Ratzinger fu fatto papa in meno di ventiquattr'ore.

L'andamento del conclave del 2005 è esemplare, per capire i meccanismi del voto. I votanti erano 115 come oggi, con la soglia dei due terzi a 77 voti.

Stando alle indiscrezioni fin qui trapelate, nel primo scrutinio a Ratzinger andarono 47 voti, 10 all'argentino Bergoglio, 9 a Carlo Maria Martini, 6 a Ruini, 4 a Sodano, 3 a Maradiaga, 2 a Tettamanzi.

Ratzinger apparve subito, dunque, come l'unico candidato forte. Di conseguenza, nella seconda votazione, i cardinali che non l'avevano votato si trovarono indotti a decidere se appoggiare lui od opporre resistenza. I voti di Ruini e di altri confluirono su Ratzinger, che salì a 65 voti, mentre i voti di Martini e di altri oppositori andarono a Bergoglio, che arrivò a 35.

Nel terzo scrutinio la polarizzazione si accentuò. Ratzinger ebbe 72 voti e Bergoglio 40. Al primo mancava pochissimo per raggiungere il quorum, ma i 40 voti di Bergoglio erano sufficienti per bloccare la sua elezione. Se fossero stati riconfermati negli scrutini successivi, la candidatura di Ratzinger non avrebbe più avuto futuro.

Ma non andò così. I 40 voti su Bergoglio erano così eterogenei che, rapidamente come erano su di lui confluiti, altrettanto rapidamente si sgretolarono.

Alla quarta votazione Ratzinger arrivò a 84 voti, con Bergoglio sceso a 26. E la fumata fu bianca.

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Questi due articoli di Sandro Magister sono usciti su "L'espresso" n. 10 del 2013, in edicola dall'8 marzo.

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Tra gli italiani, i "papabili" che più hanno trovato posto nei pronostici della prima ora sono stati l'arcivescovo di Milano Angelo Scola e il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del pontificio consiglio della cultura.

Entrambi sono però entrati in ombra man mano che il conclave si avvicinava.

La candidatura di Ravasi, in realtà, è stata solo un prodotto mediatico. Tra i cardinali non ha mai preso quota.

Pur apprezzando, infatti, la maestria con cui Ravasi opera nel campo della cultura, in molti cardinali sono ultimamente cresciute le riserve a proposito del modo con cui egli conduce l'iniziativa di dialogo con i non credenti denominata "Cortile dei gentili".

A molti è parso che gli incontri si riducessero a una semplice esposizione di visioni culturali diverse, senza uno sforzo evidente di "chiamare in causa Dio" e risvegliare su di Lui una scelta.

E molti hanno letto nel messaggio indirizzato da Benedetto XVI al "Cortile dei gentili" di Lisbona del 13 novembre 2012 una correzione di rotta, come spiegato in questo servizio di www.chiesa:

> Avviso di restauri nel "Cortile dei gentili"

__________http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1350453

Un americano a Roma

Rapsodia dei porporati che rappresentano la religione più diffusa nel paese più importante e, con Obama, meno minaccioso del mondo. Leading from behind

Nella geopolitica del Conclave la superpotenza si presenta con la barba lunga, porta un saio francescano cinto in vita con una corda, calza sandali anche quando sulla costa atlantica tira un vento gelido. Ha una particolare vocazione per la risoluzione silenziosa dei problemi, senza eccessi muscolari o complessi di superiorità antropologica: Sean O’Malley, cardinale di Boston, sfoggia il piglio fattivo del problem solver ma senza il fardello del poliziotto globale, profilo che incidentalmente s’attaglia a quello dell’America di Barack Obama, superpotenza in tono minore che si confonde nella cortina fumogena del suo stesso “leading from behind”. Se il vecchio veto sulla sovrapposizione fra il potere globale di Washington e quello universale d’oltretevere ha ancora qualche diritto di cittadinanza, non si applica granché alla severità monastica di O’Malley. Il gesuita Thomas Reese, voce influente del cattolicesimo americano di sponda progressista, dice che il Vicario di Cristo non si può confondere con il legato di Washington, non è bene indurre riflessi complottisti intorno a un Conclave segretamente diretto dalla Cia e pagato da Wall Street; serve un “Gesù con un master in business administration” e nel novero delle preferenze progressiste l’attiva squadra nordamericana, quella di Dolan, Ouellet, DiNardo e O’Malley, non presenta alternative abbastanza riformiste. Troppi tratti di continuità con Benedetto XVI, troppo rigore teologico, sostiene la “sinistra” cattolica americana; ma per evitare di affrontare il problema frontalmente si appella al meno corrosivo argomento della superpotenza che, in quanto tale, è unfit to lead la chiesa cattolica.
“Che l’America di oggi sia una superpotenza in senso classico è tutto da dimostrare”, dice al Foglio un attento osservatore delle dinamiche vaticane, e nella squadra americana che è piombata su Roma con ampio sostegno di portavoce e addetti stampa non c’è cardinale più lontano dall’immagine della superpotenza di O’Malley, il cappuccino che con carità francescana e rigore teologico ratzingeriano ha raddrizzato la diocesi di Boston, fortezza del cattolicesimo di matrice irlandese sbreccata dagli abusi sessuali. Ha venduto i beni della diocesi per risarcire le vittime e le loro famiglie, si è messo all’ascolto dei fedeli, ha rassicurato e corretto, si è ritirato lui stesso in una cella, compiendo un gesto in cui riluce l’analogia con l’abdicazione mistica e monastica del pellegrino Benedetto XVI. Prima di Boston aveva messo ordine nella diocesi di Palm Beach, in Florida ed era stato missionario in quel confine, delicatissimo nel contesto della parabola demografica degli Stati Uniti, fra il popolo cattolico anglofono e quello ispanico e latino. La celebrazione dei funerali dell’abortista Ted Kennedy non è una macchia sull’ortodossia cardinalizia, piuttosto un segno dell’inclinazione caritatevole.
Il cattolicesimo negli Stati Uniti è un fenomeno in fase di consolidamento: con quasi 78 milioni di fedeli, quella cattolica è la prima denominazione religiosa, e lo storico cattolico e conservatore Joseph Bottum ha scritto un libro – in uscita fra qualche mese – nel quale fissa i tratti del “great awakening” cattolico: dopo i tre risvegli riformati che hanno atomizzato il protestantesimo, la chiesa cattolica ha riempito i vuoti religiosi dell’America Wasp. O’Malley dice da tempo che il suo biglietto per Roma è di andata e ritorno, ma un esegeta delle dinamiche del Conclave dice al Foglio che “questo è il Conclave nordamericano”: mettendo insieme i tratti teologici e antropologici, O’Malley ha il profilo del candidato perfetto. Qualcuno dice anche che il cardinale Camillo Ruini si stia muovendo per sostenerlo; dagli ambienti ruiniani confermano che l’interesse del cardinale è tutto orientato verso gli Stati Uniti ma il suo candidato è Dolan, arcivescovo di New York e presidente della Conferenza episcopale americana, il pastore in battaglia culturale perenne con l’egemonia della secolarizzazione, ma senza complessi da accerchiamento. Dolan è il cardinale che non ha fatto nulla per evitare lo scontro con l’Amministrazione Obama sulla legge che obbliga gli istituti religiosi a fornire ai propri dipendenti (o studenti, nel caso di scuole e università) contraccettivi e farmaci che possono indurre un aborto. Non ne ha fatto una battaglia difensiva, di retroguardia, ma l’ha usata come argomento per spiegare a tutta l’America, non solo a quella cattolica, che il governo stava violando innanzitutto il principio laico e costituzionale della libertà religiosa. Non è un caso che Ruini si stia spendendo per Dolan. E’ nel contesto della “nuova” laicità americana – opposta dal cardinale reggiano all’appiattimento relativista della laïcité francese – che la lezione ruiniana ha dato i frutti più succulenti per la chiesa. Diverse fonti vicine al cardinal Ruini ci dicono che per trovare l’applicazione delle idee ruiniane sul rapporto fra chiesa e mondo bisogna guardare oltreoceano, non oltretevere.
Dolan è il pastore che è riuscito a conciliare il rigore teologico e la capacità di parlare la lingua del mondo; non lo ha fatto soltanto aggiungendo un banale pizzico di nuovismo a una ricetta vecchia (gli interventi sul blog, il programma radiofonico, i social network) ma cambiando il vocabolario della presenza pubblica della chiesa senza negoziare sui principi. E’ un teologo conservatore stimato da Ratzinger – che lo ha innalzato da una diocesi periferica, seppure importante, al collegio dei cardinali in meno di tre anni – che non osserva il mondo dal bunker di una chiesa votata al gioco difensivo. Ci sono molti punti di contatto fra Dolan e O’Malley, ma anche una differenza: il cardinale di New York, al contrario del più mite cappuccino con la barba, ha il piglio e il potere immaginifico del leader; è un decisionista naturale, un pastore di polso che ha dimostrato di saper mettere ordine all’interno e all’esterno. Per questo è detestato dagli avversari esterni, che lo vogliono capziosamente associare a vecchi insabbiamenti di abusi nella diocesi di Milwaukee, ed è guardato con sospetto nella curia romana che vede nella debolezza del Papa che verrà fuori dal Conclave la chiave per mantenere lo status quo. Alcune fonti dicono che l’ipotesi di un ticket fra il brasiliano Odilo Scherer e l’italiano Piacenza è stata messa in giro da fonti curiali per sgonfiare l’ipotesi nordamericana che felicemente s’accorda con la visione ruiniana del mondo.

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