Liturgia cantata: origini e oblio, di Mattia Rossi
Sarebbe piuttosto banale, ancorché (per alcuni) molto utile, in questo
numero dedicato alla continuità liturgica nella Tradizione, citare i
passi della Sacrosanctum Concilium nei quali si afferma che la Chiesa affonda le proprie radici liturgico-musicali nel canto gregoriano.
I Padri conciliari vollero sottolineare, attraverso l’impiego di due
precisi termini – traditio e progressio –, quanto la riforma liturgica
venisse compiuta nel segno della continuità con il magistero precedente
(«per conservare la sana tradizione», SC 23), ma senza che questo
precluda a priori una qualche forma di innovazione («e aprire nondimeno
la via ad un legittimo progresso», ibid.).
Il paragone evangelico col «padrone di casa che estrae dal suo tesoro
cose nuove e cose vecchie» (Mt 13, 52), si presta molto bene a
raffigurare la l’idea di musica sacra che concepì il Concilio Vaticano
II: un repertorio, cioè, che riconoscesse il «canto gregoriano come
canto proprio della liturgia romana» (SC, 116), assieme alla polifonia,
ma invitando anche i compositori contemporanei alla composizione di
“nuove” melodie che ben si addicano alle caratteristiche della
tradizionale musica sacra (cfr. SC, 121) già indicate da Pio X.
Quest’idea della canonicità nello sviluppo – e, si noti, che la fissità,
in generale, costituisce la vera garanzia che la Chiesa ci offre per
camminare senza pericolo tra i binari dell’ortodossia – non va letta
solamente come un doveroso recupero del gregoriano e della polifonia
tout court all’interno della liturgia riformata, ma occorre sforzarsi di
permeare la nostra mentalità moderna in un’ottica che tenga conto del
retroterra teologico del quale, le musiche liturgiche antiche, erano
pervase.
Non basta, in breve, a cantare qua e là qualche antifona gregoriana o
qualche Kyrie polifonico della tradizione: occorre riscoprire
quell’immenso substrato di significati ormai andati perduti.
Non voglio, in questa sede, ripetere i luoghi comuni sull’oblio del
gregoriano e della polifonia dalla liturgia riformata, ma voglio,
invece, fare due esempi di come si possa instaurare una continuità tra,
la tradizione e il presente, tra il vetera e il nova.
1. Sono ben note a chiunque abbia un minimo di familiarità con le
dispute postconciliari le posizioni di chi, per difendere - non si sa da
che cosa - il Novus Ordo, assicura che la riforma liturgica fu dettata
dal desiderio di restituire la liturgia agli antichi usi dei primi
secoli o, addirittura, dell’età apostolica.
Non è mio compito entrare nel merito della veridicità o meno di tali
affermazioni, ma mi limito solamente a notare come, a parità di “usi
primitivi”, non si segua anche la norma delle prime comunità secondo cui
il celebrante canta il rito e non lo recita.
Quanto questo “uso primitivo” (questo, sì, provato!) sia “in uso” tra i
sacerdoti credo stia sotto gli occhi di quanti frequentano le nostre
messe domenicali.
Musica e culto rituale, da un punto di vista storico, furono da sempre
connesse: nell’antichità anche i culti pagani erano cantati (da qui il
termine ‘incantesimo’, ovvero ‘in-canto’) e il cristianesimo, e prima
ancora l’ebraismo, videro nel canto il miglior metodo per sacralizzare
il rito.
Questo fu chiarissimo sin da subito: da san Paolo e i primi Padri della
Chiesa sino al Concilio Vaticano II. Perché, allora, chi spaccia
un’indiscutibile “dogmaticità” (che non esiste) del Vaticano II in tema
di liturgia (lingua, orientamento della celebrazione, architettura
sacra, per esempio) non la osserva anche in tema di musica sacra?
Il principio-guida è, in semplici parole, che non si canta nella messa, ma di deve cantare la messa.
E su questo, come dicevo, anche il Vaticano II segue la Tradizione che
dalle origini, passando per il messale di Pio V, vede nel canto del
celebrante la prima e pura manifestazione di sacralità rituale: l’ancora
troppo dimenticato documento Musicam Sacram (Istruzione della Sacra
Congregazione dei Riti sulla musica nella Sacra Liturgia) non lascia
spazio a varie interpretazioni possibili: vi sono tre gradi di priorità
nella scelta delle musiche che, contrariamente al pensiero comune (e
all’abitudine comune), vedono “al primo posto” le parti «spettanti al
sacerdote ed ai ministri, cui deve rispondere il popolo o che devono
essere cantate dal sacerdote insieme con il popolo» (I, 7), come, ad
esempio, il saluto del celebrante, le orazioni, il prefazio con il
dialogo, le formule di congedo, etc. «Il secondo e il terzo [grado],
integralmente o parzialmente, solo insieme al primo» (III, 28). Per
secondo grado si intendono Kyrie, Gloria, Agnus Dei e Credo.
Ma più interessante è il fatto che i canti processionali di ingresso, di
comunione o di offertorio, i canti che noi riteniamo più
“indispensabili”, rientrino solamente nel terzo grado che perciò, oltre
ad essere all’ultimo posto di priorità, non possono essere eseguiti se
non a completamento degli altri due gradi.
La prassi, però – inutile dirlo –, non è questa: ancora una volta si
attribuisce al Vaticano II una priorità (il canto dell’assemblea) che,
in realtà, questi vuole solamente in seguito all’adempimento del primo
obbligo, il canto del celebrante.
E’ solamente se il sacerdote, l’alter Christus, canta che tutti noi “formati al suo divino insegnamento, osiamo dire”.
Da un punto di vista musicale, le parti proprie del celebrante fanno
parte dei cosiddetti recitativi: quei testi, cioè, che vengono
proclamati su una sola nota (corda di recita) dalla quale ci si discosta
con leggere inflessioni in corrispondenza dei segni di punteggiatura.
Essi sono, storicamente, le parti più antiche del repertorio gregoriano:
a prova di ciò vige il fatto che esse sono le forme musicalmente più
semplici e in esse, proprio perché sono le prime a essere nate, vi è
l’embrione di quello che sarà il gregoriano.
Il loro abituale impiego liturgico è dimostrato dal fatto che, essendo
le parti che più di tutte venivano cantate, proprio per la loro
‘ordinarietà’ non si sentì il bisogno di scriverle.
Una interessante particolarità, che non deve assolutamente sfuggire ai
nostri occhi, è come quasi ogni recitativo preveda due possibili forme:
una semplice e una solenne.
Questo significa che il canto non era visto come un qualcosa in più, ma
sostanzialmente diverso, dalla quotidianità del parlato: il canto era
elemento strutturale della liturgia sempre, non solo nella festività; la
liturgia era canto.
Questo è il primario compito del canto liturgico che il Vaticano II,
nell’Istruzione sopracitata, richiede espressamente prima ancora di
qualsiasi supposta partecipazione assembleare.
Ma l’oblio del volere conciliare è cosa, purtroppo, ben nota.
2. In questa seconda parte, vorrei riflettere, sempre nel segno della “continuità” tra vetera et nova, sul canto di comunione.
Il repertorio gregoriano, maestro di precisione e di aderenza
liturgico-testuale, ci insegna, riguardo al bagaglio dei canti di
comunione, principalmente due cose: in primo luogo che ogni domenica ha
una propria antifona la quale è dedicata a quel preciso giorno e non è
interscambiabile con nessun’altra, in secondo luogo che, nella grande
maggioranza dei casi, il testo del communio è un passo della pericope
evangelica.
Ecco, qui, frantumarsi un mito, quello del canto eucaristico alla
comunione: il gregoriano, invece, ci insegna che al culmine della
celebrazione, la meditazione conclusiva (il communio è l’ultimo canto
della messa, il Graduale non prevede canti finali) deve esser condotta
sulle parole di Cristo stesso ascoltate nel testo evangelico.
La mia riflessione (e, perché no?, una proposta) riguarda l’antico uso
per il canto di comunione, ovvero il canto del salmo 33: “Gustate e
vedete com’è buono il Signore”.
Nella chiesa primitiva, questo salmo, veniva cantato integralmente in
directum, cioè senza ritornelli (e l’uso fisso del salmo 33, di fatto,
equiparava il canto di comunione ad un canto dell’Ordinarium), ma dal V
sec. sentì l’esigenza di creare un semplice ritornello da intercalare al
salmo .
L’antifona gregoriana «Gustate et videte quoniam suavis est Dominus:
beatus vir qui sperat in eo» traduce, nella sua musica, l’implicita
“eucaristicità” di questo testo.
Il forte allargamento della prima parola, «Gustate», rimanda
irrimediabilmente al senso del gusto, all’appagamento nel gustare un
piatto prelibato: ritorna, qui, la profezia del cap. 25 del Libro di
Isaia («Preparerà il Signore degli eserciti per tutti i popoli, su
questo monte, un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini
eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati»,) e il «gusterete
cibi succulenti», del salmo 55.
Occorre, dunque, affinché il cibo spirituale del corpo di Cristo non
scada nella ritualità del pasto quotidiano gustare ogni volta e vedere
la bontà del Signore. Ecco che, solo a questo punto, emerge quel valore
aggiunto che ha il cristiano: è beato perché si rifugia nel Signore.
Ed ecco che, qui, si assiste nuovamente ad un rallentamento della
musica: l’andamento ritmico, finora abbastanza scorrevole, frena
bruscamente su «qui».
Il senso è esattamente quello di creare suspense sia testuale (data
dall’incompletezza della frase) sia musicale; l’ascoltatore, a questo
punto, raccoglie le proprie attenzioni sull’attesa di ciò che dovrà
essere detto, «sperat»: è beato colui che spera in Lui!
Ecco come il compositore gregoriano ha interpretato, in una sorta di omelia in musica, il senso del salmo 33.
La triste riduzione del Vaticano II a semplice supermercato nel quale
ognuno attinge solamente allo scaffale desiderato, mentre gli altri si
tralasciano indifferentemente, è un argomento al quale sempre più
persone si stanno interessando: l’operato del papa Benedetto XVI,
all’insegna dell’“ermeneutica della continuità”, è, in questo senso,
guida ed esempio.
E lo sia anche il canto gregoriano, straordinaria lex orandi in musica
che la tradizione della Chiesa ci consegna, che, nelle sue molteplici
sfaccettature e significati reconditi, ci svela parte di quell’immenso
carico di concetti e rimandi teologici che troppe banali superficialità
liturgiche, inconsapevolmente, eliminano.
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